• Non ci sono risultati.

La tutela di genere

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 135-137)

Il d.lgs. 11 aprile 2006, n.198 (Codice delle Pari Opportunità) rappresenta il Testo

unico che avrebbe dovuto riordinare organicamente il corpus di leggi e provvedi- menti legislativi in materia e contiene sia le disposizioni in materia di pari oppor- tunità nei rapporti di lavoro che la normativa vigente in materia di rapporti sociali, civili e politici.

Il primo libro (Disposizioni per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna) si articola in due titoli, il primo dei quali vieta ogni forma di discriminazione tra uomini e donne ed il secondo che individua gli organismi posti alla promozione delle pari opportunità.

135

Il libro secondo disciplina i rapporti tra i coniugi e il contrasto alla violenza nelle relazioni familiari.

Il libro terzo raccoglie le norme in materia di pari opportunità nei rapporti econo- mici ed in specie nel lavoro, riportando all’art. 25 la definizione di discriminazione (diretta ed indiretta).

Prevede l’art.26 che sono considerate come discriminazioni anche le molestie (com- portamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo) e le molestie sessuali (comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, ver- bale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare ….), e che lo siano quei trat- tamenti che costituiscano conseguenza del rifiuto dei comportamenti di cui sopra, o che rappresentino “una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto dei principi di parità di trattamento tra uomini e donne”.

Il Titolo 1 del libro terzo illustra partitamente i divieti di discriminazione di gene- re, elencate nel codice delle pari opportunità dall’art. 27 all’art. 35: quella fondata sul sesso, retributiva, nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera, nell’accesso a prestazioni previdenziali e così via.

L’aver previsto un divieto di discriminazione nella prestazione lavorativa consente una applicazione ampia del principio, e non mi stanco di segnalare quello che po- trebbe essere - se utilizzato al fine di analizzare specificamente, azienda per azien- da, e non solo a fini statistici come normalmente avviene – uno strumento prezioso di rilevamento delle discriminazioni, ovvero il Rapporto sulla situazione del perso- nale introdotto dalla legge 125/91 e previsto all’art. 46 del T.U. che dispone che “Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione gua- dagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta.”

Il rapporto va trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e al consigliere re- gionale di parità e contiene elementi che, se correttamente “decrittati” dalle r.s.a., consentono di leggere la situazione occupazionale dell’azienda utilizzando informa- zioni che in alcun altro modo possono pervenire a chi – sindacato e consigliera – ha il potere di utilizzarle davvero allo scopo di combattere ed eliminare le discriminazioni di natura retributiva, di carriera, formazione, conservazione del posto di lavoro. Giova rammentare che la legge prevede sanzioni pesanti per l’inottemperanza alla trasmissione del rapporto, che purtroppo rimane per lo più nei cassetti degli uffici delle organizzazioni sindacali e non viene utilizzato come potrebbe: i dati in esso

136

contenuti vengono analizzati più a livello sociologico che per impostare politiche contrattuali aziendali a tutela del personale femminile. Grande sarebbe invece lo spazio per promuovere, in base ai dati ricavati da tale rapporto, una più effettiva pa- rità di condizioni di lavoro, anche sotto il profilo di un’analisi delle assunzioni, delle mansioni di destinazione del personale femminile, della progressione di carriera e del trend retributivo.

Discriminazione per età

Le norme dell’art. 15 Statuto lavoratori, come modificato dall’art. 4 del d.lgs. 216/2003, che vietano di “subordinare l'occupazione di un lavoratore, licenziarlo, di- scriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni”, si applicano altresì ai “patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”. Il decreto legislativo 216 del 2003 ha introdotto infatti all’art. 1 le disposizioni relati- ve all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dal- la religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale. Si intende per parità di trattamento (art. 2) “l’assenza di qualsiasi discri- minazione diretta o indiretta a causa” di uno dei fattori indicati, ed in particolare, si ravvisa invece discriminazione quando – per quel che qui ci riguarda – per l’età una persona sia “trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga” (discriminazione diretta) oppure quan- do “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamen- to apparentemente neutri possono mettere le persone ……….. di una particolare età ……….in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.” Come rilevato in dottrina, “l’età rappresenta una delle quattro dimensioni fonda- mentali dell’esperienza individuale e sociali, insieme al genere, al gruppo etnico, alla classe o strato sociale” (Ambrosini M. Ballarino G. “Risorsa anziani e politiche dell’impresa: un punto da riscrivere” in Molina S. (a cura di) “Le politiche aziendali per l’anzianato del lavoro in Italia”, Angeli, Milano, 2000).

L’art. 3 comma 3 della Direttiva 2000/78/CE stabilisce che non costituiscono discrimi- nazione soltanto quegli atti che “per la natura dell’attività’ lavorativa o per il conte- sto in cui essa viene espletata, richiedano caratteristiche che costituiscono un requi- sito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività’ medesima” o che siano “giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”1.

Nel documento La discriminazione per maternità e dintorni (pagine 135-137)