• Non ci sono risultati.

CAPITOLO I: INQUADRAMENTO DEI PROBLEMI TEORICI DELLA FISCALITÀ

6. Il mercato digitale: locus artificialis delle imprese digitali e ordine giuridico proprio

In ogni caso, i modelli considerati si vanno a iscrivere in un contesto economico che sembra abbastanza differente da quello classico, ossia si integrano nel c.d. “mercato digitale”. A ben vedere, infatti, il mercato digitale, considerando il ruolo assunto dalla digitalizzazione che consente la moltiplicazione dei soggetti coinvolti e la continua intercambiabilità di consumatori produttori utenti, sembra essere significativamente diverso e distinto dal mercato tradizionale.Appare, dunque, comprensibile e giustificato che la dimensione si estenda, a mano a mano, che si sviluppa la ricchezza e che, d'altra parte, lo sviluppo della ricchezza richieda per affermarsi una dimensione sempre più ampia.

Risultano, da un lato, inadeguati per il mercato dell'economia digitale quei limiti territoriali che tradizionalmente hanno accompagnato lo sviluppo dei mercati nazionali a definire l'ambito di efficacia della sovranità nazionale e, dall’altra parte, ingiustificati per il mercato dell'economia digitale i limiti territoriali che contribuiscono a regolare giuridicamente la circolazione dei beni nella ricerca della sicurezza offerta dal traffico giuridico nazionale che a sua volta rispondeva alle regole del relativo ordinamento o presidiavano il territorio nel traffico internazionale di merci. Il successo a-territoriale dell'economia digitale in una continua espansione del mercato di riferimento è radicalmente

78

diverso da quello dell'economia industriale. Quest’ultima, infatti, era nata nella corrispondenza tra ambito giuridico di sovranità nazionale e operatività economica del mercato e, conseguentemente, sollecitava per un proprio pieno sviluppo la creazione di uno spazio di scambio più ampio dei tradizionali confini nazionali.

Lo sviluppo dell'economia industriale ha così indotto nell'ambito europeo ad una progressiva estensione del mercato di riferimento, superando i tradizionali confini nazionali, che, in ogni caso, restavano come presidio territoriale dell'efficacia dell'ordinamento giuridico nazionale, ma con la creazione di un mercato comune. Se lo sviluppo dell'economia industriale sollecitava conseguentemente in Europa una progressiva integrazione dei mercati nazionali, in quello che originariamente previsto come comune sarebbe diventato poi mercato unico per divenire poi interno in un assetto definitivo dal 1993 che non è poi ulteriormente mutato, si accentuava il rischio di alimentare pluralismi giuridici che avrebbero finito per ostacolare con regole nazionale lo sviluppo dell'economia europea che invece aveva richiesto un mercato interno.

Di qui l'esigenza che il mercato diventato europeo non potesse rimanere ostaggio delle norme nazionali come corollario della coesistenza di pluralismi giuridici che avrebbe frustrato lo stesso sviluppo dell’economia, vittima di un'incertezza continua e ricorrente, che avrebbe finito con il vanificare poi gli stessi obiettivi di sviluppo economico che la creazione di un mercato integrato com'era diventato quello europeo. Di qui la necessita di adottare norme sovranazionali che seguendo il riparto delle competenze che solo definitivamente dopo i pilatri l'ordinamento europeo ha conosciuto potesse sottrarre in nome di un primato presidiato dalla progressiva limitazione della sovranità che l'adesione all'Unione ha comportato. Un successo unico nelle tradizioni giuridiche nazionali perché ha comportato una progressiva integrazione degli ordinamenti nazionali in quello europeo dando origine ad un ordinamento sempre più integrato che ha superato quella contrapposizione tra ordinamenti giuridici che lo sviluppo dell'economia industriale in un mercato sempre più integrato non avrebbe potuto sopportare. Il mercato, infatti, rappresentando quel locus

artificialis121 creato dal diritto in cui sono regolati i traffici commerciali, identifica allo stesso

79

tempo sia il luogo giuridico in cui si concludono gli affari commerciali sia lo statuto di riferimento applicabile agli stessi.

Come già visto, Internet è stato spesso identificato come un mercato, se non come il Mercato. Internet, nella struttura essenziale, è una rete di computer o di dispositivi diversi che possono accedervi i quali possono interagire fra di loro. Internet, dunque, è la struttura in cui questi soggetti possono comunicare anche a fini commerciali ed è in questo non-luogo che si concludono affari commerciali ogni giorno. Non è un caso che tra gli obiettivi più ambiziosi della Commissione Europea presieduta da Jean-Claude Juncker ci sia quello di realizzare un mercato unico digitale in cui rimuovere “gli ostacoli esistenti a livello di scambi online” che impediscono ai cittadini di sfruttare tutte le possibilità relative a beni e servizi, alle imprese e le start-up online di ampliare i propri orizzonti di manovra e, più in generale, alle imprese e ai governi di beneficiare pienamente degli strumenti digitali.

La strategia per il mercato unico digitale è composta da tre ambiti d’azione o "pilastri", ossia migliorare l'accesso dei consumatori e delle imprese ai beni online, contribuendo a rendere il mondo digitale dell'UE un mercato fluido ed equo per chi compra e chi vende, un ambiente in cui le reti e i servizi digitali possano prosperare, definendo le norme che vadano di pari passo con la tecnologia e sostengano lo sviluppo delle infrastrutture, e il digitale come motore della crescita, garantendo che l’economia, l’industria e l’occupazione in Europa possano trarre pieno vantaggio da ciò che la digitalizzazione offre.

Come rilevato nella dottrina giuscommercialistica122, per il giurista non esiste il mercato digitale, ma i mercati digitali, tale conclusione sarebbe confermata dall'esame della catena del valore che caratterizza ciascuno di questi mercati e dallo studio delle loro reciproche interrelazioni. Tra le diverse ipotesi di categorizzazione del digitale, in realtà, si dovrebbe preferire un approccio diverso ossia che parte dal mercato digitali o dai mercati digitali, ossia dai luoghi giuridici in cui si concludono degli affari, nella normalità dei casi, mediante l’utilizzo di intermediari, i quali sono il centro della maggior parte dei modelli di business dell’economia digitale.

80

Contrariamente a quanto sostenuto in passato123, dunque, l’attività di intermediazione è diventata necessaria affinché l’illimitata estensione del mercato digitale da elemento di forza diventasse elemento di debolezza. È evidente, infatti, che in un mercato senza confini il consumatore cerca di rivolgersi verso degli operatori qualificato verso cui possa confidare in un certo grado di sicurezza dell’effettività di alcune operazioni. Secondo una classificazione recentemente proposta in dottrina124, i mercati di Internet (o mercati digitali) possono essere utilmente pensati come un sistema a strati sovrapposti così composto: • Dispositivi e sistemi (hardware); • Software e soluzioni ICT (accesso alla rete, programmi); • Servizi navigazione in rete (piattaforme, motori ricerca ecc.); • Advertising (Google); • E- commerce (Amazon). Sembra evidente che tutte questi sistemi siano diversi fra di loro e, spesso, anche all’interno dello stesso settore è difficile trovare un minimo comun denominatore. Le imprese che operano nella produzione di dispositivi e sistemi informatici sono delle tradizionali imprese che producono beni fisici, mentre le imprese che producono software producono beni immateriali. Estremamente diverse appaiono le imprese che

123 L'affermazione del modello dell'intermediazione nel commercio elettronico è stata oggetto di vasto studio

da parte della letteratura economica. In estrema sintesi, alcuni studiosi, sulla base della considerazione degli incentivi per produttori e consumatori ad escludere gli intermediari dalla catena del valore in ragione dei costi significativi che essi implicano, hanno ipotizzato lo scenario della cd. disintermediation in parallelo con l'utilizzo avanzato delle tecnologie e l'evoluzione dei marketplaces elettronici [in tema, si segnalano MALONE, YATES, BENJAMIN, The Logic of Electronic Market, in Harvard Business Review, 1989, vol. 67, no. 3; MALONE, YATES, BENJAMIN, Electronic Markets and Electronic Hierarchies, in Communication of the ACM, 1987, vol. 30, no. 6; BENJAMIN, WIGAND, Electronic Commerce: Effects on Electronic Markets, in Journal of Computer-Mediated Communication, 1995, vol. 1, no.3.; BENJAMIN, WIGAND, Electronic Markets and Virtual Value Chains on the Information Superhighway, in Sloan Management Review, 1995, vol. 36, no. 2., p.62; SHAFFER, ZETTELMEYER, The Internet as a Medium for Marketing Communications: Channel Conflict over the Provision of Information, Working paper, 1999. In contrasto con la teoria della disintermediation, altri autori, anche sulla base di rilevazioni empiriche, hanno previsto un ruolo centrale degli intermediari nell'e-commerce e la creazione di mercati completamente nuovi per i cybermediaries [si vedano, ad esempio, SARKAR - BUTLER -STEINFELD, Intermediaries and cybermediaries: A continuing role for mediating players in the electronic marketplace, 1(3) Journal of Computer-Mediated Communication 1 (1995); BHARGAVA, CHOUDHARY, KRISHNAN, Pricing and product design: Intermediary strategies in an electronic market, in International Journal on Electronic Commerce, 2000, vol. 5, no.1; CHIRCU, KAUFFMAN, Reintermediation Strategies in Business-to-Business Electronic Commerce, 4(4) in International Journal on Electronic Commerce, 2000, vol. 4, no. 4, p.7. Per una sintesi su tali teorie, si rinvia a ELBERSE, BARWISE, HAMMOND, The impact of the internet on horizontal and vertical competition: Market efficiency and value chain reconfiguration, in The Economics of the Internet and E-commerce, in Advances in Applied Microeconomics, a cura di Baye, 2002, Vol. 11, no. 1, pp. 17-21. Ai fini della presente trattazione, l'utilizzo della terminologia di cybermediaries, e-mediaries e simili con riferimento agli intermediari on-line va intesa come sostanzialmente equivalente.

81

forniscono servizi di navigazione in rete e/o che sono dei grandi portali pubblicitari o, ancora, che agiscono nel commercio elettronico.

Il mercato digitale, così come il mercato tradizionalmente inteso, invoca l'assoluta libertà di azione dei singoli operatori economici, intesa come libertà imprenditoriale nell’iniziativa economica e nella concorrenza e alla libertà di scelta dei consumatori, come fondamento di efficienza organizzativa125. Allo stato attuale, il mercato digitale vive di contraddizioni, da un lato, sembra caratterizzato da una totale anomia, dall’altro, invece, sembra essere parcellizzato e non pienamente integrato, dati le ancora esistenti barriere statuali all’accesso nel mercato di operatori economici stranieri. Un concetto da intendersi qui non come mancanza assoluta di regole, bensì come rifiuto di disciplinare il fenomeno Internet nel suo complesso e in quanto tale. In altre parole, le regole giuridiche e, specificamente, quelle tributarie sono in vigore, ma disciplinano il mercato digitale così come qualsiasi altro mercato.

Questo potrebbe continuare a essere la scelta del legislatore di astenersi da interventi per regolare il mercato, soprattutto da un punto di vista fiscale, considerato che la velocità dei cambiamenti (tecnici, economici e sociali) in atto nei mercati digitali, lungi dal diminuire, sembra destinata ad aumentare in misura esponenziale col passare del tempo. Ciò non significa, ovviamente, che i legislatori si astengano dal positivizzare norme per regolare il fenomeno. Allo stesso modo, la consapevolezza dei cambiamenti in atto in questi mercati non deve indurre a ritenere che Internet sia una sorta di luogo senza regole dove tutto è consentito e dove la libertà d'iniziativa economica non conosce limiti.

Tuttavia, è di solare evidenza come ogni intervento del legislatore finirà, inevitabilmente, per interferire con lo sviluppo di quell'ecosistema, condizionando la evoluzione e la strategia delle imprese che in esso operano. Inoltre, data la possibilità di enorme mobilità dei fattori produttivi, tali interventi potrebbero rilevarsi anche inefficaci.

A queste considerazioni se ne possono poi aggiungere altre, basate sull'utilizzo “promiscuo” di Internet sia come piattaforma di scambio di beni e servizi, sia come strumento di manifestazione della libertà di pensiero, il che ha indotto alcuni ordinamenti a

82

considerare l'accesso alla rete alla stregua di un diritto fondamentale della persona costituzionalmente garantito.

La linea di confine tra le due funzioni diviene ancor più sottile laddove si consideri che, in taluni mercati, la manifestazione del pensiero attraverso Internet può assumere un autonomo valore commerciale e viceversa. Con la conseguenza che regolare i mercati digitali, oggi, significa inevitabilmente confrontarsi con gli effetti che tale intervento produce sul mercato delle idee e sulla libertà di manifestazione del pensiero.

Se a ciò si aggiunge la difficoltà, dal punto di vista giuridico, di assicurare effettività a norme destinate ad essere applicate in mercati di dimensioni effettivamente globali come quelli di cui si discute, appare davvero difficile immaginare che la risposta a questi interrogativi possa provenire da atti normativi di singoli Stati, considerando che il mercato digitale è mercato globale.

In questo l’opera unionale, invece, potrebbe portare a una circoscrizione dell’ambito territoriale di riferimento del mercato, costruendo dei confini artificiali estesi quanto l’Unione al fine di garantire la certezza e l’effettività delle norme poste a presidio del gettito degli Stati Membri e dell’Unione stessa. Tale azione avrebbe lo stesso effetto di quanto accaduto con la creazione del Mercato Unico con la differenza sostanziale che, in quell’occasione, si dovevano abbattere le barriere statuali che limitavano il Mercato, qui si tratta di crearle “artificialmente”. Questa sarà la grande sfida per il legislatore europeo per gli anni a venire e sarebbe probabilmente la sede più opportuna in cui affrontare le tematiche fiscali del mercato digitale.

Dal punto di vista del tributarista, oltre ai discorsi di cui sopra, bisogna considerare la diversità degli approcci nella trattazione delle imprese digitali e del mercato digitali. In sostanza, sembrerebbe che affrontare il tema della fiscalità delle imprese digitali privilegi, in particolare, il tema della tassazione diretta e personale di queste imprese, viceversa discorrere del mercato digitali implica delle riflessioni in merito alla tassazione indiretta dell’economia digitale.

7. L’innovazione e il ruolo del diritto tributario: tra incentivazione e progressiva erosione delle basi imponibili

83

In questo contesto costituito di imprese digitali che commerciano beni digitali in un mercato digitale, è opinione comune che il diritto tributario sembra soffrire più di altri settori la dematerializzazione dei soggetti, degli oggetti e del territorio di riferimento. In verità, dietro tale assioma si cela una realtà giuridica assai problematica, in cui apparrebbe opportuno modificare la prospettiva dell’analisi, coinvolgendo problematiche che non sono prettamente tributarie.

Per essere più chiari, è evidente che i problemi si pongono sul piano del carico fiscale che sembrerebbe essere più leggero per le imprese digitali rispetto a quelle tradizionali che non hanno le stesse opportunità di ridurre la loro base imponibile e, conseguentemente, sul gettito fiscale da ciò derivante.

In seguito alla crisi economica del 2008, in particolare, è invalso l’uso di ritenere ormai insopportabile le sperequazioni del carico fiscale concentrato tanto sul lavoro e poco sul capitale e non in grado di lottare efficacemente contro gli schemi elusivi ed evasivi predisposti dalle multinazionali.

Una delle categorie di soggetti più accusate di strutturare il proprio business in modo da non contribuire alle pubbliche spese nel Paese in cui insiste il mercato di riferimento è proprio quella delle imprese digitali. In particolare, si sostiene che queste imprese abbiano eroso le loro basi imponibili, allocando i propri redditi in Stati a fiscalità privilegiata per ridurre pesantemente il proprio carico fiscale sia nello Stato di residenza sia nello Stato della fonte con strumenti contrattuali e societari altamente sofisticati.

Proprio per queste ragioni, da diverso tempo, l’OCSE126 insieme con altre Istituzioni pubbliche e parte della dottrina ha dedicato un’attenzione particolare al tema della fiscalità della digital economy, dedicandogli, addirittura, l’Azione 1 del piano di azione orientato a combattere la cd. “Erosione delle basi imponibili e trasferimento degli utili” (Base Erosion Profit Shifting).

La particolarità del diritto tributario, ancora imperniato su categorie giuridiche tradizionali e sulla realtà economica industriale, dinanzi all’affermarsi di un’economia diversa in termini di produzione della ricchezza ha preoccupato non poco le Istituzioni pubbliche. La capacità delle imprese digitali di minimizzare il carico fiscale globale, poi, ha

126 Report OECD, “Electronic Commerce: The Challenges to Tax Authorities and Taxpayers, 1997 e al Report

84

portato gli Stati a cercare di reagire alla situazione creatasi anche con soluzioni normative e giurisprudenziali unilaterali al fine di intercettare una quota parte di questi “redditi nomadi” prodotta da "diseappered taxpayers". Tale condizione giuridico-economica ha portato qualcuno ad affermare con sicurezza che le categorie giuridiche attuali siano inadeguate a questa nuova realtà127. Posta la premessa della “questione fiscale”, il problema sembra essere individuato secondo una logica fin troppo semplicistica.

L’economia digitale è ormai l’economia stessa e, per questo, non si può pensare, almeno dal punto di vista del tributarista, di distinguere i due piani senza il perseguimento di una logica ben precisa, pensando di positivizzare normative con il solo scopo di riscuotere una quota parte dei redditi prodotti dalle imprese digitali, senza un ripensamento del sistema impositivo considerato nella sua totalità. Qualsiasi impresa può accedere al grande mercato digitale, ma solo poche di loro effettivamente hanno la possibilità di attuare degli schemi di pianificazione fiscale tali da consentirgli di ridurre, fino ad annullare, il carico fiscale.

Così come è vero, d’altra parte, che molte imprese tradizionali attuano schemi di pianificazione fiscale che, allo stesso modo di quelle digitali, consentono una significativa riduzione del carico impositivo globale128. Lo sviluppo dell’innovazione digitale, in generale, ha consentito a molte imprese non solo di raggiungere un grado di ottimizzazione della produzione, riducendo i costi e massimizzando i profitti, ma ha consentito anche la creazione di nuovi posti di lavoro con ulteriori benefici anche in termini ambientali129. L’economia digitale o Industria 4.0 o, ancora, economia dell’innovazione, insomma, rappresenta il grado di sviluppo industriale delle imprese e come tale deve essere incentivato o, comunque, non depresso attraverso misure punitive.

Sul punto, infatti, è ormai risaputo che diversi ordinamenti puntano al miglioramento della tecnologia delle imprese mediante una serie di progetti che, spesso, si sostanziano nell’uso o, anche, nell’abuso di “spese fiscali”, nelle varie forme di agevolazioni,

127 BERNARDI, La tassazione della Digital Economy nell’Action Plan BEPS n.1 dell’OCSE e nella

“Dichiarazione di Bari” del G7, in Le nuove forme di tassazione della Digital Economy, a cura di Del Federico e Ricci, Roma, Aracne, 2000, p. 27

128 Si pensi ai casi di Starbucks, FCA Auto esaminati dalla Commissione Europea in particolare per possibili

violazioni da parte degli Stati delle regole previste in tema di aiuti di Stato.

129 Si obietterà che nel futuro ci sarà una riduzione di posti di lavoro, a causa della forte “automatizzazione”

delle attività produttiva, ma, oltre ad essere una tesi tutta da dimostrare nelle premesse, non può essere l’argomento decisivo per schierarsi contro l’innovazione delle imprese. Sul punto si veda VERGA, L’industria 4.0 e il futuro dell’occupazione, ovvero un uomo e un cane, il sole 24 ore, 5 dicembre 2016.

85

ammortamenti speciali, ecc.130. L’economia digitale, generalmente, deve essere sostenuta in

toto, soprattutto in Europa, che paga un ritardo nella creazione di imprese innovative sia

dagli Stati Uniti sia dalla Cina, anche se gli interventi statali devono essere sempre rigidamente vagliati perché essi non contrastino con il divieto di discriminazione o di aiuti di stato, così come interpretati nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.In altre parole, lo sviluppo dell’innovazione porterà il sistema industriale, grande, medio o piccolo, verso un miglioramento dei processi produttivi, un aumento dell’interazione tra cliente/consumatore e produttore (sia sulla filiera B2b che B2c), un efficientamento energetico, e una diminuzione dei costi produttivi con relativo aumento dei margini di profitto.

La trasformazione digitale, infatti, è un processo in cui sono coinvolte tutte le imprese, nessuna di queste, infatti, può dirsi completamente affrancata dall’utilizzo del digitale. Dalla piccola impresa artigianale, la quale utilizza il digitale, rudimentalmente, come mezzo pubblicitario o per innovare i suoi processi produttivi attraverso l’utilizzo di macchinari “intelligenti”, all’impresa multinazionale, che vuole innovare la propria filiera produttiva ovvero commerciare in Stati diversi da quello di residenza senza presenza fisica, tutti gli operatori economici sono coinvolti nella rivoluzione digitale. L’integrazione, poi, di decine di tecnologie digitali ha cambiato, come visto, i modelli d’impresa tradizionali, la cui trasformazione digitale ha reso possibile l’adattamento della catena del valore di distinti settori dell’economia. La scomparsa delle barriere d’accesso al mercato ha provocato la nascita di un mercato globale in cui, in prima battuta, si è riscritto il concetto di libera concorrenza tra imprese131, creando una globalizzazione delle stesse, e, in seconda battuta,

Documenti correlati