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Deroghe alle discriminazioni dirette e indirette in base alla giuri sprudenza europea e interna

Stefania Scarponi*

4. Deroghe alle discriminazioni dirette e indirette in base alla giuri sprudenza europea e interna

La nozione di discriminazione va considerata anche tenendo conto delle deroghe consentite all’applicazione del divieto, che permettono in certi casi di adottare com- portamenti altrimenti illegittimi. La disciplina sul punto è differenziata a seconda che si tratti di d. dirette oppure indirette, e occorre considerare, altresì, ulteriori limiti specifici al campo di applicazione dei divieti.

Secondo il principio stabilito dalle direttive, le deroghe possono riguardare solo casi strettamente limitati, e sono sottoposte comunque alla condizione del rispetto di una finalità legittima e di essere proporzionate rispetto al fine da raggiungere. In tal modo obiettivi legittimi di necessità imprenditoriale, oppure di politica sociale, possono trovare accoglimento ma solo entro gli stretti limiti sanciti dalla disciplina in materia, nel senso che non sarà sufficiente invocare una generica “razionalità” organizzativa oppure il perseguimento di obiettivi di politica sociale concepiti senza tener conto dei possibili effetti discriminatori9.

Quanto alla discriminazione diretta, il filtro imposto dalla normativa europea e na- zionale ammette la deroga solo nei casi in cui il requisito sia “essenziale e deter- minante” per lo svolgimento dell’attività lavorativa, avendo una effettiva e stretta

8 CGUE 16 luglio 2015 C-8314 Cetz, commentata da A. Guariso, La tutela giurisdizionale contro le

discriminazioni nel dialogo tra le Alte Corti, in O. Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discrimi- nazione cit. p.417.

9 Emblematica da tale punto di vista la sentenza CGUE 22.11.2005 C-144/04 Mangold che ha ritenuto illegittimo per contrasto con il divieto di discriminazione per età nei confronti dei lavoratori una legge tedesca che incentivava l’assunzione con contratto a tempo determinato, pertanto meno tutelante di quello a t. indeterminato, di persone che avessero superato i 60 anni senza considerare né le condizio- ni del mercato del lavoro né le qualificazioni professionali di tali lavoratori.

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correlazione con le mansioni da svolgere10. Un’occasione di approfondimento in merito è stata fornita di recente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in al- cune sentenze in materia di licenziamento e di diniego di assunzione11. In una delle sentenze relative al licenziamento, si trattava di una discriminazione per motivi reli- giosi attinente al porto del velo (Hijab che copre capelli e collo) che una lavoratrice musulmana si era vista imporre di togliere unicamente per compiacere la richiesta di un cliente dell’impresa presso il quale la dipendente, ingegnere elettronica, si era recata per svolgere le mansioni di assistenza ai computers. In quel caso la discrimi- nazione viene considerata come discriminazione diretta, essendo rivolta solo a lei e dunque contro una specifica religione, potendosi escludere inoltre che il porto del velo abbia alcuna attinenza con le mansioni affidatele. Inoltre, assecondare la richiesta del cliente avrebbe significato permettere a quest’ultimo di manifestare la propria intolleranza religiosa, in aperto contrasto con lo scopo della Direttiva. In tal caso, pertanto, l’obiezione del datore di lavoro non aver avuto alcuna intenzione di discriminare la lavoratrice e di temere la perdita del cliente non possono essere accolte.

L’altro caso relativo alla medesima questione di rifiuto di togliere il velo su richiesta del datore di lavoro12 è stato invece inquadrato come discriminazione indiretta, ri- spetto alla quale le deroghe sono concesse in misura più ampia, ovvero qualora il requisito richiesto sia rispondente ad un obiettivo legittimo e le sue modalità attua- tive siano necessarie e proporzionate al fine da raggiungere13. In questo caso a far pendere la bilancia verso la richiesta del datore di lavoro sta il fatto che si trattava di un imprenditore operante nel campo dell’accoglienza che aveva adottato una stra- tegia volta esplicitamente a perseguire un’ “immagine di neutralità” dell’azienda, a seguito della quale vigeva da tempo una regola non scritta per cui agli addetti a mansioni di front-desk era vietato esibire alcun simbolo né di appartenenza religio- sa né di altre opinioni personali14.

10 Ai sensi dell’art. 3, c. 3 d.lgs. 215 e 216 la formula è la seguente: qualora, per la natura dell‘ attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.

11 CGUE 14.3.2017 Bagnaoui C-188/15. 12 CGUE14.3. 2017 Achbita C- 157/15.

13 Art. 3, c.4 d.lgs. n. 215 e 216: “Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’ar- ticolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giu- stificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”. Ai

sensi dell’art. 25, c.2 Codice PO: “ Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di parti- colare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’ attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

14 La stessa lavoratrice, peraltro, aveva rispettato tale regola fino a quando, rientrando al lavoro dopo un’assenza, aveva preteso di portare il velo asserendo che non vi era alcuna regola scritta che lo vie- tasse. Il datore di lavoro con l’assenso del comitato dei rappresentanti del personale aveva allora intro- dotto per iscritto tale divieto esteso a tutte le forme di manifestazione di adesione a credo religioso o a convinzioni o appartenenze di altro tipo.

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Va sottolineato che la sentenza della CGUE impone al giudice nazionale preventiva- mente di verificare se realmente tale regola non scritta era stata applicata in modo imparziale a tutto il personale e per un periodo consistente, e solo se tale rigoroso accertamento avesse dato esito positivo si poteva considerare che la regola avesse effettivamente carattere generale, e dunque potesse ricadere nella fattispecie di discriminazione indiretta in quanto appunto trattamento apparentemente neutro, e rivolto alle opinioni non soltanto religiose ma di tutti gli altri tipi.

La sentenza è interessante sotto il profilo più generale della distinzione tra d. dirette e d. indirette. L’inquadramento come discriminazione indiretta è stato affermato dalla sentenza basandosi sul fatto che ricorrevano gli elementi tipici della fattispe- cie, ovvero il trattamento neutro e l’esistenza di un impatto differenziato tale da mettere in una situazione di particolare svantaggio coloro la cui religione imponga di esibire il simbolo di appartenenza, a differenza di coloro che ne siano esenti. In ef- fetti questo approccio appare condivisibile, nonostante una parte dei commentatori abbia sostenuto la tesi contraria15.

Occorre sottolineare un altro elemento importante del ragionamento complessivo. Venendo in gioco l’esercizio di un diritto fondamentale legato alla manifestazione della libertà religiosa in forum externo, nonché delle altre opinioni, ove il divieto fosse stato assoluto e imposto a tutti i dipendenti dell’impresa non avrebbe comun- que potuto essere considerato legittimo. Infatti sul punto la sentenza precisa che la condotta del datore di lavoro nell’affermare l’esigenza di fornire una immagine di neutralità dell’impresa è legittima, in quanto espressione della libertà economica riconosciuta come diritto fondamentale, solo in quanto ne siano immediatamente coinvolti esclusivamente i lavoratori addetti al contatto costante con i clienti nell’at- tività di front-desk. In realtà il dibattito è molto aperto in quanto parte della dot- trina non condivide l’idea che un’impresa privata possa assumere liberamente la decisione di adottare una politica di neutralità aziendale, e altresì ci si chiede se tale politica non potrebbe essere realizzata mediante una “neutralità positiva” che consenta a tutti di manifestare senza restrizioni la propria appartenenza religiosa o di altro tipo, in senso inclusivo piuttosto che esclusivo16.

La soluzione adottata dalla sentenza approfondisce anche un altro aspetto di rilie- vo, incentrato sul giudizio di proporzionalità della misura sanzionatoria adottata. Sotto tale profilo afferma che il licenziamento risulta troppo grave e, in chiave di equo bilanciamento tra diritti fondamentali, impone al datore di lavoro di ricercare soluzioni alternative che non comportino eccessivi costi per l’impresa, come per es. il trasferimento a mansioni che non richiedano il costante contatto con gli utenti; oppure altre soluzioni che consentano di conciliare l’esigenza dell’impresa alla po- litica di neutralità e quelle religiose delle lavoratrici. In tal modo è stato introdotto il principio del licenziamento come extrema ratio e l’obbligo di trovare soluzioni

15 R. Sanlorenzo, op.cit. supra nota 3.

16 S. Scarponi, L’appartenenza confessionale delle donne lavoratrici davanti alla Corte di Giustizia

dell’Unione Europea, in Daimon – Diritto comparato delle religioni, n. speciale 2018, Donne, diritti e

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ragionevoli, quali il repechage che nel nostro ordinamento è applicabile in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con onere della prova a carico del datore di lavoro.

La tematica inerente al divieto di discriminazione per motivi religiosi è stata affron- tata anche dalla giurisprudenza interna ed è estremamente attuale dato il plurali- smo religioso che oramai caratterizza la nostra società. La condizione della stretta correlazione tra il requisito attinente la religione o le opinioni personali e le man- sioni da svolgere, insieme al vaglio di proporzionalità, costituisce un criterio che si avvicina molto a quello dell’essenzialità previsto in caso di discriminazioni di genere nel nostro ordinamento.

Va richiamata in materia una sentenza della C.A. Milano che ha ritenuto discrimina- torio il diniego di avviare una lavoratrice da parte di un’agenzia di selezione del per- sonale perché non intendeva togliere il velo islamico che copre i capelli (Hijab) come richiesto dal cliente (che voleva assumere una hostess con capelli lunghi e vaporosi per una fiera della calzatura)17. Benché la sentenza in questione abbia posto l’accen-

to sul fatto che neppure il cliente aveva qualificato tale requisito come essenziale, trattandosi di mansioni di distribuzione di volantini, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia è da ritenere che la correlazione tra requisito e mansioni debba essere oggettiva e sottoposta al vaglio del giudice, anziché dipendere dalle valutazioni soggettive del datore di lavoro.