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Cathy La Torre*

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 146-152)

L’esigenza di apprestare tutele giuridiche adeguate a favore delle vittime di discri- minazioni legate all’identità di genere o all’ orientamento sessuale rappresenta una conquista recentissima nel panorama giuridico, sia italiano che europeo ed interna- zionale.

La necessità di introdurre delle norme volte a colmare le lacune nell’attuazione del principio di eguaglianza, infatti, si è manifestata con particolare evidenza soltanto sul finire del secolo scorso, ed è stata avvertita anche dalle democrazie occidentali più consolidate.

Alcune di queste hanno addirittura optato per la revisione costituzionale delle pro- prie carte fondamentali, introducendo nelle stesse un riferimento espresso al divie- to di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. La prima Costituzione del mondo ad aver previsto tale divieto è stata quella del Sudafrica nel 1996, seguita dalle Isole Figi nel 1997, dall’Ecuador nel 1998 e dal Portogallo nel 2004.

Prima di esaminare gli strumenti che l’ordinamento italiano offre a tutela delle di- scriminazioni sopra richiamate, pare opportuno offrire una definizione di identità di genere e orientamento sessuale, dal momento che parte delle discriminazioni vissute dalle persone omosessuali, bisessuali e transgender passa anche da un uso impreciso e confuso dei termini.

Per identità di genere si intende comunemente il senso di appartenenza di una per- sona ad un genere con il quale si identifica e con il quale viene identificato dalla società (ruolo di genere). Questa può coincidere con il sesso biologico (cisessualità) oppure no (transessualità).

Per orientamento sessuale, invece, si intende la direzione che assume l’attrazione affettiva e sessuale di un individuo, che può essere verso persone di sesso opposto (eterosessualità), dello stesso sesso (omosessualità) o entrambe (bisessualità). La Costituzione italiana non menziona in alcun modo l’identità di genere né l’orien-

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tamento sessuale. L’ articolo 3, infatti, nel sancire la pari dignità e l’eguaglianza di- nanzi alla legge di tutti i cittadini, tra i fattori che non devono rappresentare causa ingiustificata di discriminazione si limita a menzionare il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche e le condizioni personali e sociali.

L’espressione “orientamento sessuale” compare per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano soltanto nel 2003 con il d.lgs 216/2003, attuativo della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

Tale Direttiva ha imposto a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea l’adozione di disposizioni dirette a prevenire e reprimere le discriminazioni fondate (anche) sull’o- rientamento sessuale, sia dirette che indirette, nell’ambito dell’impiego pubblico e privato, nell’accesso alla formazione professionale e nell’affiliazione a organizzazioni di lavoratori o di datori di lavoro.

Tra le più recenti applicazioni della suindicata disposizione normativa, ricordiamo l’ordinanza del 19 febbraio 2019 della Corte di Cassazione, la quale, confermando la pronuncia della Corte d’Appello di Venezia, ha condannato un imprenditore a risarcire il danno patito da un proprio dirigente nell’ambito di un rapporto di lavoro. Questi, infatti, aveva subito per anni una condotta offensiva e vessatoria da parte del proprio datore di lavoro a causa della sua presunta omosessualità.

Nella medesima direzione, la sentenza n. 63/2016 della Corte d’Appello di Trento, con la quale una scuola è stata condannata a risarcire una sua insegnate a causa del mancato rinnovo del contratto di lavoro, dovuto a una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale dell’insegnante in questione.

La possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare misure volte a combattere la discriminazione fondata anche sull’orientamento sessuale era stata riconosciuta dall’art. 13 del Trattato CE (oggi art. 19 TFUE), che ha rappresentato una tappa fon- damentale per il diritto antidiscriminatorio europeo e, conseguentemente, italiano. La tutela dell’orientamento sessuale rientra infatti tra le funzioni dell’Unione Euro- pea ed è prevista nel suo c.d. “diritto primario”, di cui fanno parte anche le previ- sioni antidiscriminatorie contemplate nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, divenuta giuridicamente vincolante nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

Notiamo, tuttavia, che la protezione dell’individuo dalle discriminazioni legate all’o- rientamento sessuale prevista dalla normativa euro-unitaria si limita al solo ambito lavorativo, lasciando esclusi altri aspetti assai rilevanti della vita quotidiana, quale l’istruzione, la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria. La citata Direttiva 2000/78/ CE, infatti, non include tali ambiti tra quelli in cui opera il divieto di discriminazione, come invece prevedono altre direttive per le discriminazioni di sesso ed etnico-raz- ziali.

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L’esplicito divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale al di fuori dell’ambito occupazionale non è previsto neppure dalla normativa italiana, dal mo- mento che il d.lgs. 216/2003 non va oltre a quanto prescritto dall’Unione Europea agli Stati membri.

Al di fuori del contesto occupazionale, la giurisprudenza italiana ha talvolta ovviato alle lacune normative ricorrendo al combinato disposto di cui gli articolo 2 e 3 del- la Costituzione. L’articolo 2, ricordiamo, tutela i diritti fondamentali della persona, anche se non espressamente riconosciuti dagli articoli seguenti, rappresentando, perciò, una c.d. “clausola aperta”.

È questo ad esempio il caso della sentenza n. 2353/2005 con il quale il TAR Sicilia -Catania ha chiarito che l’«omosessualità non è una malattia psichica», e conseguentemente annullato il provvedimento con cui la Motorizzazione civile aveva disposto la revisione della patente di una persona dichiaratamente gay. La medesima vicenda è poi giunta dinanzi alla Corte di Cassazione che, con la sen- tenza n. 1126/2015 ha riconosciuto che la parte lesa è stata vittima di un vero e pro- prio comportamento di omofobia, che giustifica il diritto al risarcimento del danno. In altri casi ancora, invece, la condanna giudiziale di discriminazioni di matrice omofobica è stata possibile soltanto qualora la condotta tenuta dall’autore delle stesse rientrasse in fattispecie sanzionate sul piano penalistico, quali l’ingiuria, la diffamazione o lo stalking (v. a titolo esemplificativo Corte di Cassazione, sentenza n. 10248/2010; Tribunale di Torino, sentenza n. 5009/2018; Tribunale di Milano, sentenza n. 9393/2017).

È invece del tutto assente nel nostro ordinamento una disciplina chiara e univoca che tuteli contro le discriminazioni legate all’identità di genere, al pari di quanto accade, quanto meno in ambito lavorativo, per l’orientamento sessuale.

Ciò appare alquanto significativo, non soltanto perché all’accesso al lavoro e alla stabilità lavorativa è legata un’indipendenza economica, ma anche perché si tratta di un ambito particolarmente critico per le persone transessuali, le quali di sovente subiscono discriminazioni all’ingresso nel mondo del lavoro e al mantenimento del posto di lavoro, soprattutto in fase di “transizione” (ossia durante il passaggio da un sesso all’altro).

Ciò nonostante, se spostiamo lo sguardo all’ordinamento europeo ed internazionale scopriamo che una serie di pronunce giudiziali significative, prima fra tutte la sen- tenza della Corte di giustizia UE P. vs. S. e Cornwall County Council del 1996, hanno contribuito ad estendere le tutele previste per le discriminazioni fondate sul sesso anche a chi abbia cambiato sesso, senza però prendere in considerazione la condi- zione di chi stia ancora vivendo la transizione.

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L’orientamento seguito dalla Corte di giustizia UE è stato poi accolto dal Parlamento europeo con la Direttiva 2006/54/CE, in materia di parità di trattamento tra uomini e donne in ambito lavorativo. Tale intervento, tuttavia, rappresenta un’arma smus- sata poiché, pur considerando l’estensione delle tutele antidiscriminatorie di genere anche a favore delle persone transessuali operata dalla Corte di giustizia, non obbli- ga gli Stati membri ad adottare provvedimenti legislativi in tal senso.

Le profonde lacune dell’ordinamento italiano a livello nazionale sono state parzial- mente colmate da alcune recenti leggi regionali che, non solo si impegnano a pre- venire e contrastare le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale in ambiti ulteriori rispetto a quello lavorativo (come l’istruzione e l’assistenza sanitaria), ma estendono lo stesso anche alle discriminazioni fondate sull’identità di genere. La prima regione italiana a muoversi in questa direzione è stata la Toscana con la legge n. 63 del 2004, seguita da Liguria (2009), Marche (2010), Piemonte (2016) e, infine, dall’Emilia-Romagna (2019).

Questi piccoli passi avanti sono stati resi possibili grazie anche ad una serie di docu- menti internazionali giuridicamente non vincolanti (c.d. soft law), come i Principi di Yogyakarta adottati nel 2006, che hanno svolto un ruolo di persuasione non irrile- vante nei confronti dei governi nazionali, sottolineando come i diritti delle persone omosessuali e transessuali debbano essere ricompresi nella più ampia categoria dei diritti umani. Ricordiamo, tra le altre, le Risoluzioni del Consiglio dei diritti uma- ni dell’ONU del 2011 “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere” e quella successiva del 2014, nonché la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 2010, con la quale si invitava gli Stati membri ad approva- re misure volte a rafforzare la tutela delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere.

Tra le aree di intervento più volte indicate dalle istituzioni internazionali vi è il con- trasto all’omofobia, su cui, in particolare, si è più volte pronunciata l’Unione Euro- pea con le Risoluzioni del 2007, 2012 e 2014.

Il contrasto all’omo-bi-transfobia è già in corso da diversi anni in molti paesi europei e non (tra i quali però manca ancora l’Italia), i quali hanno adottato apposite norma- tive volte a combattere sia i crimini che i discorsi d’odio.

A tal proposito, ricordiamo che crimini d’odio (o hate crime) sono reati nei quali la vittima viene colpita in ragione della sua identità di gruppo (come la razza, l’origine nazionale, la religione, l’identità di genere, l’orientamento sessuale o altra caratte- ristica di gruppo). Sono realizzati sulla base di pregiudizio e intolleranza e manife- stano spesso una natura particolarmente violenta, rappresentando, pertanto, una grave minaccia per le vittime e per le società intera.

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Tali crimini, infatti, non si limitano a ledere i diritti fondamentali delle vittime ma violano altresì l’eguale dignità dinanzi alla legge di tutti i membri di una comunità, incrinando la pacifica convivenza sociale, scopo ultimo e supremo di ogni Stato de- mocratico.

I crimini d’odio, quindi, colpiscono sempre gli appartenenti ad un gruppo che pre- senta una caratteristica comune, una c.d. “caratteristica protetta”. Sono caratteri- stiche protette quelle che creano un’identità comune, tipica del gruppo e che ri- flettono un aspetto profondo e fondamentale dell’identità di una persona. Possono essere più o meno palesi a terzi e sono quasi sempre immutabili, nel senso che non possono essere modificate per decisione dell’interessato.

Sulla base di ciò, risulta chiaro come tra le caratteristiche meritevoli di protezione da parte dell’ordinamento giuridico debbano essere ricomprese anche l’identità di genere e l’orientamento sessuale, ossia due elementi immutabili, essenziali e im- prescindibili della personalità di ciascun individuo e a cui la Costituzione riconosce la massima tutela all’art. 2.

Tra i crimini d’odio, una particolare categoria è rappresentata dai c.d. “hate speech”, ossia quei discorsi che incitano all’odio, alla paura, alla discriminazione o persino alla violenza contro le persone appartenenti ad una determinata categoria.

Questa tipologia di discorsi costituisce una minaccia particolarmente grave per ogni ordinamento democratico poiché non solo contribuiscono alla diffusione di astio, paura e pregiudizi tra le diverse compagini sociali ma creano un “noi” e un “loro” all’interno di una stessa comunità, incrinando pericolosamente la coesione sociale. In Italia, allo stato attuale, i crimini d’odio sono vietati e sanzionati dagli artt. 604-bis e 604-ter del Codice penale soltanto per ragioni razziali, etniche, nazionali e religio- se.

Il disegno di legge Zan, che proprio nei giorni in cui si scrive è in discussione alle Ca- mere, prevede l’applicazione delle suindicate norme penalistiche anche per ragioni legate all’orientamento sessuale, al genere e all’identità di genere. La sua approva- zione andrebbe a colmare una pericolosa lacuna normativa, mettendo finalmente l’Italia al passo con le legislazioni antidiscriminatorie già vigenti da anni in molti paesi democratici.

Dall’analisi offerta si evince chiaramente come le misure di contrasto apprestate dall’ordinamento italiano ed euro-unitario contro le discriminazioni basate sull’i- dentità di genere e l’orientamento sessuale siano poche e terribilmente limitate. Gli episodi di discriminazione che ogni giorno si verificano a danno di persone omo- sessuali, bisessuali e transessuali, infatti, testimoniano l’urgenza di un intervento

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normativo più ampio, che non solo tuteli le categorie indicate attraverso misure repressive e sanzionatorie ma anche attraverso strumenti in grado di favorire la dif- fusione di una cultura fondata sul dialogo, il rispetto e la tolleranza reciproca. L’approvazione del disegno di legge Zan potrebbe rappresentare un ulteriore passo avanti in questa direzione, contribuendo ad accrescere la tutela effettiva della digni- tà e dell’eguaglianza dinanzi alla legge per ciascun individuo, indipendentemente dal genere con cui si identifica o che sente di amare.

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Uguali senza distinzione di religione

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