• Non ci sono risultati.

Esercizi di percezione: il licenziamento per giusta causa e la maternità

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 117-122)

Laura Calafà*

2. Esercizi di percezione: il licenziamento per giusta causa e la maternità

Il caso di cui vorrei parlarvi oggi è indubbiamente complesso. Nonostante le poche

questioni di stretto diritto che solleva, si riesce a trattare in modo compiuto l’intera- zione tra diritto del lavoro e diritto antidiscriminatorio con riguardo al funzionamen- to dell’onere della prova, ma soprattutto la gestione strategica del caso, anteceden- te alla presentazione del ricorso. Entrambi i profili meritano particolare attenzione perché arrivano, senza dubbio alcuno, ad inficiare gli esiti della causa.

Le questioni di stretto diritto da trattare si risolvono sostanzialmente a due: l’insus- sistenza del licenziamento discriminatorio nel caso concreto e la conferma del licen- ziamento per giusta causa motivato da insubordinazione della lavoratrice regolato dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato all’azienda coinvolta. La gestio- ne del caso in azienda prima del licenziamento è condizionata quasi sicuramente da una serie di cattivi consigli che la lavoratrice ha ricevuto e che, soprattutto in sede

117

di opposizione ex l. 92/2012, emergono con tutta evidenza, risolvendo una serie di dubbi che il decreto del mese di aprile 2018 non aiutava a chiarire.

In estrema sintesi, una lavoratrice dipendente di IKEA (madre separata di due figli, di cui uno disabile al 100%) viene licenziata per giusta causa in ragione del mancato rispetto degli orari modificati dal datore di lavoro. Il licenziamento è motivato da ragioni discriminatorie (l’essere madre, in particolare di un figlio disabile) o è so- stenuto dal mancato rispetto degli orari di lavoro da parte della lavoratrice che, in autonomia, ha deciso di seguire i vecchi orari di lavoro, nel frattempo superati da nuove formule di orario introdotte dal datore di lavoro?

Passando alle questioni di stretto diritto, si deve sottolineare che quella della sus- sistenza del licenziamento discriminatorio è risolta in modo alquanto sbrigativo dal giudice, il medesimo, in entrambe le sedi. Dopo aver ricordato l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori e la famosa sentenza della Cassazione civile sez. lav., 05/04/2016, n. 6575, citata dal giudice, in cui viene riconosciuto dal giudice di legittimità l’irrile- vanza dell’elemento soggettivo al fine di configurare una discriminazione, il giudice esclude che la ricorrente abbia assolto agli oneri probatori posti a sua carico (pag. 5 ord.: pag. 2-3 sent.) ed esclude l’esistenza di una discriminazione diretta in ragione del sesso/maternità. Questo passaggio merita di essere approfondito perché al pro- blema della sussistenza della discriminazione diretta che rende nullo il licenziamen- to, si aggiunge a quello della prova in materia di discriminazione per ragioni di sesso. La questione di stretto diritto antidiscriminatorio coinvolge l’interpretazione degli artt. 25 e 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 e dell’art. 3 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Deve essere, in effetti, ricordato che – facendo sintesi della dimensione della tutela con quella della parità della lavoratrice madre – l’art. 25 del d.lgs. 198/2006 nel 2010 aggiunge il seguente comma 2 bis: “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gra- vidanza, nonchè di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio”. Dai fatti in causa emerge che la lavoratrice assunta nel reparto FOOD si autodetermina gli orari nel frattempo modificati dal datore di lavo- ro perché l’orario di lavoro proposto risulta incompatibile “con le proprie esigenze familiari” (pag. 1 dell’ord.). La ricorrente, che ha deciso di rispettare l’orario di lavoro superato, deduce di aver patito un trattamento discriminatorio in ragione della sua condizione di donna e madre in quanto “solo la sua condizione di madre l’ha costret- ta ad opporsi alla turnazione che l’azienda pretendeva di imporle e solo la sua condi- zione di madre (in particolare di un figlio disabile) l’ha costretta alle ripetute assenze che l’hanno resa invisa alla società, e stigmatizzate anche nel comunicato con cui la società ha cercato di giustificare il proprio comportamento”. La discriminazione è, quindi, motivata dal fattore sesso e nella maternità, il trattamento sfavorevole è rappresentato dal licenziamento intimato dall’azienda e il nesso di causalità che lega fattore di protezione e trattamento sfavorevole risiede “nella impossibilità, in considerazione degli impegni di assistenza familiare, di rispettare la turnistica e nel-

118

la molteplicità di assenze”. In sede di opposizione al decreto di rigetto, il giudice si limita a scrivere quanto alla discriminatorietà del licenziamento che “la difesa della ricorrente non ha apportato elementi ulteriori rispetto a quelli allegati nella prima fase”, nel senso che non sono forniti elementi di fatto “precisi e concordanti” idonei a fondare la presunzione di licenziamento discriminatorio (pag. 3). Dopo aver ricor- dato – sempre e solo – la pronuncia del 2016, ritorna sulla centralità del comunicato stampa della società datrice di lavoro nella strategia di difesa della lavoratrice (e non sulla lettera di contestazione dell’addebito). Rispetto all’ordinanza precedente, nella sentenza si affronta con più chiarezza il ruolo svolto dai rappresentanti sindacali in azienda.

La vicenda processuale cristallizzata nell’ordinanza del 3 aprile 2018 – in modo mol- to evidente – era solo agli inizi ed è proseguita con l’impugnazione depositata il successivo 20 aprile 2018 conclusa con la sentenza del 29 ottobre 2018 che ne con- ferma in toto gli esiti. La vicenza in sede di appello risulta conciliata tra le parti. Sono molti gli elementi da ricomporre in questa sede per offrire un commento com- pleto e per offrire agli operatori, soprattutto sindacali, sollecitazioni utili per utilizza- re in modo corretto il diritto antidiscriminatorio nel contesto di un licenziamento. In primo luogo, traspare che lo stesso giudice del Tribunale di Milano scrivendo la mo- tivazione dell’ordinanza anche in ragione del rito prescelto (ex art. 1, comma 48. l. 92/12), ricorda che un’eventuale fase di opposizione potrebbe essere avviata anche al fine di meglio approfondire le questioni di merito sollevate che la fase cautelare non consente di approfondire.

Al licenziamento è stata data ampia eco sulla stampa nazionale anche perché – dopo la pronuncia – i colleghi hanno effettuato uno sciopero di solidarietà nei confronti della lavoratrice licenziata. Considerato il tema, una lettura di carattere tecnico-giu- ridico deve essere accompagnata da un’adeguata rilevanza della vicenda umana: può un datore di lavoro impunemente licenziare una lavoratrice madre di un figlio disabile per il fatto che si prende cura del figlio? Purtroppo, dopo la lettura dell’ordi- nanza emerge una realtà fattuale che impone di riformulare la domanda stessa nel modo seguente: perché nessuno ha consigliato nel modo corretto la lavoratrice dal mese di giugno al mese di ottobre 2017? Ad una lettura attenta, non sfugge che la concreta gestione del caso nel periodo antecedente al licenziamento è carente di ogni necessaria cautela volta ed evitare il licenziamento per giusta causa della cui legittimità (sia il giudice della sede cautelare che di merito) non dubitano. La suc- cessiva sentenza spiega che sugli esiti complessivi della causa hanno pesato anche i cattivi consigli ricevuti dalla lavoratrice: l’orario nuovo della lavoratrice non poteva risultare sospeso dalla mera sottoposizione delle questioni di conciliazione vita e lavoro in sede di riunioni tra la rappresentanza sindacale e il capo del personale. Come scrive il giudice, anche se la questione fosse stata posta (e non c’è prova che lo sia stata) “ciò non avrebbe autorizzato la lavoratrice a violare la turnazione solo perché non condivisa. La lavoratrice, più correttamente avrebbe potuto impugnare

119

la nuova turnazione, ma non certo autodeterminarsi il turno secondo le proprie, seppur legittime, esigenze, ignorando la disposizione del datore di lavoro” (pag. 6 sent.). I rappresentanti sindacali, insomma, non hanno svolto un ruolo chiaro dato che il giudice aggiunge espressamente che sulla consapevolezza della lavoratrice rispetto ai turni e alla vigenza delle relative regole in materia di orario hanno pesato consigli che non avrebbero, comunque, inciso sul rilievo disciplinare della condotta, né sull’elemento soggettivo in capo alla ricorrente. Un errore strategico, quindi, che ha indubbiamente pesato sull’intera vicenda.

Che il lavoro a turni sia di difficile conciliazione con le esigenze di cura dei figli è un fatto noto, che ancor di più la conciliazione sia difficile per una madre separata è fatto certo e che sia estremamente difficile far fronte alla cura di un figlio disabile pure. Quello che si rileva – fino a prevalere nel caso specifico – è che il costrutto della discriminazione non risulta sostenuto da prova adeguata. Il ricorso contro il licenziamento pare costruito non a partire dalla lettera di contestazione dell’adde- bito, ma dal testo del comunicato stampa (come riportato dai numerosi quotidiani che l’hanno pubblicato, seppur parzialmente, in cui si evocano le assenze della lavo- ratrice). Ma in corso di causa diventa centrale solo la lettera di contestazione dell’a- zienda da cui emerge la centralità della scelta della lavoratrice di autodeterminarsi l’orario e non altro (trattamento anche pregresso dei permessi per assistenza del figlio disabile). Il datore di lavoro prova (in applicazione al riparto dell’onere della prova indicato dall’art. 40 del d.lgs. 198/06) che ha sempre concesso i permessi per assistenza al figlio disabile, che la lavoratrice non ha avuto blocchi di carriera e che “in occasione delle variazione di turni decise nel giugno 2017 ha cercato di venire incontro alle esigenze della lavoratrice, sia impostando una turnistica sulla base del- le esigenze rappresentate (…) e chiedendo agli altri coordinatori di rendersi flessibili al fine di poterle accogliere, sia accogliendo ben 15 indicazioni individuate” dalla lavoratrice “come assolutamente imprescindibili su un totale di 17”. Su quelle due richieste non accettate relative agli orari del lunedì e del martedì si è concentrata la forzatura della lavoratrice e il conseguente licenziamento.

Il passaggio chiave dell’intera vicenda è proprio la scelta compiuta della lavoratrice di autodeterminare una parte di orario di lavoro applicando formule orarie oramai superate per tutti gli altri lavoratori e lavoratrici del servizio FOOD senza alcuna cau- tela (lettere e/o comunicazioni scritte in cui si segnala per ciascuno spostamento/ cambiamento di orario il carico di cura da assolvere ma non assolto, ad esempio, e/o la comunicazione preventiva di necessità di un orario diverso cercando di mantene- re l’orario assegnato in ragione del potere direttivo dell’azienda senza lasciarsi coin- volgere, tra le altre cose, in discussioni dai toni accesi con le referenti del reparto). Dalla ricostruzione emerge, ad esempio, che il tema non è solo quello delle assenze, ma delle presenze della lavoratrice in fasce di orario non dovute oltre che una serie di reazioni che la stessa avrebbe tenuto davanti a testimoni nel luogo di lavoro (tut- te confermate in giudizio). Senza nessuna messa in mora formale della direzione, non può che ammettersi un troppo facile spostamento dell’attenzione del datore di

120

lavoro sull’art. 229 del CCNL Aziende del Terziario Distribuzione e Servizi (ipotesi di accordo del 26/2/2011 modificato e sottoscritto definitivamente in data 6/472011) che prevede tra le cause di licenziamento disciplinare - in via esemplificativa - “l’in- subordinazione verso i superiori accompagnata da comportamento oltraggioso”. Il licenziamento per giusta causa dichiarato come legittimo dal giudice è fondato sull’insubordinazione, perché le altre fattispecie (ritardo, permanenza nel luogo di lavoro oltre l’orario) non sono idonee a supportare un recesso in tronco del datore di lavoro. In questa sede, non si può non prospettare la possibilità del ridimensiona- mento della gravità dell’insubordinazione in ragione dello stress emotivo della lavo- ratrice (escluso da Cassazione civile, 18 luglio 2018, n.19092, sez. lav., con riguardo ad un caso molto diverso da quello del peso della cura di un figlio disabile come nelle pronunce che si commentano). Sulla valutazione che deve essere effettuata dal giudice di merito, in effetti, si ricorda che “nell’applicare le clausole generali come quella di cui all’art. 2119 o all’art, 2106 c.c., che dettano tipiche ‘norme ela- stiche’, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poi- ché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare” (Cassazione civile, 09 novembre 2016, n. 22796, sez. lav.; si legga altresì Cassazione civile sez. lav., 17/05/2018, n. 12094 sul legame discrimi- nazione e insubordinazione; contra Corte appello, Torino, 26/03/2001). Oltre alla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, possono trarsi osservazioni utili alla trattazione di tali tipologie di cause anche dall’interpello 68 del 2009 del Ministero del lavoro. In effetti, dopo aver ricostruito i principi da considerare in tema di con- ciliazione vita e lavoro, scrive il Ministero che “nell’ordinamento vigente vi sia un tendenziale riconoscimento di un obbligo, a carico del datore di lavoro, di valutare la possibilità, secondo canoni di correttezza e buona fede, di assegnare i dipendenti a turni di lavoro compatibili con le loro qualificate e comprovate esigenze familiari, specie quando la determinazione di un particolare orario di lavoro non comporti per l’azienda apprezzabili difficoltà organizzative”. A ciò aggiunge che “l’esercizio del potere organizzativo del datore di lavoro, rientrante nella libertà di iniziativa eco- nomica garantita dall’art. 41 Cost., vada esercitato proprio nel rispetto dei canoni di correttezza e buona fede e vada contemperato con la protezione di altri interessi anch’essi tutelati dall’ordinamento costituzionale (artt. 3 e 37 Cost.) e comunitario (Direttiva n. 76/207/C.E.E. 9.2.1976), facenti capo al lavoratore. Tutto ciò premes- so, il datore di lavoro, ancorché non presenti progetti di richiesta di contributi per la promozione di azioni volte ad incentivare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, non è esonerato dal dovere di leale collaborazione sotto i profili della buona fede, correttezza e ragionevolezza nello svolgimento del rapporto di lavoro. Per- tanto lo stesso è tenuto valutare con la massima attenzione ogni soluzione utile ad agevolare l’assolvimento della funzione genitoriale del dipendente, in particolare attraverso una diversa organizzazione del lavoro o una flessibilizzazione degli orari. Tale valutazione, evidentemente, andrà effettuata con riferimento al caso concreto,

121

avendo riguardo alla oggettiva e comprovata situazione di difficoltà familiare e alle documentate esigenze di accudienza ed educative della prole”. Anche il diritto pri- vato può aiutare a ridimensionare la gravità del comportamento contestato (dopo il licenziamento) così come può supportare la messa in mora il datore di lavoro che non risponde alle richieste di considerare le esigenze di cura della lavoratrice (prima dell’esercizio del recesso ex art. 2119). Perché una risposta concreta sull’equilibrio da garantire a livello di singola azienda deve essere ricavata dalla corretta pondera- zione degli interessi da confrontare nel caso concreto, ricordando che la madre di un figlio disabile è anche protetta dalla gravità del peso del fattore di rischio disabilità attraverso la discriminazione cd. associata (come insegna il caso CE 17 luglio 2008, Coleman, C-303/06; l concetto di discriminazione associata in essa legittimato è già stato applicato in Italia dal Tribunale Pavia, 19/09/2009 e dal Tribunale ordinario di Milano, sezione lavoro, ordinanza del 16 settembre 2010).

3. Conclusioni: genitorialità, discriminazioni e famiglia in

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 117-122)