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Marta Tricarico*

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 124-130)

Una lettura appassionata delle riflessioni e relazioni sulle posizioni assunte nell’As- semblea costituente dalle Onorevoli Maria Federici e Angelina Merlin sui problemi delle donne lavoratrici e in particolare sulla maternità e la sua tutela (art. 37 della Costituzione) riaffaccia l’esigenza di fronteggiare in maniera adeguata, con chiarezza di inquadramento, i principi di uguaglianza e non discriminazione nel lavoro e tra i sessi, che devono essere coniugati all’adempimento delle funzioni e dei doveri del- la maternità con una speciale e adeguata protezione della salute e della vita della donna e del fanciullo.

Nella Costituzione (art. 37) troviamo il principio che obbliga il legislatore ad assicu- rare che le condizioni di lavoro consentano adeguate protezioni alla maternità ed all’infanzia, ove “tutelare” e “proteggere” non significa riconoscere una situazione d’inferiorità, ma rendere effettiva nel momento della maternità, la parità tra i lavo- ratori e le lavoratrici.

L’articolo 37, comma 1, stabilisce infatti che “le condizioni di lavoro devono consen- tire (alla donna) l’adempimento della sua essenziale funzione familiare” “le condi- zioni di lavoro devono assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

In Italia, la prima legge che aveva previsto per le madri lavoratrici un congedo obbli-

gatorio di 4 settimane post parto (non retribuito) risale al 19 giugno del 1902 con

la legge n. 242 (c.d. “legge Carcano”); ben più lungo è stato il percorso di ricono-

scimento dei diritti delle donne legati alla maternità, alle esigenze di conciliazione e alla tutela della salute quando si è trattato delle libere professioniste o lavoratrici autonome.

* Avvocata del Foro di Bologna; Referente Formazione Gruppo Giustizia UDI (Unione Donne in Italia) sede Bologna; Vice Presidente/Segretaria Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bo- logna.

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La prima avvocata iscritta all’Ordine forense fu Lidia Poet nel 18831 che pervicace-

mente riuscì a smantellare quei pregiudizi discriminatori che ritenevano «disdice-

vole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare”.

Dunque non può stupire che per ottenere una effettiva politica di tutela della ma- ternità nell’esercizio della professione forense abbiamo dovuto attendere in Ita- lia 135 anni, ovvero l’introduzione, nella legge di bilancio 2018, del comma 5-bis

nell’art. 420-ter c.p.p., che dal 1° gennaio 2018, prevede che lo stato di gravidanza debba ritenersi causa di legittimo impedimento assoluto se certificato, con l’unica eccezione di quelle cause rispetto alle quali si richiede una trattazione urgente. Pertanto, in tali limitate ipotesi, l’avvocata dovrà necessariamente farsi sostituire. Sul fronte civilistico, si fa esplicito riferimento al Decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (cd. Testo unico maternità e paternità), ricomprendendo esplicitamente,

quali ipotesi di legittimo impedimento, le fattispecie di adozione nazionale ed inter- nazionale, nonché di affidamento del minore.

Il comma 274-quinquies della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 aggiunge un ulterio-

re comma all’articolo 81-bis delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedu- ra civile (“Calendario del processo”), prescrivendo che: «Quando il difensore docu- menta il proprio stato di gravidanza, il giudice, ai fini della fissazione del calendario del processo ovvero della proroga dei termini in esso previsti, tiene conto del periodo compreso tra i due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi successi- vi. La disposizione si applica anche nei casi di adozione nazionale e internazionale nonché di affidamento del minore avendo riguardo ai periodi previsti dall’articolo 26 del testo unico delle disposizioni legislative di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. Dall’applicazione del presente comma non può derivare grave pregiudizio alle parti nelle cause per le quali è richiesta un’urgente trattazione».

In ambito penalistico, la novità è stata collocata (dal comma 274-sexies della Legge

27 dicembre 2017, n. 205) all’articolo 420-ter (“Impedimento a comparire dell’im-

putato o del difensore”) del codice di procedura penale cui, dopo il comma 5, viene aggiunto il seguente:

«5-bis. Agli effetti di cui al comma 5 il difensore che abbia comunicato prontamente lo stato di gravidanza si ritiene legittimamente impedito a comparire nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi ad esso».

1 Lidia Poet si iscrive all’Ordine degli Avvocati di Torino, anche se solo dopo legge, la n. 1179 del 17 luglio 1919 nota come legge Sacchi, che abolì l’autorizzazione maritale e autorizzò le donne ad entrare nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e in tutti i ruoli militari, Lidia Poët nel 1920, all’età di 65 anni, divenne ufficialmente avvocata.

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Le avvocate hanno visto quindi finalmente riconosciuto un diritto che le discrimi- nava in ragione dello stato di gravidanze e maternità seppur già con l’ art. 3 del d.lgs. n. 151/2001 venisse “vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, secondo quanto previsto dal d.lgs. 198/2006, con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità e paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’eser- cizio dei relativi diritti”.

È vero che il Legislatore nazionale aveva già incluso tra le discriminazioni fondate sul sesso anche quelle che sono attuate avendo a riferimento lo stato di gravidanza, ma la normativa non era applicata ad avvocate/i.

Ciò posto, mentre per le lavoratrici dipendenti l’astensione dal lavoro si attua 3 mesi ante e due post-parto, per le lavoratrici autonome questo obbligo non sussiste (Corte Costituzionale: sentenze n. 150 del 1994 e n. 181 del 1993), potendo queste ultime continuare ad esplicare la loro attività e, al contempo, percepire dall’Inps o dalla Cassa Professionale l’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi dopo, a prescindere dall’effettiva astensione dall’attività, a condizione che vi sia l’inesistenza del diritto a indennità di maternità per qualsiasi altro titolo.

L’art. 70 del d.lgs. n. 151/2001 prevede che possono avere l’indennità di maternità tutte le libere professioniste appartenenti alle seguenti casse:

• Cassa nazionale del notariato;

• Cassa azionale di previdenza ed assistenza a favore degli avvocati e procuratori; • Ente nazionale di previdenza e di assistenza farmacisti;

• Ente nazionale di previdenza e assistenza veterinari; • Ente nazionale di previdenza e assistenza medici;

• Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri; • Cassa di previdenza per l’assicurazione degli sportivi;

• Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti; • Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri e gli architetti liberi

professionisti;

• Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti com- merciali;

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Sul punto del mancato riconoscimento alla donna esercente la libera professione di avvocato del «diritto di usufruire del periodo di maternità così come previsto dall’Ordinamento italiano per le altre lavoratrici» era stata anche sollevata questio- ne di legittimità costituzionale dal Tribunale ordinario di Perugia, sezione distaccata di Foligno in riferimento agli articoli 3, 31, secondo comma, e 37 della Costituzione, nonché al diritto di difesa.

La questione non era stata esaminata nel merito, perché la Corte Costituzionale, con decisione del 20 dicembre 2012 n. 312, in accoglimento alle eccezioni sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura ge- nerale dello Stato, aveva dichiarato inammissibile la questione per difetti e carenze della ordinanza di rimessione.

Tuttavia rileva che fra le definizioni contenute nell’art. 2 del d.lgs. n. 151/2001 si trovano quelle di “lavoratrice” e “lavoratore”, prevedendosi che - salvo che non sia altrimenti specificato - con tali espressioni si intendono i dipendenti, compresi quel- li con contratto di apprendistato, di amministrazioni pubbliche, di privati datori di lavoro nonché i soci lavoratori di cooperative. I lavoratori autonomi sono pertanto esclusi, in linea di principio, dalle tutele apprestate dal d.lgs. n. 151/2001.

Altre questioni di rilevanza costituzionale sono state prospettate sull’uguaglianza tra i genitori, sulle discipline finalizzate alla protezione del nascituro e sulla tutela della salute della madre nel periodo anteriore e successivo al parto, risultando, quindi, di tutta evidenza che, in tali casi, la posizione di quest’ultima non è assimilabile a quel- la del padre (Corte Cost., 28 luglio 2010, n. 285, in Foro it., 2010, I, 2581).

Altra pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 423/1995) ha sottolineato il rilievo costituzionale del valore rappresentato dal ruolo di madre della lavoratrice (sentenze n. 181 del 1993, nn. 61 e 132 del 1991), che comporta come, nel rapporto di lavoro, non possano frapporsi né ostacoli, né remore, alla gravidanza e alla cura del bambino nel periodo di puerperio, dovendo essere assicurata una speciale, ade- guata protezione al bambino e alla madre. Questa deve esser posta in condizioni (di lavoro) tali da poter adempiere alla sua essenziale funzione familiare. In particolare si è affermato che il principio posto dall’art. 37 Cost. - collegato al principio di egua- glianza - impone alla legge di impedire che possano derivare conseguenze negative dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino.

Anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea2 risulta chiaramente che

qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravi-

danza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso,3 e

2 In applicazione alla Direttiva 2006/54/CE ex multis Corte di Giustizia UE 142 del 7/2/2018, Corte di Giustizia UE del 18/3/2014 n.C-363/12.

3 L’articolo 14, paragrafo 1, lettera c), della Direttiva 2006/54 così dispone: «È vietata qualsiasi discri- minazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico. Direttiva recepita in Italia con decreto legislativo 25 gennaio 2010, n. 5 (GU Serie Generale

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che è altresì opportuno prevedere esplicitamente la tutela dei diritti delle lavoratrici in congedo di maternità, in particolare per quanto riguarda il loro diritto a riprende- re lo stesso lavoro o un lavoro equivalente e a non subire un deterioramento delle condizioni di lavoro per aver usufruito del congedo di maternità nonché a beneficia- re di qualsiasi miglioramento delle condizioni lavorative cui dovessero aver avuto diritto durante la loro assenza.4

La Direttiva n. 41/2010 UE5, nota per l’applicazione del principio di parità di tratta-

mento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, impone agli Stati membri di adottare misure tese a garantire che alle lavoratrici autonome e alle coniugi e conviventi di lavoratori autonomi possa essere concessa, un’indennità di maternità, in ogni caso.

Successivamente il quadro normativo e antidiscriminatorio si è ampliato passando da una tutela specifica nel trattamento della maternità a prevedere gli strumenti volti a facilitare il traguardo della “condivisione”, e degli effetti ad esso connessi, sia proprio il congedo di paternità, ma anche parentale, favorendo l’eguaglianza tra uomini e donne nel mercato del lavoro nel contesto del principio delle pari oppor- tunità.

Attualmente quindi l’indennità di maternità compete, sia alla lavoratrice professio- nista che al lavoratore professionista (sent. C.C. n. 385/2005) anche in presenza di adozione o affidamento a patto che il bambino non abbia superato i sei anni di età al momento dell’inserimento nel nucleo familiare.

Nel caso di adozioni internazionali il diritto (tre mesi successivi all’ingresso in fami- glia del minore adottato o affidato) può essere esercitato anche per i bambini di età compresa tra i sei anni e il compimento della maggiore età.(sent. C.C. n. 371/2003).

n.29 del 05-02-2010).

4 A mente di tale principio è interessante menzionare il caso che ha coinvolto una Magistrata italia- na, (esaminato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo Prima Sezione decisione Ricorso n. 29923/13 Anna Maria Cristaldi contro l’Italia) La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita il 22 maggio 2018 ribadendo che secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, la discriminazione consiste nel trattare in maniera diversa, salvo giustificazione oggettiva e ragionevole, persone poste in situazioni equiparabili, coglie l’occasione per rammentare che il progresso verso la parità dei sessi è un obiettivo importante per gli Stati membri del Consiglio d’Europa e che solo considerazioni molto forti possono portare a ritenere compatibile con la Convenzione una disparità di trattamento. La Corte

rigetterà la domanda rilevando, tuttavia, che: lo scopo e le condizioni dell’indennità giudiziaria erano

legate all’esercizio effettivo delle funzioni giudiziarie e ritiene dunque che, in questo particolare con- testo, la perdita di detta indennità speciale durante l’assenza dal lavoro, indipendentemente dal tipo di assenza, non sarebbe di natura tale da causare una perdita reale per l’interessata, in quanto legata all’esercizio effettivo delle funzioni durante un periodo percepiva comunque l’indennità di maternità. 5 All’Art. 8 denominato “Prestazioni di maternità” prevede espressamente l’obbligo per gli Stati mem- bri di adottare le misure necessarie a garantire che alle lavoratrici autonome e alle coniugi e convi- venti di cui all’articolo 2 possa essere concessa, conformemente al diritto nazionale, un’ indennità di maternità sufficiente che consenta interruzioni nella loro attività lavorativa in caso di gravidanza o per maternità per almeno 14 settimane.

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Qualora si dovesse verificare interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria, non prima del terzo mese di gravidanza, spetta l’indennità di maternità per una mensilità.

Qualora l’interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria, avvenisse dopo il compimento del sesto mese, compete l’indennità di maternità per intero.

L’indennità di maternità viene assegnata in misura pari all’80% di cinque dodicesimi del solo reddito professionale denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro auto- nomo dalla libera professionista nel secondo anno antecedente a quello dell’evento.

Indennità di maternità: modalità di richiesta

La domanda finalizzata all’indennità di maternità deve essere presentata, su appo- sito modulo predisposto dalla Cassa Forense, a decorrere dal compimento del sesto mese di gravidanza ed entro e non oltre il termine categorico di 180 giorni dopo il parto.

Stesso termine per interruzione della gravidanza. La domanda per avere la presta- zione è da presentarsi entro i 180 giorni dalla data dell’evento.

Cassa Forense riconosce, inoltre, un’indennità in caso di eventi riferiti alla materni- tà, sia nel caso di nascita di un figlio, sia in caso di aborto (avvenuto fra il 61° giorno e la 26a settimana), sia in ipotesi di adozione o affidamento.

Possono beneficiare di tale istituto tutte le iscritte alla Cassa con decorrenza an- teriore rispettivamente alla data del parto, dell’aborto, o dell’ingresso del minore nella casa materna.

Le richiedenti non devono avere diritto ad altra indennità erogata da altra struttura di cui al capo III e XI del d.lgs. n.151/2001 (lavoratrici dipendenti, autonome, im- prenditrici agricole).

L’indennità erogata è pari all’80% di 5/12 del reddito professionale Irpef netto pro- dotto nel 2° anno anteriore al verificarsi dell’evento.

In ogni caso, l’indennità minima non può essere inferiore a quella stabilita in base alle tabelle INPS vigenti nell’anno del parto, e, l’indennità massima non può essere superiore a cinque volte l’importo minimo di cui sopra.

L’indennità viene corrisposta in unica soluzione (applicando la ritenuta d’acconto del 20%, fatta eccezione dei casi ove è previsto l’esonero della ritenuta stessa) per i due mesi di gravidanza antecedenti la data presunta del parto e per i primi tre mesi di puerperio successivi alla data effettiva del parto, per un totale di cinque mensilità.

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