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Casi discriminazione di genere tra direttive europee e ordinamento na zionale

La Corte di Giustizia si è in diverse occasioni soffermata sul tema della parità di trat- tamento dei lavoratori part time sotto il profilo della protezione contro le discrimi- nazioni indirette di genere.

È il caso della pronuncia C-385/11 del 22 novembre 2012, nella quale si afferma che la Direttiva 79/7/CEE del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, deve essere interpretato nel senso che “osta, in circostanze come quella og- getto del procedimento principale, ad una normativa di uno Stato membro che esiga dai lavoratori a tempo parziale, costituiti in grande maggioranza da donne, rispetto ai lavoratori a tempo pieno, un periodo contributivo proporzionalmente maggiore ai fini della concessione della eventuale pensione di vecchiaia di tipo contributivo, il cui importo è proporzionalmente ridotto in funzione del loro tempo di lavoro”. Ed è il caso, ancora, della pronuncia della Corte di Giustizia C-98/15 del 9 novembre 2017, relativa alla indennità di disoccupazione per i lavoratori in regime di part time verticale, e quindi sempre afferente il settore della sicurezza sociale.

In fattispecie relativa a discriminazioni di genere e molestie (rivolte in particolare ad una giovane lavoratrice, licenziata per asserita giusta causa), si richiama Corte d’Appello di Bologna, sentenza del 25 marzo 2014, secondo la quale “le allegazioni della lavoratrice, confermate dalle prove testimoniali, dimostrano una condotta del sig….. legale rappresentante della società datoriale, atta ad integrare le molestie. La continua vicinanza del predetto alla sig.ra …. durante il lavoro, l’uso di nomignoli e vezzeggiativi, il rifiuto opposto alle richieste della dipendente di cambiare turno, le insistenti proposte di frequentazione al di fuori del lavoro e le avances riferite, anche se de relato, dalle …, rivelano un comportamento che appare indesiderato dal punto di vista della lavoratrice e oggettivamente lesivo della dignità della stessa. L’indesideratezza si ricava dalle lamentele della lavoratrice con le colleghe, spesso accompagnate da crisi di pianto, dalla reazione di quest’ultima nell’episodio del…. e dalla mancata accettazione delle proposte e delle avances, desumibile dalla com- plessiva condotta delle parti, in assenza, peraltro, di diverse allegazioni e prove da parte datoriale” . Secondo la Corte dall’intero corredo probatorio è emerso il grado di lesione della dignità della lavoratrice “ostacolata nella possibilità di svolgere sere- namente il proprio lavoro e di mettere alla prova le proprie capacità e competenze, tutto ciò per ragioni connesse al sesso, con conseguenze negative anche nei rappor- ti con i colleghi, inevitabilmente destinatari degli effetti delle condizioni lavorative stressanti in cui la stessa si trovava ad operare. Gli elementi di prova finora esami- nati permettono di ritenere ampiamente assolto l’onere gravante sulla lavoratrice di fornire, ai sensi dell’art. 40 d.lgs. 189/06, elementi di fatto relativi al licenziamento, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti integranti molestie-discriminazioni in ragione del sesso, laddove

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parte datoriale in nessun modo ha assolto al proprio onere probatorio in ordine alla insussistenza delle molestie oppure alla riferibilità delle stesse a fattori diversi da quelli protetti. Anzi, la acclarata assenza di giusta causa del recesso costituisce forte elemento presuntivo a sostegno del carattere discriminatorio dello stesso”.

È a tutti noto che le discriminazioni più ricorrenti sono quelle che maturano in occa- sione della maternità, della paternità ed in generale della assunzione di responsabi- lità genitoriali. Si segnalano alcuni precedenti sul tema.

Con sentenza del Tribunale di Ferrara n. 14 del 25 marzo 2019 resa in controversia proposta da una lavoratrice destinataria di una duplice protezione normativa sia in quanto lavoratrice madre, sia in quanto lavoratrice genitore di un minore disabile, ed avente ad oggetto la richiesta di assegnazione di orari di lavoro compatibili con le esigenze di cura della minore disabile ed il risarcimento del danno conseguente alle condotte discriminatorie subite, si è ritenuto che la “non corretta” gestione dei turni di lavoro fosse esemplificativa di una discriminazione indiretta, tenuto conto dei fattori protetti dall’ordinamento di cui risultava portatrice la lavoratrice.

Il Giudice ha evidenziato come nella fattispecie venisse in rilievo da un lato la posi- zione di protezione collegata all’art. 37 Costituzione e all’art. 25 comma 2 bis del d.l- gs. 11.4.2006 n. 198, secondo il quale “costituisce discriminazione, ai sensi del pre- sente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell’esercizio dei relativi diritti”; dall’altro, la tutela offerta ai lavoratori disabili e a coloro che se ne prendono cura di cui al d.lgs. 216/2003, volto ad attuare la “parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap”.

Il Tribunale, richiamata la regola processuale secondo la quale “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione (comma 4 art.28 l. 150/2011)”, rileva che l’orario di lavoro imposto alla lavoratrice al rientro dalla seconda maternità “costituisce una chiara esemplificazione di comportamento di- scriminatorio in ragione dello stato di lavoratrice madre ed in ragione dell’handicap della figlia minore”, sottolineando che “trattare in maniera identica agli altri lavo- ratori in punto di orari e turni di lavoro una persona in difficoltà e doppiamente protetta dall’ordinamento, sia in ragione della maternità sia in ragione dell’inabilità del figlio, significa operare una discriminazione indiretta perché una decisione da- toriale, apparentemente neutra e che si dice gravare su tutti, pone la lavoratrice in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori a tempo pieno. Se viene evidenziata, così come è stata evidenziata ripetutamente, una situazione di difficoltà e disagio per la nascita di un neonato con handicap, lasciare immutato l’o- rario di lavoro a fronte di una richiesta di ammorbidimento in ragione dell’handicap, significa trattare allo stesso modo una situazione profondamente diversa e diversa

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in ragione dell’esistenza di un minore con handicap da accudire. Si ritiene quindi che il diniego dell’azienda di trovare un accomodamento sull’orario di lavoro sia l’espressione di una discriminazione indiretta perché un orario, pure accettato dalla lavoratrice prima dell’evento e quindi un atto apparentemente neutro, mette la ma- dre di figlio con handicap in una particolare situazione di svantaggio rispetto ad altri lavoratori, che pur seguendo orari simili, non hanno un figlio minore con handicap.” Sotto altro profilo, dopo aver evidenziato che “il risarcimento del danno di natura non patrimoniale evocato dalla parte riguarda il patimento sofferto per non avere potuto accudire la propria figlia minore a sufficienza, per non averla potuta fre- quentare e stimolare nei momenti in cui la stessa era libera dagli impegni scolasti- ci, fatto che può riconoscersi come conseguenza del comportamento datoriale”, il Giudice determina il danno in euro 20.000,00, come richiesto dalla lavoratrice, “in considerazione dell’ampiezza del periodo in cui la discriminazione è avvenuta e del- le continue disattese sollecitazioni ad ammorbidire l’orario, nonché le assegnazioni al lavoro domenicale quando già era stata manifestata la non disponibilità”.

Con decreto ex art. 38 del d.lgs. 198/2006 emesso dal Tribunale di Bologna in data 18 luglio 2011 in controversia avente ad oggetto la denuncia di comportamenti di- scriminatori riservati ad una lavoratrice madre al rientro in servizio dopo la mater- nità e nel periodo di fruizione dell'allattamento il Giudice, dopo aver premesso che il datore di lavoro aveva posto in essere condotte in violazione dell’art. 25 comma 2-bis d.lgs. n. 198/2006, secondo cui “Costituisce discriminazione, ai sensi del pre- sente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”, ed in violazione di quanto stabilito dall’art. 56 d.lgs. n. 151/2001, in forza del quale: “Al termine dei periodi di divieto di lavoro previsti dal Capo II e III, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comu- ne, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti, nonché di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro, previsti dai contratti collettivi ovvero in via legislativa o regolamentare, che sarebbero loro spettati durante l’assenza”, ha dichiarato la natura discriminatoria delle condotte datoriali consistite nella dequalificazione professionale, nel pagamento in costan- te ritardo delle retribuzioni (avvenuto solo nei confronti della lavoratrice madre), nell’aver proposto solo alla lavoratrice la riduzione dell’orario di lavoro con il man- tenimento in mansioni dequalificanti o in alternativa il trasferimento ad altra sede di lavoro quale condizione per mantenere il ruolo professionale; ha quindi ordinato la cessazione di dette condotte e la restituzione della lavoratrice alle mansioni, al ruolo e alla posizione professionale ricoperta precedentemente alla sua assenza per maternità, condannando altresì la società al risarcimento del danno non patrimo- niale quantificato in euro 22.500,00.

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Il Tribunale ha ritenuto che “nella quantificazione del danno non patrimoniale è ne- cessario procedere secondo un criterio equitativo, avendo contezza della gravità del danno e del pregiudizio arrecato alla vittima, della intensità dell’elemento psicologi- co alla base del comportamento dell’autore della discriminazione, nonché del setto- re e del contesto in cui si è verificato il fatto. Nel caso in esame sembrano sussistere tutti gli elementi che possono legittimare una liquidazione del danno in termini non meramente simbolici. La lavoratrice, infatti, ha subito un demansionamento che si è tradotto sia in un danno alla professionalità acquisita, sia un danno alla immagi- ne…”; secondo il Giudice assumono specifico rilievo, anche la durata delle condotte discriminatorie (oltre un anno) e “l’esistenza di un clima di ostilità e di insofferenza verso la lavoratrice rientrata dalla maternità”.

Sulla fondamentale distinzione tra licenziamento ritorsivo e licenziamento discrimi- natorio si richiama la pronuncia della Suprema Corte n. 6575 del 5 aprile 2016, nella quale si sottolinea che mentre nel licenziamento ritorsivo il motivo di “rappresaglia” deve essere l’unico ad aver determinato il recesso, nel licenziamento discriminato- rio la discriminazione opera obiettivamente, in ragione del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta e a prescindere dalla volontà illecita (e del motivo) del datore di lavoro.

La discriminazione, infatti, discende direttamente dalla violazione di norme interne e sovranazionali, così che la eventuale concorrente motivazione del datore di lavoro non esclude di per sé la discriminazione (si legge in particolare nella pronuncia: «la normativa nazionale ove interpretata nel senso di consentire una discriminazione diretta fondata sul sesso per la concorrenza di un’altra finalità, pur legittima (nella specie il dedotto motivo economico) sarebbe contraria alla Direttiva»).

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Istruzioni per il buon uso della giurisdizione contro le

discriminazioni