Con l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori il legislatore ha inteso definire atti discriminatori quei patti o atti diretti a: “a) subordinare l’occupazione di un lavoratore
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alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero1.” Un primo intervento di ampliamento della casistica in materia fu operato a distanza di sette anni introducendo all’ultimo comma dell’art. 15 l. n. 300/70 l’inciso: “Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso2,” con l’intento sancire la parità di trattamento tra uomini e donne nel mondo del lavoro. L’ultimo intervento legislativo di modifica dello Statuto dei Lavoratori in materia di atti discriminatori è stato effettuato a mezzo del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 il quale amplia la casistica anche ai patti o atti diretti alla discriminazione di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali3.
Nel panorama europeo la lotta alla discriminazione in ambito lavorativo ha conosciuto una lunga gestazione sia nelle fonti primarie dell’Unione Europea (prima ancora Comunità) sia negli atti derivati. Già a partire dal Trattato di Roma venne introdotto all’art. 119 il principio di parità della retribuzione fra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro4. Ad esso si susseguirono ben nove direttive5, un numero di raccomandazioni e di risoluzioni
1 Art. 15 l. 20 maggio 1970 n. 300, Norme sulla tutela della libertà dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.
2 Art. 13 l. 9 dicembre 1977 n. 903 Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. 3 Art. 4 d.lgs. 9 luglio 2003 n.216.
4 Art. 119 del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea: “Ciascuno Stato membro as- sicura durante la prima tappa, e, in seguito mantiene, l’applicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. Per retribuzione deve essere inteso, ai sensi del recente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: a) che la retribuzione accordata per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura; b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per un posto di lavoro uguale.”
5 Direttiva 75/117/CEE del 10 febbraio 1975 per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile;
Direttiva 76/307/CEE del 9 febbraio 1976 relativa all’attuazione del principio della parità di trattamen- to fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro;
Direttiva 79/7/CEE del 19 dicembre 1978 relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale;
Direttiva 86/378/CEE del 24 luglio 1986 relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale modificata dalla Diret- tiva 96/97/CE del Consiglio del 20 dicembre 1996;
Direttiva 86/613/CEE dell’11 dicembre 1986 relativa all’applicazione del principio della parità di trat- tamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel
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del Parlamento europeo, quattro programmi d’azione6 e un’ampia giurisprudenza della Corte di Giustizia7. Con la sottoscrizione del Tratto di Amsterdam8 si perfezionò il campo di applicazione della tutela antidiscriminatoria evidenziando la necessità di combattere qualsiasi tipo di azione avente ad oggetto la lesione della dignità basasti su sesso, razza, etnia, religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale. Gli articoli 2, 3 e 6 A accordarono una nuova competenza espressa alle istituzioni affinché si creassero le condizioni necessarie a perseguire una lotta contro qualsiasi forma di discriminazione basata sul sesso. L’unico limite a tale competenza era dato dal voto all’unanimità del Consiglio e dalla consultazione esclusiva del Parlamento europeo. L’inserimento nel nuovo trattato dell’Accordo sulla politica sociale agli articoli 117, 118 e 119 costituiva di fatto un’ulteriore dimostrazione del reale balzo in avanti compiuto dalla politica in materia di non discriminazione e di parità tra gli uomini e le donne, tanto nella sua attuazione, facendosi riferimento al procedimento di codecisione, quanto nel suo stesso contenuto, ammettendo, per la prima volta, l’esistenza di una possibile discriminazione positiva.
A partire dal nuovo millennio gli interventi legislativi europei si sono concentrati, oltre che sulla definizione di un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, sulla definizione di misure atte a garantire un indennizzo o una riparazione reale ed effettiva del soggetto leso: il legislatore europeo ha inteso procedere all’armonizzazione delle varie discipline statali nell’assicurare il giusto ristoro in caso di evento discriminatorio, anche in
settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità;
Direttiva 92/85/CEE del 19 ottobre 1992 concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento;
Direttiva del Consiglio relativa ai congedi parentali e ai congedi per motivi familiari divenuta la Diret- tiva 96/34/CE del Consiglio del 3 giugno 1996 concernente l’accordo quadro sule congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES;
Direttiva 97/80/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 riguardante l’onere della prova nei casi di di- scriminazione basata sul sesso;
Direttiva 97/81/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES.
6 Particolare importanza ha assunto il Quarto programma di azione comunitaria a medio termine per le pari opportunità per le donne e gli uomini adottato con decisione del Consiglio il 22 dicembre 1995, GU L 335, pag. 37.
7 A titolo esemplificativo: Gabrielle Defrenne contro Sabena, sentenza 22 aprile 1976, C-43/75; Ma- ria Kowalska contro Freie und Hansestadt Hamburg, sentenza 17 giugno 1990, C-33/89; Helga Nimz contro Freie un Hansestadt Hamburg, sentenza 7 febbraio 1991, C-184/89; Coloro Pension Trustees Lts contro James Richard Russell. Daniel Mangham, Gerald robert Parker, Robert Shapr, Joan Fuller, Judith Anna Broughton e Coloroll Group Plc, sentenza 28 settembre 1994, C-200/91; Gertruida Catha- rina Fisscher contro Voorhuis Hengelo BV e Stichting Bedrijfspensionenfonds voor de Detailhandel, sentenza 28 settembre 1994, C-128/93; Francina Johanna Maria Dietz conto Stichting Thuiszorg Rot- terdam, sentenza 24 ottobre 1996, C-453/93.
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un’ottica di deterrenza9.
Sulla scia di tale evoluzione normativa si è proceduto, in Italia, alla creazione di un codice delle pari opportunità tra uomo e donna10 inteso a dare piena attuazione alle sollecitazione tanto interne (evoluzione della prassi giurisprudenziale) quanto esterne (direttive europee, risoluzioni, piani di azione, etc..). Di particolare rilievo risulta essere l’impianto definitorio delle fattispecie discriminanti, a partire dalla nuova formulazione delle molestie sessuali, contenute all’art. 26 del predetto codice: “Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile degradante, umiliante o offensivo. …omissis”. Tale impostazione intende ampliare quanto più possibile il novero di comportamenti sanzionabili pur nel rispetto di una cornice normativa che possa assicurare un quadro definitorio circostanziato. A ciò si deve aggiungere la previsione contenuta nell’art. 40 del medesimo codice, in termini di onere della prova, che introduce due pilastri fondamentali nell’impostazione dell’eventuale azione di condanna: da un lato, la possibilità di utilizzare elementi di fatto anche solamente desunti da opportune analisi sub species e dall’altro il generale principio di inversione dell’onere della prova (in capo, pertanto, al convenuto) nel dichiarare insussistente la discriminazione denunciata.
Su questo ultimo punto giova ricordare, inoltre, che dottrina e giurisprudenza sono oramai concordi nel ritenere che il solo elemento oggettivo che si fondi su presunzioni precise e concordanti sia elemento sufficiente per accertare e condannare una condotta discriminatoria, a nulla valendo l’inesistenza di un elemento soggettivo11. A ciò si deve aggiungere che la discriminazione può essere considerata tale sia in forma diretta che in forma indiretta12, purché portatrice
9 In tal senso si vedano le Direttive 78/2000/CE e 54/2006/CE; quest’ultima all’art. 18 cita espressa- mente: “indennizzo o riparazione reali ed effettivi, in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito”.
10 D.lgs. 11 aprile 2006 n.198, Codice delle Pari Opportunità tra Uomo e Donna. Per un’ulteriore approfondimento si veda la l. 10 aprile 1991 n. 125.
11 Chez Razpredelenie Bulgaria AD contro Komisia za zashtita ot diskriminatsia, 16 luglio 2015, C-83/14: si attua la Direttiva 43/2000 in tema di discriminazione su base etnica e trova applicazione anche a tutela dei soggetti non appartenenti ad una determinata etnia, in virtù del solo pregiudizio subito. A tal fine si deve rimuovere ogni discriminazione, diretta o indiretta, seppur non contatta da una particolare gravità/rilevanza.
12 Art. 2 d.lgs. 9 luglio 2003, n.216:
“a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o una comportamento apparentemente neutri possono mettere le perone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare
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di una situazione e/o trattamento di particolare svantaggio, indipendentemente dalla gravità e/o rilevanza.
Ad oggi, pertanto, il quadro normativo in materia di discriminazioni risulta essere assai variegato sia sotto il profilo delle fonti (di derivazione internazionale, europea e nazionale) che sotto il profilo della casistica, rendendo particolarmente difficile l’individuazione di una prassi alla quale gli operatori del diritto possano attingere senza dover incappare in processi di esegesi normativa e/o fattuale.