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CAPITOLO II: LA DETERMINAZIONE E LA CARATTERIZZAZIONE DELLA

8. L’introduzione di tributi specifici per affrontare le sfide dell’economia digitale:

8.1. La via italiana alla tassazione dell’economia digitale: analisi della disciplina

L’art. 1, commi da 1011 a 1019, della legge di bilancio per il 2018 ha introdotto nell’ordinamento italiano un’imposta sulle transazioni digitali204, relative a prestazioni di

servizi effettuate mediante mezzi elettronici. L’imposizione di questo nuovo tributo, insieme alla ridefinizione dell’istituto della stabile organizzazione con cui si è codificata la

204Tra i primi commentatori della nuova disciplina si vedano PERRONE, CAPANO, La futura “web tax” tra

improvvisazione italiana e pragmatismo riformista dell’UE: un’analisi evolutiva, in Innovazione e Diritto, 2017, vol. 6, no. 5; DELLA VALLE, La web tax italiana e la proposta di direttiva sull’imposta sui servizi digitali: morte di un nascituro appena concepito? in Fisco, 2018, vol. 16, p. 1507; DE SANTIS, MAZZETTI, Web tax e ritenuta sulle proprietà intellettuali spingono all’emersione delle stabili organizzazioni occulte, in Fisco, 2018, vol. 18, p. 1730; AVOLIO, PEZZELLA, La web tax italiana e la tassazione dei servizi digitali, in Fisco, 2018, vol. 6, p. 525.

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“continuativa presenza economica”, dovrebbe rappresentare la soluzione italiana, almeno di breve periodo, all’erosione delle basi imponibili operata, nel caso di specie, dalle imprese digitali. Il legislatore italiano, infatti, alla luce della situazione di stallo venutasi a creare dopo la proposta congiunta dei governi italiano, spagnolo, tedesco e francese e le risposte tiepide o le controproposte degli altri Stati Membri dell’Unione e in attesa di una risposta coordinata a livello internazionale (OCSE) o, auspicabilmente, da parte della Commissione Europea, ha inteso percorrere la strada di una soluzione unilaterale, disattendendo così le conclusioni a cui era arrivata l’OCSE nella redazione del Report Finale dell’Action 1, orientato allo studio delle sfide fiscali nell’economia digitale.

In chiave comparata, questa misura rappresenta uno degli interventi più interessanti di un legislatore nazionale sul tema della fiscalità delle imprese digitali con l’istituzione di un tributo ad hoc, in considerazione del fatto che gli Stati hanno costantemente delegato la ricerca di soluzioni a interventi sovranazionali o, comunque, coordinati da organizzazioni come l’OCSE. Questa normativa, invece, in combinato disposto con le modifiche alla stabile organizzazione, intende superare il problema del radicamento territoriale dell’impresa, prendendo come legittimazione territoriale all’imposizione il committente di beni o servizi. L’imposta è, di fatto, una vera e propria “web tax”, intendendola, però, come una forma di imposizione sulle imprese digitali, a differenza della precedente “web tax” di cui all’art. 1- bis del decreto-legge n. 50 del 2017, la quale, invece, era una "procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata" e non già un tributo205.

Ciò premesso, però, si deve rilevare che la disciplina adottata che doveva entrare in vigore il 1° gennaio 2019, ma la cui vigenza è stata rinviata, in verità, sembra essere ispirata a una logica emergenziale e non in una prospettiva sistematica. I continui ripensamenti sull’imposta in sede di discussione governativa e parlamentare hanno contribuito, inoltre, a generare una serie di perplessità sul risultato complessivo dell’iter normativo. L’Italia, a differenza di quanto accaduto in altri Stati e di quanto consigliato in sede OCSE e Ue, ha introdotto un tributo specifico sull’economia digitale o, meglio, sulle transazioni digitali,

205 ZUCCHETTI, TARDINI, LANFRANCHI, The Italian “Web Tax”: The New Administrative Procedure for

Multinational Enterprises to Disclose Hidden Permanent Establishments in Italy, in Int. Tr. Pric. Journal, September/October 2017, p. 390; CERRATO, La procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata in materia di Stabile Organizzazione (cd. web tax transitoria), in Riv. Dir. Trib., 2017, vol. 6.

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discriminando tra i traffici commerciali che avvengono in via analogica e quelli che avvengono in forma dematerializzata. Si evidenzierà che vi sono diverse perplessità su questo nuovo tributo analizzandolo sotto il profilo della costituzionalità, della compatibilità con il diritto europeo e alla luce delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sottoscritte dall’Italia con altri Stati.

Prima di iniziare l’analisi critica della risposta italiana alla luce del diritto europeo e del diritto tributario internazionale, è necessario approfondire l’esame della normativa positiva così come risultante dalla versione consolidata della legge di bilancio 2018.

Come si accennava il nuovo tributo mira a colpire la capacità contributiva manifestata dalle prestazioni di servizi digitali operate dagli operatori economici rese nei confronti dei soggetti sostituti d’imposta, così come individuati dall’art. 23 del D.P.R. n. 600/73. Sostanzialmente, da questa prima definizione sembra che il tributo abbia lo scopo di tassare quelle transazioni digitali che avvengono tra un prestatore di servizi e un operatore economico residente in Italia, già sostituto d’imposta, secondo il classico modello “business- to-business” (b2b), escludendo, dunque, le transazioni “business-to-consumer” (b2c) e, dunque, il commercio elettronico indiretto.

Il fatto generatore dell’imposta, in sostanza, individua un profilo oggettivo nella presenza necessaria di almeno due soggetti: il prestatore dei servizi digitali e il committente. Il soggetto passivo dell’imposta è l’operatore economico o, meglio, il soggetto prestatore, residente o non residente, che effettua servizi digitali per committenti residenti, in numero complessivo superiore a 3.000 unità nel corso dell’anno solare. In concreto, il committente, che deve effettuare un pagamento nei confronti del prestatore del servizio, all’atto dell’adempimento deve operare una ritenuta a titolo d’imposta con obbligo di rivalsa sui soggetti passivi del tributo, tranne quando i soggetti passivi dell’imposta dichiarino di non superare il limite quantitativo di 3.000 operazioni nell’anno solare.

In aggiunta al soggetto che manifesta capacità contributiva mediante l’effettuazione di transazioni digitali, dunque, l’ordinamento ha previsto l’istituzione di un soggetto obbligato all’effettuazione e al pagamento della ritenuta, ossia il committente. Fondamentalmente, appare evidente che il legislatore abbia inteso istituire una forma di sostituzione d’imposta con ritenuta a titolo d’imposta, mediante cui il sostituto committente

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adempie l’obbligazione tributaria del sostituito, con le conseguenze, assai note, in caso di inadempimento del sostituto, ai sensi dell’art. 35 del D.P.R. n. 602/73.

Un primo profilo problematico, sotto il profilo soggettivo, almeno da un punto di vista competitivo per le imprese italiane, emerge dall’assimilazione tra prestatore residente e prestatore non residente. Se la disciplina italiana era orientata a colpire i cd. “Over the top” (Google, Facebook) allo stesso modo, questo tributo andrà a colpire soggetti economici residenti, i quali così si troveranno a cumulare questa forma d’imposizione con le altre già previste, determinando così una prospettiva assai paradossale.

Dal lato delle imprese residenti, queste si troveranno in una situazione di sostanziale discriminazione a rovescio, dovendo subire un ulteriore prelievo, dal lato dei grandi player internazionali, questi con il pagamento di un’aliquota piuttosto ridotta (3%) potranno affermare di aver assolto pienamente agli obblighi tributari nell’ordinamento italiano. Probabilmente, la decisione di inserire anche i soggetti residenti è dovuta in riposta agli eventuali problemi circa una possibile discriminazione, così come l’eliminazione del credito d’imposta che avrebbe anche significato l’assunzione del tributo all’interno della categoria delle imposte reddituali.

L’introduzione di una soglia oltre la quale il tributo è dovuto, poi, oltre alle questioni inerenti all’accertamento, rischia di esentare dall’imposizione soggetti che, pur effettuando un minor numero di operazioni, le abbiano svolto con ricavi superiori.

La normativa, infine, esclude dall’applicazione del tributo le prestazioni operate nei confronti dei contribuenti minimi (art.1, comma 54, della legge 190/2014), delle imprese costituite da giovani o da “coloro che perdono il lavoro” (art. 27 della legge 98/2011) e dalle stabili organizzazioni di imprese non residenti, probabilmente per non andare a gravare soggetti particolari dall’esperimento di obblighi tributi ulteriori.

Come è noto il tributo colpisce le prestazioni di servizi digitali, escludendo così il commercio elettronico indiretto. Il secondo periodo del comma 1012 si preoccupa di identificare i “servizi digitali”, come quei “servizi prestati tramite mezzi elettronici quelli forniti attraverso internet o una rete elettronica e la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata, corredata di un intervento umano minimo e impossibile da garantire in assenza della tecnologia dell'informazione”.

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Tuttavia, la norma rinvia, per una più precisa identificazione della prestazione di servizi all’emanazione di un Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanarsi entro il 30 aprile 2018. Su questo secondo aspetto della normativa, è necessario soffermarci per qualche riflessione.

Nella nostra tradizione giuridica è pacifico che il presupposto di un tributo rientra nella riserva di legge e, pertanto, debba essere necessariamente contenuto in una norma avente forza di legge. Ma, sul punto si è assistito a una progressiva erosione di questo principio e, pertanto, sebbene l’art. 23 della Costituzione “vieta che le prestazioni personali o patrimoniali siano imposte direttamente da una fonte secondaria», «non esclude», invece, «che il precetto legislativo possa essere da detta fonte integrato» «essendo anche ammissibile il rinvio a provvedimenti amministrativi diretti a determinare elementi o presupposti della prestazione, purché risultino assicurate, mediante la previsione di adeguati parametri, le garanzie in grado di escludere un uso arbitrario della discrezionalità amministrativa»206.

Nel caso di specie, sembra che questo Decreto Ministeriale più che dettare il presupposto dell’imposizione, in realtà, dovrebbe semplicemente esemplificare alcune fattispecie di servizi digitali e, pertanto, la delegificazione così operata non sembra poter essere censurata sotto il profilo della violazione dell’art. 23 della Costituzione.

Un appunto a parte merita, invece, la questione della territorialità dell’imposizione, in quanto, il potere impositivo è individuato dalla residenza del committente e non del prestatore di servizi digitali, il quale può essere anche non residente. Questo ci consente di sviluppare alcune considerazioni sulla natura stessa dell’imposta, la quale, come ogni tributo, deve colpire manifestazioni rilevanti di capacità economica (reddito, consumo o patrimonio). Dato il meccanismo di funzionamento, per cui è prevista un’imposizione lorda sul volume delle transazioni, non sembra potersi sussumere all’interno né delle imposte reddituali né di quelle sul patrimonio.

Non ci resta, dunque, che intendere questo tributo come sussumibile all’interno della categoria dell’imposte indirette e, dunque, con le relative problematiche di diritto unionale che si affronteranno infra. A conferma di ciò, per quanto riguarda il profilo della base imponibile e dell’aliquota l’imposta con aliquota al 3% è commisurata al valore della singola

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transazione, ossia al corrispettivo dovuto dal committente e che la quota parte del corrispettivo si aggiunge al valore della singola transazione, al netto dell’imposta sul valore aggiunto.

In aggiunta a questo, la stessa disciplina rinvia per quanto riguarda l’accertamento, la riscossione e l’applicazione delle sanzioni alle disposizioni previste in materia di imposta sul valore aggiunto, in quanto compatibili. Con il decreto di cui al comma 1012 sono stabilite le modalità applicative dell'imposta di cui al comma 1011, ivi compresi gli obblighi dichiarativi e di versamento, nonché eventuali casi di esonero. Con uno o più provvedimenti del direttore dell'Agenzia delle entrate possono essere individuate ulteriori modalità di attuazione della disciplina.

Ciò premesso sembra evidente che una prima questione di decisiva importanza che dovrà essere risolta al fine di valutare l’operatività della disciplina è relativa alla possibile incompatibilità con il diritto eurounitario. Come è risaputo, l’art. 2 della direttiva 2006/112 stabilisce che sono soggette all’iva “le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale”. L’art. 24, poi, si occupa di (non) definire la nozione di prestazione di servizi, considerando «prestazione di servizi» ogni operazione che non costituisce una cessione di beni. A maggior ragione la lettera a dell’art. 25 chiarisce che costituisce prestazione di servizi anche la cessione di beni immateriali. Da queste prime definizioni è evidente che le prestazioni di servizi di cui al nuovo tributo è ricompresa nella nozione di prestazione di servizi così come accolta nella disciplina iva.

L’art. 401 della stessa direttiva, infine, consente “ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte sui contratti di assicurazione, imposte sui giochi e sulle scommesse, accise, imposte di registro e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d'affari, sempreché tale imposta, diritto o tassa non dia luogo, negli scambi fra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera”.

La natura dell’imposta sul digitale sembra proprio essere quella di un’imposta sul volume d’affari, almeno limitatamente ai servizi, realizzata dall’operatore economico, seppure accertata e riscossa mediante l’utilizzo di un sostituto. La Corte di Giustizia, sul punto, ha statuito che l’articolo 401 della direttiva IVA non osta al mantenimento o all’introduzione di un’imposta che non presenti una delle caratteristiche essenziali dell’IVA:

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ossia l’applicazione generale alle operazioni aventi ad oggetto beni o servizi; la proporzionalità al prezzo percepito dal soggetto passivo quale contropartita dei beni e servizi forniti; la riscossione in ciascuna fase del procedimento di produzione e di distribuzione, a prescindere dal numero di operazioni effettuate in precedenza; la possibilità di detrazione per l’operatore economico, unita all’obbligo di rivalersi sul consumatore finale, sul quale graverà il peso economico del tributo.

Per valutare se un’imposta, un diritto o una tassa abbiano la natura di imposta sulla cifra d’affari, occorre in particolare verificare se essi abbiano l’effetto di danneggiare il funzionamento del sistema comune dell’IVA, gravando sulla circolazione dei beni e dei servizi e colpendo le operazioni commerciali in modo analogo all’IVA.

In questa sede non si vuole ovviamente affermare l’incompatibilità dell’imposta con il diritto unionale, anche, in considerazione del fatto, che dopo la celebre sentenza Banca Popolare di Cremona, la Corte ha adottato un atteggiamento assai restrittivo nell’analisi di questi tributi, probabilmente più per ragioni di gettito che strettamente giuridiche. L’imposta, infatti, non è sicuramente identificabile pienamente con l’imposta sul valore aggiunto, tuttavia, alcune caratteristiche, come l’applicazione generalizzata ai servizi, la proporzionalità, la possibilità di rivalsa per il committente e, dunque, la probabile sopportazione economica da parte del consumatore finale impone una riflessione sulla possibile incompatibilità.

Qualora, invece, si ritenesse il nuovo tributo come un’imposizione reddituale o sul patrimonio, questo tributo rischierebbe di essere in aporia con i trattati internazionali, ossia le convenzioni contro le doppie imposizioni, sottoscritti dall’Italia con altri Stati. L’art. 2, punto 4, del Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni i in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio dell’OCSE stabilisce chiaramente che “la Convenzione si applicherà anche alle imposte di natura identica o analoga che verranno istituite dopo la data della firma della presente Convenzione in aggiunta o in sostituzione delle imposte esistenti. Le autorità competenti degli Stati contraenti si comunicheranno le modifiche importanti apportate alle rispettive legislazioni fiscali” (traduzione libera). Qualora in astratto questo tributo rientrasse nell’ambito delle imposte dirette, dunque, il soggetto non residente in Italia e residente in uno degli Stati firmatari potrebbe eccepire l’applicazione della Convenzione e, dunque, solo ed esclusivamente dell’imposizioni ivi prevista.

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A titolo meramente esemplificativo, l’impresa irlandese operante in Italia, senza una stabile organizzazione, potrebbe invocare legittimamente l’art. 5 della Convenzione e, pertanto, sarebbe legittimata a non essere sottoposta, comunque, ad imposizione.

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