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Alcuni casi concreti di discriminazione per genere

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 137-142)

Quello del giuslavorista è un osservatorio privilegiato dal quale è possibile riscontra- 1 Per la giurisprudenza locale v. Trib. Bologna ordinanza cron. 5574 del 1.6.2012 in RG 708/2012 est. Sorgi e decreto cron 7701/2012 in RG 1911/2012 est. Benassi.

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re molti evidenti casi di discriminazione, sia individuali che collettivi. Le fattispecie sono numerosissime, anche se non si riscontra una altrettanto vasta pubblicazione di sentenze. Quelle più gravi sono legate alla stessa possibilità di conservare il la- voro, e riguardano fondamentalmente l’orario di lavoro e il rientro al termine del periodo di divieto di licenziamento per maternità.

Costantemente chi opera sul “fronte” della tutela, deve occuparsi del problema di donne le quali, allo scadere del periodo in cui vige il divieto di licenziamento – quan- do il figlio compie un anno – vengono licenziate nelle piccole imprese, o che al mo- mento della ripresa del servizio dopo l’assenza dal lavoro per maternità si vedono costrette alle dimissioni per essere state assegnate a turni di lavoro incompatibili con la funzione familiare o per non aver ottenuto orari compatibili con il ruolo di cura che intendono svolgere.

L’organizzazione del lavoro nelle imprese prevede con sempre maggior frequenza orari di lavoro su turni avvicendati, lavoro settimanale che comprende il sabato e la domenica, e sempre più spesso il termine del periodo protetto corrisponde con il mancato reinserimento della lavoratrice madre nell’ambiente di lavoro. Senza con- tare la esclusione dal mondo del lavoro che le forme di lavoro cd. “atipico” – lavoro in somministrazione, lavoro parasubordinato – unitamente al lavoro a tempo deter- minato, eccessivamente quanto illegittimamente diffuso, consentono agevolmente di realizzare attraverso il mancato rinnovo o la mancata costituzione di rapporti di lavoro con le donne in gravidanza.

La discriminazione colpisce peraltro le donne non solo in collegamento al genere, ma anche in ragione di fattori – pure tutelati dalla recente normativa sia comunita- ria che nazionale – quali l’età e le condizioni di salute: è frequente verificare come le innovazioni tecnologiche o le riorganizzazioni aziendali comportino nelle aziende manifatturiere l’esclusione – motivata formalmente da pretesti “giustificati motivi oggettivi” (soppressione del posto di lavoro) – delle donne più anziane e quindi “costose” che per le loro condizioni di salute sono portatrici di prescrizioni limitative allo svolgimento di determinate mansioni.

Parallelamente la presenza massiccia di donne non cittadine italiane in determinati settori – il pulimento, le cooperative sociali, alcune cooperative di servizi – configura in talune situazioni una duplicità della discriminazione, in particolare in relazione ai trattamenti retributivi, alle iniziative di formazione, alla progressione di carriera, dalle quali di norma le lavoratrici straniere rimangono in particolare escluse. Le discriminazioni più diffuse, e statisticamente rilevate, riguardano comunque tutte le donne, indipendentemente dalla nazionalità e dall’età in riferimento alla progressione di carriera, agli aspetti retributivi, e trovano i loro ostacoli principali in una cultura di disvalore più ampia, rispetto alla quale sia le organizzazioni sin- dacali che le donne stesse hanno ancora un lungo cammino di consapevolezza da compiere. E ciò anche in quelle situazioni nelle quali le fattispecie discriminatorie si incrociano: la discriminazione, ad esempio, che colpisce donne di una certa età,

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con bassa scolarizzazione, le quali in occasione di una riorganizzazione aziendale, di un aggiornamento dell’organizzazione del lavoro o della produzione sotto il pro- filo tecnologico, vengono estromesse dal contesto lavorativo. Si pensi, quanto alla discriminazione individuale, alle lavoratrici madri che, a seguito delle assenze per malattia del bambino vengono sottoposte a trattamenti deteriori, assegnate a man- sioni diverse rispetto a quelle svolte nel corso del rapporto, non equivalenti alla professionalità posseduta e all’inquadramento contrattuale, accusate di “inadegua- tezza” sul lavoro”, assegnate a turni lavorativi in fascia oraria notturna, in contrasto con le disposizioni a tutela delle lavoratrici madri, trasferite in altre sedi, al fine di in- durle a lasciare il lavoro. O alla ricorrente ipotesi di lavoratrici assegnate a mansioni deteriori o trasferite al rientro dalla maternità, a titolo esemplificativo richiamo tra le altre2 una risalente sentenza del Tribunale di Bologna, su ricorso della Consigliera

provinciale di Parità (Trib. Bologna 2.4.2010 est. Coco) ed una più recente sentenza del Tribunale di Ferrara (Trib Ferrara 11.9.2017, est. De Curtis). Ai casi di licenzia- mento per preteso giustificato motivo oggettivo (soppressione del posto o riduzione del personale) che colpiscono proprio la lavoratrice all’indomani del compimento di un anno di età del bambino. Oppure ai casi nei quali l’orario di lavoro viene utilizzato per rendere inconciliabili le nuove esigenze di vita, sorte a seguito della nascita dei figli, con le esigenze di lavoro.

Con riferimento alla gestione degli orari di lavoro richiamo alcuni, risalenti, prece- denti. Tribunale di Bologna (est. Coco - sent. n. 155/2007), relativo ad una fatti- specie in cui si deduceva la illegittima modifica unilaterale dell’orario, da parte del datore di lavoro, in pregiudizio delle esigenze di una lavoratrice madre, affidataria in via esclusiva di un bimbo in tenera età: il Giudice, pur premessa la parvenza di fon- datezza delle ragioni organizzative dedotte dall’impresa a sostegno della disposta modifica dell’orario, proseguiva argomentando la rilevanza dei principi, esplicitati fra l’altro dall’art. 9 della legge n.53/2000 a fini incentivanti (di misure a sostegno della maternità sotto il profilo della flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro), ma vigenti nell’ordinamento sulla base della clausola generale contenuta nell’art. 37, co. 1, della Costituzione («Le condizioni di lavoro devono consentire alla donna lavoratrice l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicura- re alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione»).

Altre sentenze di merito (in particolare v. Trib. Lecce 18.8.2003), hanno statuito l’obbligo del datore di lavoro di cooperare in buona fede per l’assegnazione dei di- pendenti a turni di lavoro compatibili con loro qualificate esigenze familiari, specie quando la determinazione di un orario piuttosto che di un altro non comporti, per l’azienda, insuperabili difficoltà organizzative.”

Analogo orientamento è stato espresso dal Tribunale di Milano con una ordinan- za cautelare novembre 2009, con riferimento al caso che vedeva contrapposte la Oviesse ed una lavoratrice che, al rientro al lavoro dopo il periodo di maternità, 2 Vedi anche Trib. Bologna 2.7.2008 est. Dallacasa; Trib. Bologna 18.7.2011 est. Benassi.

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aveva richiesto la riduzione dell’orario di lavoro con collocazione della prestazione in una fascia oraria compatibile con le esigenze di accudimento del bambino, e dunque entro le ore 16. Al diniego dell’azienda, che subordinava l’accoglimento della richie- sta di part-time alla collocazione della prestazione tra le 16 e le 20, la lavoratrice richiedeva ed otteneva la tutela cautelare sul presupposto che «in relazione alla di- stribuzione oraria le esigenze aziendali non possono che cedere rispetto a quelle di assistenza del bambino, imponendo un orario che non vanifichi la ratio della norma e che non sia in concreto del tutto inidoneo a garantire la tutela del bambino stesso, seppure con sacrificio della organizzazione aziendale».

In materia di orari di lavoro deve rammentarsi che la richiesta di trasformazione dell’orario di lavoro da full-time in part-time, con turnazione nelle fasce orarie diur- ne, trova un preciso fondamento normativo nelle disposizioni della legge (art. 11 del d.lgs. n. 66/2003) e in alcuni CCNL di settore (ad esempio il Terziario), che pre- vedono condizioni di miglior favore al fine di consentire di conciliare le esigenze dei genitori di bambini di età inferiore ai tre anni con le esigenze e gli orari di lavoro. Quanto alle discriminazioni in materia retributiva o nella progressione di carriera richiamo a titolo esemplificativo una interessante sentenza torinese (Corte appel- lo Torino sent. n. 937/2017 www.lavorochiaro.it/sites/default/files/20180110_ CdA-Torino.pdf) in relazione alla mancata equiparazione alla presenza in servizio delle giornate di assenza per maternità obbligatoria, congedo parentale e assenze per malattia del figlio ai fini del computo del premio di risultato, e della Corte d’Ap- pello di Venezia (Corte Appello Venezia sent. 841/2017 in www.lavorosi.it/filead- min/user_upload/GIURISPRUDENZA_2018/CdA_Venezia-sent.-n.-841-2017.pdf) su fattispecie analoga; con riferimento a discriminazioni collettive vedasi Tribunale di Aosta in relazione al licenziamento e al trattamento retributivo nettamente inferio- re di una dirigente (Trib. Aosta sent. 65/2016). Un caso a parte è quello delle vittime di molestie per il quale richiamo una sentenza pregevole e ben motivata, anche in punto di risarcimento del danno, della Corte d’Appello di Bologna (sent. n. 453/2014 est. Ponterio) 3.

In proposito è opportuno sottolineare che la discriminazione di genere, ai sensi dell’art.4 del d.lgs. 125/91, rileva in termini oggettivi, connotati dal prodursi dell’ef- fetto discriminatorio, indipendentemente da ogni valutazione soggettiva sull’inten- to discriminatorio, e che la nozione di discriminazione copre un’ampia gamma di condotte ed atti, comprendendo sia gli atti di gestione del rapporto che i comporta- menti del datore di lavoro che producano effetti discriminatori.

In tali casi soccorre il regime agevolato del principio della prova, poiché la parte che lamenta la discriminazione ha l’onere di allegare e provare l’esistenza di un tratta- mento deteriore rispetto al termine di comparazione prescelto, mentre incombe 3 Corte Appello Bologna n. 453/2014 est. Ponterio (www.studiolegaleassociato.it/wp-content/uplo-

ads/2017/03/Sentenza-Corte-appello-di-Bologna-25-marzo-2014.pdf); ma anche Trib. Firenze 20.4.2016

est. Papait; Trib. Pistoia n. 177/2012 – in Casistica – e Cass. Civ. Lav. n. 23286 del 15.11.2016 su ripartizione dell’onere della prova.

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sul datore di lavoro l’onere di dimostrare fatti specifici ed obiettivamente verificabili idonei a dimostrare che i provvedimenti adottati siano stati giustificati da una finali- tà legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e neces- sari. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di caratte- re statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

Un regime sanzionatorio specifico si aggiunge alla tutela giudiziaria, che vede come atti nulli tutti quelli posti in violazione del divieto di discriminazione. Infatti l’art. 41 del T.U. prevede che, qualora la condotta discriminatoria sia posta in essere da «sog- getti ai quali siano stati accordati benefici ai sensi delle vigenti leggi di Stato, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbli- che, di servizi o forniture, ciò viene comunicato immediatamente dalla direzione (…) del lavoro territorialmente competente ai Ministri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del beneficio o dell’appalto». Questi soggetti sono te- nuti ad adottare «le opportune determinazioni», quali «la revoca del beneficio», «l’esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi ap- palto».

La sanzione penale è ora riservata alla sola ipotesi di inottemperanza agli ordini giu- diziali di rimozione delle discriminazioni accertate in sede giudiziale. La pena oggi prevista è quella dell’arresto fino a 6 mesi o dell’ammenda fino a 50.000 euro, ma qualora il datore di lavoro ottemperi successivamente alla prescrizione, la sanzione penale si trasforma in una sanzione amministrativa pari a 12.500 euro. Le altre san- zioni sono oggi tutte depenalizzate e quindi rimangono le sanzioni amministrative, verosimilmente più “dissuasive” di quelle penali: non è infatti possibile che la san- zione cada “in prescrizione” e la procedura per l’applicazione diviene più semplice, non dovendo più passare dal vaglio dell’autorità giudiziaria. In caso di discriminazio- ne (diretta o indiretta) nell’accesso al lavoro la sanzione è da 5.000 a 10.000 euro per ogni violazione (non per ogni lavoratore). L’attività lavorativa presa in considera- zione è tanto quella subordinata quanto quella autonoma e si può verificare anche per il tramite dei soggetti di cui l’imprenditore si avvale per la selezione del perso- nale. Ulteriore ed analoga sanzione è prevista sia per la discriminazione nell’orien- tamento, formazione e aggiornamento, che può verificarsi sia per quanto concerne l’accesso, sia per quanto concerne i contenuti stessi dei programmi, sia per le ipotesi di diversa retribuzione o classificazione dei lavoratori non giustificata da contenuti tecnici e per lavoratori e lavoratrici che ricoprono le stesse mansioni e per eventuali ingiustificate differenze per quel che riguarda l’assegnazione di mansioni, qualifiche, e soprattutto progressioni di carriera. Trattata identicamente è la discriminazione in materia di prestazioni previdenziali, che può configurarsi con l’anticipato pensiona- mento della lavoratrice, o con la mancata erogazione degli assegni familiari.

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Cultura, norme, prassi e azioni negoziali contro le

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