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Paolo Addis* – Maria Giulia Bernardini**

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 196-200)

1. Premessa

All’interno di questo contributo, ci proponiamo di fornire al lettore una panoramica relativa alla declinazione che assume il diritto antidiscriminatorio quando viene ri- ferito ad una specifica soggettività, quella delle persone con disabilità. Negli ultimi tempi, anche in seguito all’entrata in vigore della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (d’ora in avanti, CRPD), la riflessione giuridica ha rivolto con sempre maggiore frequenza la propria attenzione a soggetti che la dottrina ha rico-

nosciuto diffusamente essere “nuovi” per il mondo del diritto1, in ragione del fatto

che l’approccio culturale con il quale, oggi, ci si accosta alla disabilità e al tema dei diritti delle persone con disabilità è sensibilmente mutato, come si avrà modo di riscontrare nel prosieguo di questo saggio.

Per approfondire il tema delle discriminazioni fondate sulla disabilità, abbiamo scelto di avvalerci dell’analisi di alcuni casi pratici relativi a due ambiti della vita quotidiana (istruzione e lavoro), e abbiamo altresì tentato di dare conto dell’ottica multilivello in cui, come è noto, ormai da qualche tempo le fonti si strutturano, e in relazione alla quale le Corti si trovano a dover reperire il materiale rilevante per le proprie decisioni2. Infatti, come ha evidenziato anche la Corte di Cassazione, la con-

dizione delle persone con disabilità va inquadrata in una «logica di integrazione tra fonti di protezione dei diritti fondamentali interne, convenzionali, sovranazionali ed internazionali [...] senza rotture con il dato letterale delle norme nazionali [...] [ma]

1 Si tratta di una dinamica su cui si innesta un processo evolutivo che vede il passaggio dall’idea di soggetti di diritto a quella di persone: cfr S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012 (in particolare pp. 149-178).

2 Sul problema del reperimento delle fonti, che caratterizza l’attività dell’interprete, ex multis cfr. B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, CEDAM, Padova, 2014.

* Assegnista di ricerca di Diritto Costituzionale, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa. ** Ricercatrice di Filosofia del diritto, Università di Ferrara.

I due Autori hanno costantemente collaborato nella fase di ideazione e revisione del saggio e hanno scritto congiuntamente la premessa. Sono da attribuire a Paolo Addis i §§ 2, 3, e a Maria Giulia Ber- nardini i §§ 4 e 5.

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in modo che sia coerente con i vincoli liberamente assunti dal nostro Paese in sede europea e internazionale»3.

Prima di procedere con l’analisi specifica delle forme di discriminazione fondate sul- la disabilità, è necessario formulare alcune osservazioni preliminari, al fine di chia- rire meglio in cosa consista il mutamento dell’approccio culturale al quale si è fatto cenno poc’anzi. La vita delle persone con disabilità è stata storicamente connotata, pur non in termini assoluti, da una condizione di minorità ed esclusione: la maggior parte delle società, nel confrontarsi con le persone che presentavano delle meno- mazioni (fisiche, ma non solo) ha tendenzialmente adottato atteggiamenti (più o

meno consapevoli4) di rigetto, rifiutandosi di riconoscere in loro esseri umani “a

pieno titolo”, e dunque negandone l’eguaglianza rispetto a coloro che erano consi- derati “normali”, o “normodotati”. Ed è a partire dal presupposto della titolarità di una soggettività “mancante” e deficitaria che ha tratto giustificazione l’adozione di meccanismi di esclusione e discriminazione strutturale, che nelle parole delle stes- se persone con disabilità hanno assunto sovente il carattere di una vera e propria “oppressione”5.

Tale premessa risulta fondamentale qualora si voglia studiare la condizione delle persone con disabilità: prima di affrontare il tema dei diritti ed interrogarsi sull’uti- lità degli strumenti antidiscriminatori via via elaborati al fine di garantire una loro maggior tutela, è infatti indispensabile comprendere le concezioni culturali ad essi sottese e, dunque, approfondire brevemente la distinzione tra il “modello medico” e il “modello sociale” della disabilità, intesi come paradigmi euristici che consento- no di definire la disabilità stessa. Invero, ormai da qualche decennio si è diffusa la

3 Cfr. Cassazione Civ. n. 12911 del 23/05/2017. Cfr. altresì, per quel che concerne le decisioni del Supremo consesso, le sentt. n. 2210/2016 e n. 17867/2016; le decisioni qui menzionate relative alla tutela della condizione della persona con disabilità in ambito lavorativo, su cui si tornerà specificamen- te infra.

Il tema della tutela multilivello dei diritti è ampiamente trattato in letteratura; per un’introduzione, cfr. almeno A. Ruggeri, La tutela “multilivello” dei diritti fondamentali, tra esperienze di normazione e

teorie costituzionali, in “Politica del diritto”, 3/2007, pp. 317-346; specificamente sulla disabilità, cfr.

anche G. Simoneschi, Il diritto al lavoro della persona disabile: tutela multilivello e progetto di vita, in “Minorigiustizia”, 3/2010, pp. 179-193, nonché la parte monografica della rivista “Questione giustizia”, 3/2018, dedicata al tema del rapporto tra giustizia e disabilità.

4 La letteratura psicoanalitica relativa alle ragioni del rifiuto dell’alterità è ampia: si vedano, ad esem- pio, J. Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano, 2006 e M.C. Nussbaum, Na-

scondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 2007. Specificamente sulla di-

sabilità, cfr. J. Kristeva, J. Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre. Dialogo tra una non credente

e un credente sull’handicap e la paura del diverso, Donzelli, Roma, 2011 e M. Shildrick, Dangerous Discourses of Disability, Subjectivity and Sexuality, Palgrave, MacMillan, Londra, 2009.

5 Sull’oppressione nell’ambito della riflessione disability oriented, cfr., per tutti P. Abberley, The Con-

cept of Oppression and the Development of a Social Theory of Disability, in “Disability & Society”, 2,

1987, 1, pp. 5-19. Per un inquadramento di carattere storico del trattamento riservato alle persone con disabilità cfr. ex multis M. Schianchi, Storia della disabilità: dal castigo degli dèi alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2012, nonché il più recente Id., Il debito simbolico: una storia sociale della disabilità

tra Otto e Novecento, Carocci, Roma, 2019, H.-J. Stiker, Corps infirmes et sociétés, III ed., Dunod, Paris,

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consapevolezza della relatività storico-geografica del concetto in questione, il quale non è definibile in astratto né in termini assoluti; al contrario, per essere compreso, deve essere contestualizzato e inquadrato usando coordinate di tipo culturale, so- ciale, politico e giuridico, nonché tenendo ben presente che l’approccio da utilizzare deve essere dinamico e – come vedremo – aperto a continue revisioni e risignifica-

zioni6. Solo adottando questa prospettiva si può capire come mai la situazione delle

persone con disabilità sia stata considerata prima una condizione di diversità che relegava il soggetto che ne fosse interessato ad una “radicale alterità” rispetto alla normalità normodotata, poi una specificità meritevole di integrazione, infine una specificità che vanta il diritto all’inclusione sociale.

Questa traiettoria, tra l’altro, non può ancora dirsi conclusa, atteso che retaggi del trattamento escludente sono ancora riscontrabili in pressoché ogni contesto, e che la stessa inclusione degli individui con disabilità non ne garantisce ancora, allo stato attuale, il loro pieno ed effettivo riconoscimento quali soggetti, in un rapporto di eguaglianza con coloro che, nei diversi contesti, sono considerati “normodotati”. In base ad un’ottica escludente, in un primo momento le persone con disabilità sono state considerate incapaci di provvedere a sé stesse e, come tali, destinatarie di as- sistenza caritatevole da parte del resto della società, “oggetti di cura” da custodire o segregare. Invero, solo in tempi recenti si è approdati a una prospettiva in cui tali

individui meritano “eguale considerazione e rispetto”7, ossia devono essere consi-

derati soggetti eguali rispetto agli altri consociati: persone alle quali va riconosciu- ta pari dignità sociale, in linea con i principi costituzionali che informano il nostro

ordinamento giuridico e che si pongono alla base del nostro patto di cittadinanza8.

La differenza tra le prospettive appena individuate può essere resa attraverso il ri- chiamo ai due modelli della disabilità summenzionati, ossia quello medico e quello sociale. In base al primo, a lungo dominante e ad oggi non ancora definitivamente tramontato, la disabilità va letta come condizione di “svantaggio”, “mancanza” o “anormalità” che deriva da una menomazione fisica o mentale, spesso considera- ta un malfunzionamento; si tratta di una condizione intrinsecamente negativa, in quanto preclude ad un individuo che ne sia “vittima” la possibilità di condurre una vita normale. Chi è disabile dovrà allora prendere atto della propria minorazione e affrontare i propri problemi da solo (o avendo accanto la propria famiglia, dato che

6 Per un’introduzione al tema, cfr. almeno S. Grech, K. Soldatic (eds.), Disability in the Global South.

The Critical Handbook, Springer, Dordrecht, 2016.

7 Rimandiamo alla nota tesi del filosofo del diritto Ronald Dworkin, che faceva ricorso al principio dell’equal concern and respect per generare il principio dell’eguaglianza approssimativa. Per appro- fondimenti, cfr. R. Dworkin, Taking Rights Seriously, Harvard University Press, Cambridge, 1978. Taluni hanno ritenuto che questo principio sia alla base delle azioni positive: cfr. J. Marshall, The Right to

Equal Concern and Respect: The Foundation of Affirmative Action, in “Brigham Young University Prelaw

Review”, 9, article 9, https://scholarsarchive.byu.edu/byuplr/vol19/iss1/9.

8 In una prospettiva costituzionale, cfr. C. Colapietro, Diritti dei disabili e Costituzione, Editoriale Scien- tifica, Napoli, 2011.

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l’attività di caregiving è primariamente a base familiare, o al più riconducibile alla sfera del volontariato).

Al contrario, sulla società non grava (e non deve gravare) alcun onere. Ad occuparsi della persona con disabilità saranno innanzitutto i familiari e, per quanto attiene la cura e la presa in carico, chi ha ricevuto un’adeguata formazione scientifica e profes- sionale per curare gli anormali9 nel corpo e nella psiche, primo fra tutti il personale medico. L’obiettivo – perseguito essenzialmente secondo i ritmi fissati e scanditi dal terapeuta – è il ritorno alla normalità perduta: la persona con disabilità deve recuperare ciò che non ha più in termini funzionali, o avvicinarsi al grado che sia più prossimo a tale condizione. Solo dopo che il processo di “normalizzazione” avrà avuto compimento, il soggetto potrà far parte a pieno titolo della società10.

Questo approccio reca con sé notevoli conseguenze di carattere politico e giuridico. In primo luogo, come già anticipato, la disabilità finisce per essere una questione privata: lo scorrere della vita sociale può continuare imperturbato, in attesa della guarigione di chi era infermo. Infatti, la persona con disabilità diviene visibile al più o come oggetto di compassione o – se si dimostra particolarmente determinata – come figura esemplare, una sorta di fonte d’ispirazione per affrontare le piccole o grandi difficoltà11.

Al contrario, se la normalità è impossibile da riottenere, è ben più probabile che la persona con disabilità venga considerata come un fardello, un “peso” sociale, innan- zitutto sul versante economico. E, se questa è la retorica che ammanta la condizione disabile, allora ben si comprende la scelta, effettuata ripetutamente nel corso della storia e di recente nuovamente riproposta anche all’interno di numerosi Stati eu- ro-unitari12, di isolare le persone con disabilità, segregandole all’interno di luoghi

deputati alla loro specifica cura, e così allontanandole dalla società per difenderla13.

9 L’impiego di tale termine, volutamente provocatorio, rimanda al noto testo di M. Foucault, Gli anor-

mali. Corso al Collège de France (1974-75), Feltrinelli, Milano, 2000.

10 Sulle logiche sottese al processo di normalizzazione si rinvia a W. Wolfensberger, The Principle of

Normalization in Human Services, National Institute on Mental Retardation, Toronto, 1972.

11 Tra gli altri, mette in guardia circa l’effetto di esclusione che l’esaltazione del cosiddetto “disability

hero” produce nei confronti delle persone con disabilità che non abbiano compiuto gesta straordina-

rie Matteo Schianchi, in Id., La terza nazione del mondo: i disabili tra pregiudizio e realtà, Feltrinelli, Milano, 2009.

12 Sull’istituzionalizzazione, cfr. almeno D.L. Braddock, S.L. Parish, An Institutional History of Disability, in G. Albrecht et al. (eds.), Handbook of Disability Studies, Sage, Thousand Oaks, 2001, pp. 11-68. Le “grandi istituzioni” sono notoriamente quelle cui si riferiscono J. Bentham, Panopticon ovvero la casa

d’ispezione, a cura di M. Foucault, M. Perrot, Marsilio, Padova, 2002; M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1973; E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino, 1978;

F. Basaglia, L’istituzione negata, Einaudi, Torino, 1968. Per uno sguardo alla contemporaneità, ed un invito a superare la logica segregante attuando i principi della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e, dunque, promuovendo il diritto alla vita indipendente, cfr. i tre report della Fundamen-

tal Rights Agency (FRA) del 2017.

13 Il richiamo è ancora a Foucault e, in particolare, a M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltri- nelli, Milano, 1998.

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A ben vedere, infatti, in questa prospettiva la condizione di tali soggetti può e deve essere affrontata facendo riferimento a sostegni appropriati, da rendicontare e tra- durre in flussi di denaro che lo Stato del benessere elargirà loro, direttamente o indirettamente; i diritti di tali individui sono dunque essenzialmente relativi alla cura e all’assistenza. Infine, è da notare un’ulteriore e rilevante conseguenza giuridica relativa a tale condizione di “minorità” ed esclusione: nell’ottica “medica”, l’accer- tamento della presenza di una menomazione o di una difficoltà relazionale in capo ad un soggetto giustifica l’operare di una presunzione concernente la sua incapacità, nonché la conseguente limitazione (più o meno rilevante a seconda dello strumento di tutela prescelto e/o resosi necessario) della sua capacità d’agire. Come è noto, tale fattore si traduce nell’ostacolo al compimento di attività giuridicamente rilevan- ti (prime fra tutte, l’esercizio dei diritti politici e gli atti di disposizione del diritto di proprietà), quando non nel loro totale divieto. Anche in termini giuridici, pertanto, la persona con disabilità avrà bisogno di “assistenza” e di “tutela”: le norme del no- stro Codice civile relative agli istituti dell’interdizione e inabilitazione (artt. 414-432) sono il logico corollario di una costruzione politica e valoriale come quella appena delineata.

A questa impostazione se ne è contrapposta, ormai da alcuni decenni, un’altra, già evocata il modello sociale della disabilità, messo a punto fra America ed Europa fra gli anni Sessanta e Ottanta del XX secolo e più volte riformulato, propone infatti una chiave di lettura inconciliabile con quella appena illustrata. Ciò perché nel modello sociale la disabilità non scaturisce dalla menomazione, ma trae origine nella società e consiste nella reazione manifestata dalla società in relazione a quella che, adot- tando una prospettiva medica, è considerata un’anomalia (anziché una specificità, una diversità che merita una piena valorizzazione). Solitamente, per rinvenire una formulazione dell’idea fondante del modello sociale della disabilità, si fa riferimento a quanto elaborato in seno a un’associazione fondata da un attivista inglese, Paul Hunt, nel 1972, la Union of the Physically Impaired against Segregation (UPIAS). In un documento, pubblicato nel 1976 e intitolato Principles of Disability, si legge che «In our view, it is society which disables physically impaired people. Disability is something imposed on top of our impairments, by the way we are unnecessarily isolated and excluded from full participation in society. Disabled people are therefore an oppressed group in society. It follows from this analysis that having low incomes, for example, is only one aspect of our oppression. It is a consequence of our isolation and segregation, in every area of life, such as education, work, mobility, housing, etc. Poverty is one symptom of our oppression, but it is not the cause. […]. We shall clearly get nowhere if our efforts are chiefly directed not at the cause of our oppression, but instead at one of the symptoms».

Le poche righe riportate consentono di mettere bene a fuoco i tratti fondamentali del modello sociale, che troverà poi ulteriori rielaborazioni, a opera di autori come – fra gli altri – Mike Oliver e Colin Barnes14: la disabilità non nasce da un deficit, ma è una

14 Si vedano, nell’ampia letteratura, M. Oliver, C. Barnes, The New Politics of Disablement, Palgrave Macmillan, Londra, 2012.

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 196-200)