• Non ci sono risultati.

Antonia Sara Passante*

La nostra Costituzione sancisce, all’art. 3 comma 1, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Il divie- to di diseguaglianze irragionevoli impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Tale norma fondamentale consacra il principio della uguaglianza formale e sostan- ziale allo scopo di garantire la pari dignità degli individui non solo attraverso la pre- visione del divieto di trattamenti differenziati sulla base di uno dei fattori espressa- mente – ma non in via esaustiva – indicati nel primo comma, ma anche attraverso l’adozione di “azioni positive” volte a rimuovere gli ostacoli che impediscano la rea- lizzazione di un trattamento non discriminatorio.

Nel nostro Paese, parte dell’Unione Europea e del Consiglio di Europa, i principi e i diritti fondamentali in materia di diritto antidiscriminatorio si rinvengono non solo nella Costituzione, ma anche in fonti sovranazionali e internazionali, ed in particola- re nel diritto dell’Unione europea e nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), fonti la cui interpretazione è riservata, rispettivamente, alla Corte di Giusti- zia dell’Unione europea e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

L’Italia ha aderito al nucleo di valori fondamentali previsti dal Trattato sull’Unione Europea, che all’art. 2 prevede: “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal plura- lismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”, ed all’art. 3 punto 3 sancisce: “L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione socia- li, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore”.

58

Anche l’art. 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea contiene analo- ga disposizione, prevedendo che il Consiglio può adottare provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni, tra cui quelle fondate sul sesso.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, entrata in vigore il 1° dicem- bre 2009, ha espressamente codificato, agli artt. 21 e 23, il principio di non discri- minazione fondata sul sesso nonché la parità tra donne e uomini che “deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retri- buzione”.

A livello comunitario numerose direttive riguardano l’attuazione del principio del- le pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (dal 2000 le direttive non si sono limitate infatti a vietare le discriminazioni, ma anche a garantire la pari opportunità in diversi settori).

In particolare, la Direttiva 2006/54/CE (recepita in Italia con il d.lgs. n. 5 del 2010), riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trat- tamento fra uomini e donne in materia di lavoro e impiego, ha accorpato le di- sposizioni preesistenti in materia di diritto antidiscriminatorio di genere in parte modificandole (tra queste, la storica Direttiva 75/117/CEE “per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative all’applicazione del principio della pari- tà delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile” e la Direttiva 97/80/CE che, con riferimento ai casi di discriminazione di genere, ha indi- viduato per la prima volta un regime agevolato dell’onere probatorio), imponendo agli stati membri di mantenere o adottare misure volte ad assicurare nella pratica la piena parità tra gli uomini e le donne nella vita lavorativa. La Direttiva include nell’ambito delle discriminazioni anche le molestie e le molestie sessuali e prevede l’adozione di strumenti di tutela in favore di chi lamenta discriminazioni al fine di evitare “atti di rappresaglia”.

Si richiamano altresì la Direttiva 2010/41/UE, sull’applicazione del principio di parità di trattamento fra uomini e donne che esercitano un’attività di lavoro autonomo e la Direttiva 2000/78/CE (attuata nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 216 del 2003), che ha introdotto un quadro generale in materia di divieto di discriminazioni nel mondo del lavoro, tutelando “la parità di trattamento fra le persone indipendente- mente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’o- rientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discrimina- zione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini” (art. 1, d.lgs. cit.).

Poiché il diritto antidiscriminatorio ha una composizione variegata, ed è il risultato dell’intersecarsi di norme di diritto nazionale, di norme di recepimento di direttive comunitarie, di norme primarie UE (la Carta dei diritti fondamentali della UE) è fon- damentale sollecitare l’interpretazione conforme del diritto nazionale rispetto alla Costituzione e alle norme UE e/o CEDU rilevanti.

59

Il Giudice nazionale è infatti tenuto ad interpretare la normativa nazionale confor- memente al testo e agli obiettivi delle direttive e ove non sia possibile pervenire ad una soluzione ermeneutica conforme alle direttive il giudice potrà ricorrere allo strumento della disapplicazione o del rinvio alla Corte Costituzionale1.

A livello nazionale la materia delle Pari Opportunità è stata riorganizzata con il d.lgs. 11 aprile 2006, n.198 (Codice delle Pari Opportunità), che ha raccolto in un unico testo le diverse disposizioni in materia. A seguito della approvazione della Direttiva di riordino 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio vi è stato, con il d.lgs. n. 5/2010, l’aggiornamento ed adeguamento della normativa nazionale ed in particolare del Codice delle Pari Opportunità.

Il Codice delle pari opportunità, come novellato dal d.lgs. 5/2010, stabilisce, all’art. 25 comma 1, che costituisce discriminazione diretta, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione ana- loga. Il comma 2 della medesima disposizione stabilisce che si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo consegui- mento siano appropriati e necessari.

L’art. 25, comma 2 bis del Codice delle Pari Opportunità offre una tutela rafforzata collegata agli “status parentali”, stabilendo che costituisce discriminazione ogni trat- tamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei re- lativi diritti.

L’art. 26 comma 1 del Codice delle Pari Opportunità qualifica come discriminazio- ni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavo- ratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umi- liante o offensivo; vengono qualificate altresì come discriminazioni (art. 26, comma 2) le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimida- torio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Costituiscono inoltre discriminazioni, ai sensi dell’art 26, commi 2 bis e 3 Codice delle Pari Opportunità, anche le ritorsioni conseguenti al rifiuto di comportamenti costituenti discriminazione in base al sesso o molestia/molestia sessuale o per aver rifiutato la sottomissione ed i trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro.

60

Per effetto dell’art. 1 comma 218 l. 205/207 (Legge Bilancio 2018) è stato aggiunto all’art. 26 del d.lgs. 198/2006 il comma 3-bis, secondo il quale “La lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per mo- lestia o molestia sessuale poste in essere in violazione dei divieti di cui al presente capo non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condi- zioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Il licenziamento ritorsivo o di- scriminatorio del soggetto denunciante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’art. 2013 c.c., nonché qualsiasi misura ritorsiva o discrimina- toria adottata nei confronti del denunciante. Le tutele di cui al presente comma non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero la infondatezza della denuncia”.

Le tutele contro le discriminazioni in ambito lavorativo riguardano sia l’accesso al lavoro (è il caso della mancata assunzione o ammissione alle procedure selettive per l’assunzione di determinate persone), sia lo svolgimento del rapporto di lavoro, e concernono, come evidenziato, anche il divieto di ogni forma di molestia e ritorsio- ne. La speciale azione di cui all’art. 38 CPO, di cui si dirà, è applicata in generale “alle condizioni di lavoro compresa la retribuzione” e dunque concerne anche i licenzia- menti per ragioni di genere. In tal senso si richiama l’art. 14 lett. c) della Direttiva 2006/54.

Occorre a questo punto soffermarsi sulla normativa processuale partendo dalla con- siderazione che l’evoluzione normativa in materia processuale è correlata alla scelta del legislatore di affiancare alle nuove tutele di carattere sostanziale, introdotte nel nostro ordinamento per effetto del recepimento delle Direttive europee, adeguate e specifiche disposizioni processuali.

Con la introduzione del d.lgs. n.150 del 2011 vi è stato il riordino e la razionalizza- zione delle molteplici fonti che regolavano i procedimenti in materia di discrimina- zione.

L’art. 28 del citato d.lgs. prevede ora che tutte le controversie in materia di discrimi- nazioni debbano essere trattate con il rito sommario di cognizione.

In particolare, il primo comma dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 riconduce a tale rito le controversie in materia di discriminazioni per motivi razziali, etnici, linguistici, na- zionali, di provenienza geografica o religiosi ex art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286; le controversie di cui all’art. 4 d.lgs. 215/2003 (discriminazione diretta o indi- retta a causa della razza o dell’origine etnica, in attuazione della Direttiva 200/43), di cui all’art. 4 del d.lgs. 216/2003 (discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale in attuazione della Direttiva 2000/78), di cui all’art. 3 della l. 67/2003 (di- scriminazioni in danno delle persone con disabilità), di cui all’art. 55 quinques del d.lgs. 198/2006 (discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nell’accesso ai beni e servizi e loro fornitura).

61

Restano escluse, dunque, le controversie di cui agli artt. 36-41 del d.lgs. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità), relative alle discriminazioni di genere previste e sanzionate dagli artt. 27 – 35 del d.lgs. 198/2006. Il processo per le discriminazioni di genere è dunque disciplinato tuttora dal Codice P.O., che prevede sia una azione a cognizione piena (individuale o collettiva) sia una azione speciale che ricalca lo schema dell’art. 28 l. n. 300/1970.

L’art. 36 del d.lgs. 198/2006 prevede che “Chi intende agire in giudizio per la dichia- razione delle discriminazioni poste in essere in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo, o di qualunque discriminazione nell’accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collet- tive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, ri- spettivamente, dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite la Consigliera o il Consigliere di Parità della Città metropolitana e dell’ente di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 o regionale territorialmente com- petente.

Mentre il successivo art. 38 prevede che “qualora vengano poste in essere discrimi- nazioni in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo o di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, o comunque discriminazioni nell’ac- cesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, su ricorso del lavoratore o, per sua delega, delle organizzazioni sindacali, delle associa- zioni e delle organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, o della Consigliera o del Consigliere di Parità della Città metropolitana e dell’ente di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 o regionale territorialmente competente, il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comporta- mento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimo- zione degli effetti”.

Trattasi di norma ad hoc per la tutela delle discriminazioni di genere, che, a diffe- renza dell’art. 700 c.p.c., prescinde dal periculum in mora in quanto la valutazione dell'urgenza è già stata fatta dal legislatore.

Quanto alla competenza per territorio, l’art. 28 comma 2 del d.lgs. 150/2011, all’evi- dente scopo di agevolare la posizione del soggetto che lamenta la sussistenza della discriminazione, prevede la competenza “del luogo in cui il ricorrente ha il domici- lio”, facendo riferimento al soggetto, sia individuale che collettivo, che lamenta il trattamento discriminatorio.

62

L’art. 38 del d.lgs. 198/2006 attribuisce invece la competenza territoriale per l'azio- ne urgente individuale al Tribunale del luogo in cui si è verificato il comportamento discriminatorio denunciato (in termini analoghi alla disposizione di cui all’art. 28 Statuto Lavoratori).

Il comma 3 dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 introduce una speciale disposizione in tema di onere probatorio secondo la quale: “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esi- stenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamen- ti dell’azienda interessata”.

Analogamente, l’art. 40 del Codice delle Pari Opportunità prevede un meccanismo di distribuzione dell’onere probatorio “alleggerito” a favore della parte che denun- cia la discriminazione, stabilendo che “quando il ricorrente fornisce elementi di fat- to, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retri- butivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discrimi- nazione”.

La disposizione in esame non richiede il requisito della “gravità” degli elementi di fatto da addurre, ma solo la “precisione” e la “concordanza”.

Nella interpretazione ed applicazione di tale disposizione non si potrà prescindere dalla peculiare normativa comunitaria sul punto: secondo l’art. 19 della Direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006 “Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’in- sussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta”.

La lettura della norma interna, dunque, dovrà tenere conto della esigenza fonda- mentale di “garantire effettività alla tutela antidiscriminatoria”, considerata la “di- versità fattuale nella posizione iniziale delle parti interessate2”, poiché chi denuncia una discriminazione non ha normalmente “accesso a dati sufficienti per consentirgli di identificare le cause di una disparità di trattamento”3.

2 M. Bonini Baraldi: “L’onere della prova nei casi di discriminazione: elementi per una concettualizzazio-

ne nella prospettiva del diritto privato” in L. Calafà e D. Gottardi (a cura di), “Il diritto antidiscriminatorio tra teoria e prassi applicativa”).

3 Sempre M. Bonini Baraldi: “L’onere della prova nei casi di discriminazione: elementi per una concet-

63

La Suprema Corte ha così affermato che: “In tema di comportamenti datoriali discri- minatori, l’art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 - nel fissare un principio applicabi- le sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità - non stabilisce un’inversio- ne dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamen- tati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” (Cass. Sez. L, Senten- za n. 14206 del 5 giugno 2013).

L’onere della prova del soggetto che allega di aver subito atti e/o comportamenti discriminatori consiste dunque nella prova di fatti, comportamenti e circostanze in termini precisi e coerenti tra loro, tali da rendere probabile e plausibile la sussisten- za di una discriminazione vietata.

La parte che agisce in giudizio assumendo di aver subito una discriminazione dovrà allegare e dimostrare “l’esistenza di un trattamento differenziato” in riferimento “al tertium comparationis, rappresentato da un soggetto ritenuto comparabile, rispetto al quale non si dia il fattore di protezione che si afferma leso”, con la precisazione che il paragone potrà avvenire tra due situazioni attuali o potenziali tra loro analo- ghe (ricorre infatti una discriminazione diretta quando, a causa del fattore protetto, “una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe stata trattata un’altra in una situazione”) e tenuto conto che “con le direttive di seconda generazione il giudizio di relazione in cui consiste in generale l’accertamento della discriminazione si dia, nelle discriminazioni dirette, in termini di confronto tra due soggetti non necessariamente reali, il lavoratore comparabile… potendo essere un soggetto ipotetico o non più esistente al momento del giudizio di comparazione4”. Deve evidenziarsi che lo stato di gravidanza o il congedo per maternità non richie- dono un “termine di paragone”, come più volte chiarito dalla Corte di Giustizia (CG sentenza 8 novembre 1990 C-177/88, CG sentenza 14 luglio 1990, causa C-32/93) e come previsto dall’art. 2 della Direttiva 2006/54, secondo il quale “ai fini della Diret- tiva la discriminazione comprende… qualsiasi trattamento meno favorevole riserva- to ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della Direttiva 92/85/CEE”.

L’allegazione e la prova di elementi di fatto con le caratteristiche di precisione e con- cordanza determina l’inversione dell’onere della prova.

scriminatorio tra teoria e prassi applicativa”).

64

Spetterà pertanto al convenuto, nei casi di discriminazione diretta, provare la ine- sistenza della discriminazione, allegando e dimostrando fatti specifici e oggettiva- mente verificabili dai quali si possa desumere l’esistenza di una causa di esclusione