1. La basilica di S Saturnino
1.1. Gli scavi secenteschi nella basilica di S Saturnino: prima fase (1614-1615)
1.1.12. Altri ritrovamenti nella basilica (CIL X, 1102*, 1340*, 1420*, FR10-FR14)
I ff. 35r-38r degli Actas contengono una sezione intitolata Notas tocants a la iglesia de Sant
Sadorro, relativa a ritrovamenti effettuati nella basilica durante il mese di novembre 1614, che però non erano menzionati nel giornale di scavo relativo a quei giorni. Le notizie riportate sono molto
scarne e quasi si limitano a riprodurre le iscrizioni rinvenute. Contenuto analogo ha il cap. 9 del I libro dell’opera dell’Esquirro160, nel quale sono raccolte informazioni riguardanti una serie di
scoperte effettuate in vari momenti degli scavi, delle quali tuttavia non si era trattato nella cronaca precedente. Per questa ragione, anche in questa sede si è scelto di riunire tali notizie in una sezione separata e finale rispetto al resoconto delle ricerche.
1.1.12.1. Il 7 novembre 1614, in un punto della basilica che non viene specificato, fu
recuperato un frammento di marmo sul quale si lessero chiaramente le lettere riprodotte di seguito, precedute da un punto e una croce (f. 36r): A set de nohembres 1614 en dita iglesia de Sant
Sadorro. Se ha trobat en la dita iglesia un retol en mabre si be un poch romput totavia se llegien les
lletres que dyen clar. Y abans denota un punt ab una creu.
Si tratta, pur nella sua esiguità, di uno dei ritrovamenti più importanti, almeno per quanto riguarda l’interpretazione che se ne fornì nel Seicento. Nelle opere del D’Esquivel161 e
dell’Esquirro162 esso occupa un posto di rilievo nella cronaca dei primi giorni di scavo, e viene
citato continuamente in seguito.
L’Esquirro fornisce una diversa trascrizione dell’epigrafe, letta come Sancti innu[---], la quale risente evidentemente dell’interpretazione di essa come Sancti innumerabiles, unanimemente accettata all’epoca. In CIL X, 1420* l’iscrizione è riportata nelle versioni del D’Esquivel e dell’Esquirro, complete della relativa integrazione. Il luogo di rinvenimento, ignorato dagli Actas I, è invece indicato dalle opere a stampa nel settore centrale della capilla mayor, da dove avevano preso avvio gli scavi. Le parole scolpite sulla lastra sarebbero state allusive alla moltitudine di santi sepolti sotto il pavimento della basilica, e il ritrovamento della lastra stessa nel secondo giorno di scavo avrebbe dovuto costituire un segno divino di incoraggiamento a proseguire le ricerche.
Se si confronta il risalto dato alla scoperta dagli autori del Seicento con la scarna notizia degli
Actas I, relegata in una sezione a parte, si capisce come l’interpretazione, basata su una lettura forzata, faccia parte di una ricostruzione a posteriori mirante a circondare di un alone di finalità divina l’attività di scavo intrapresa. Per questa ragione, indipendentemente dalle teorie elaborate riguardo al ritrovamento dell’iscrizione163, è necessario cercare di fornirne una lettura e
un’interpretazione storicamente plausibili.
Il testo è stato trascritto nel Seicento in due maniere differenti, da un lato dal D’Esquivel e dal Carmona e dall’altro dall’Esquirro e dal Bonfant. Sulla base della testimonianza degli Actas I, la lettura degli ultimi due autori va scartata, in quanto fondata su uno scioglimento arbitrario della
160 ESQUIRRO, pp. 47-59. 161 D’ESQUIVEL, pp. 33-34.
162 ESQUIRRO, pp. 14-15. L’autore non riproduce l’iscrizione, ma si limita a trascriverne il testo in rigo.
163 Oltre ai già citati D’Esquivel, Esquirro e Bonfant, va ricordata la testimonianza degli Acta Sanctorum (PAPEBROCH,
p. 220), dove si parla del titulus Sanctorum innumerabilium repertus in eminentiori parte altaris Basilicae S. Saturnini,
qui non solum ad repertos intra basilicam, sed ad circum in subterraneis sacellis sarcophagisque miro ordine dispositis repertos spectabat; la notizia del ritrovamento è usata dal Papebroch a sostegno del suo scetticismo circa il ritrovamento nel Seicento di un così grande numero di martiri sardi, e come argomento per attaccare l’ingenuità degli autori che ne pubblicarono il resoconto. L’iscrizione fu poi oggetto dell’ironia di Mommsen (CIL X, p. 780), che nel trattare la questione delle falsae la cita affermando che adeo tanta copia ut numerari nequirent, ut est in altero et ipso
pulcherrimo n. 1420* SANCTI INNVmerabiles, ibi quis audeat verbum addere? Infine, nell’intraprendere un’opera di revisione della documentazione secentesca negli anni ottanta del novecento, il fondamentale volume di MUREDDU,
SALVI,STEFANI 1988 è stato significativamente intitolato Sancti innumerabiles, proprio per indicare la via da percorrere per giungere alla radice del fraintendimento di una documentazione che, a un’analisi più attenta, risulta invece essere per lo più autentica.
prima S, ritenuta un’abbreviazione per S(ancti). Per quanto riguarda le lettere successive, è invece possibile mantenere la lettura INNV, il tutto impaginato su un’unica linea. L’errore delle fonti infatti fu quello di ritenere che vi fossero due parole distinte, mentre la trascrizione più attendibile è la seguente:
(croce?) Sinnu[---] / ---.
La presenza della presunta croce potrebbe indicare l’inizio dell’iscrizione, che dunque non sarebbe un epitafio in quanto non presenta gli elementi tipici di quella categoria di testi. È più plausibile invece che si menzioni un signum, con l’assimilazione del gruppo -gn- come una nasale geminata164. Il termine può avere vari significati a seconda del contesto in cui è inserito. Nell’ambito
dell’onomastica, esso indica una sorta di soprannome (vd. supra) che segue il nome vero e proprio, ed è spesso introdotto dalla parola signum165. In questo caso, tuttavia, non essendo probabilmente in
presenza di un epitafio e in mancanza di qualsiasi elemento onomastico, è difficile sostenere tale ipotesi. Con la locuzione signum fidei si indica ad esempio una croce che si faceva sulla fronte dei catecumeni e dei battezzati durante la liturgia, ma l’attestazione epigrafica di questa pratica è sporadica166. È parimenti improbabile, in un contesto paleocristiano, che il termine alluda a un ex
voto scultoreo dedicato nella basilica: tale usanza infatti è diffusa prevalentemente nell’ambito dei culti pagani.
Si potrebbe dunque interpretare il testo come signu[m loci ---], preceduto non da un monogramma bensì dal simbolo del denario, e seguito dal nome in genitivo di una o più persone, che in questo modo indicavano la proprietà di una tomba acquistata e non ancora occupata dal cadavere, secondo una pratica comune nelle necropoli paleocristiane e che troverebbe un confronto all’interno della stessa area di S. Saturnino167. Il termine signum del resto è impiegato talvolta per
indicare, se non proprio la tomba, il titulus funerario, con una sorta di riferimento interno168.
L’iscrizione con la quale si volle dimostrare l’esistenza di un cimitero di santi e martiri in realtà sarebbe dunque indicativa delle normali pratiche di gestione dell’area funeraria quando essa era in uso.
1.1.12.2. Il giorno seguente (8 novembre), all’esterno della basilica sulla destra, nel punto
occupato da una cappella crollata e presso una croce scolpita a giorno su un concio di marmo della muratura, si riuscì faticosamente a recuperare una lastra iscritta (FR10) il cui testo viene riprodotto di seguito (f. 36r): A 8 dit. Se ha tret de la paret de la present iglesia de Sant Sadorro de la part de
fora a la part dreta que pareyx que devia de esser capella prop de una creu de mabre entallada a bullo en una pessa de mabre de las de la fabrica se ha trobat un mabre que ab gran traball se ha
164 L’uso è attestato in ICUR I, 2911; III, 8896; IV, 10359. Vd. LUPINU 2000, p. 62 e nota 350.
165 Si tratterebbe in questo caso del tipo del detached signum, una sorta di epiteto individuale al vocativo che si afferma
nell’epigrafia pagana e cristiana al principio del III sec., in corrispondenza del declino del nomen (KAJANTO 1963, pp. 31-49). L’impiego del signum va tuttavia a scomparire col principio del IV sec., per cui la sua presenza su questa iscrizione sarebbe indice di una notevole antichità.
166 GROSSI GONDI 1920, p. 235.
167 In GROSSI GONDI 1920, p. 246, si cita un’iscrizione romana che recita zinnum (= signum) loci Quintini et Marturiae
(da MARCHI 1844, p. 120), e un’altra con la dicitura signatum preceduta dal simbolo del denario (da DE ROSSI 1877, III,
282). La pratica di indicare sulle iscrizioni la presenza di eventuali sepolture ancora vuote è attestata dalla dicitura locus
em(p)tus presente nella trascrizione degli Actas dell’iscrizione di Bonifatius comes (CIL X, 1141*) rinvenuta il 22 dicembre 1620 nella c.d. prima chiesa sotterranea (vd. infra; cfr. MUREDDU,SALVI,STEFANI 1988, p. 75).
tret y en lo dit mabre poch mes que una ara169 se ha trobat un retol esculpit que trasladat assi ut
jacet esta com segueyx.
L’iscrizione è tramandata soltanto dagli Actas I, quindi inedita. Si tratta di una lastra che, a quanto risulta dai dati di scavo, doveva essere stata reimpiegata nella costruzione della basilica. Il testo conserva tutti gli elementi caratteristici dell’epigrafia funeraria cristiana di Carales, ma manca purtroppo il nome del defunto. A giudicare dal disegno, la lastra doveva essere spezzata solo sul lato destro e intera sugli altri tre. La trascrizione è la seguente:
Hic iacet [---] / bone mem[orie ---] / qui vixit [annis p(lus) m(inus) quin]/quaginta [quievit in pace?] / pridie no[nas ---].
In base all’integrazione della terza linea, contenente l’età della morte, resa piuttosto sicura dalla presenza della seconda parte del numerale [quin]quaginta alla linea successiva, è possibile affermare che l’iscrizione era conservata per poco meno di metà. Il consueto incipit che recita hic
iacet bonae memoriae in questo caso è distribuito su due linee. Il nome del defunto doveva occupare la seconda linea dopo il termine memoriae, mentre la parola iacet alla prima linea poteva essere seguita da un’espressione che non è possibile ricostruire170. La terza linea e parte della quarta,
come già evidenziato, contenevano il dato biometrico, fissando la durata della vita del defunto in cinquant’anni. Nel resto della quarta linea doveva esservi una formula indicante il trapasso che, sulla base di un calcolo dello spazio disponibile, non era troppo lunga. Alla quinta linea era indicata la data di morte, avvenuta il giorno prima delle nonae di un mese imprecisato.
Sotto l’iscrizione vi erano altri frammenti di marmo, fra cui uno che recava scolpita la croce riprodotta di seguito (f. 36r): Debayx del lletrero altres cantons o pedres mabres grans abayx se
troba una bella creu en esta manera ad marginem.
1.1.12.3. Lo stesso giorno, avendo notato che nel braccio sinistro della chiesa, crollato,
appena fuori dall’ingresso e presso una colonna di marmo bianco lavorata, doveva essere sepolto un corpo santo, si diede ordine di scavarvi. In particolare si intendeva recuperare l’iscrizione inserita nella parete dell’edificio. Una volta estratta dalla muratura, si vide che si trattava di una lastra di marmo bianco venato di turchese, lunga tre palmi e larga sul lato destro un palmo e mezzo, su quello sinistro un palmo. Il testo che vi era contenuto è riprodotto di seguito in due diverse trascrizioni, la seconda delle quali è ritenuta più precisa dal notaio (f. 36v): Dit dia de 8 nohembres
1614 en la dita iglesia de Sant Sadorro. Havent tingut noticia sa paternitat que en la navada
primera de dita iglesia questa descuberta y en la part esquerra exint de la iglesia immediatament apres de serta coluna blanca de mabre obrada hi havia cos de sant perque entre migh de la fabrica y cantons de mabre per traves entrant en dins de la paret hi havia una lloseta que tira en dins ab son lletrero que nos pot llegir sino se trau la dita lloseta y axi sa paternitat la feu traure y treta se troba esser de mabre blanch si be un poch tirant a turquesat que es de llargaria tres pams xichs y amplaria en lo cap dret de pam y migh xich y en la part esquerra de un pam gran y en dita lloseta se ha trobat lo titol o lletrero seguent ut iacet.
Il D’Esquivel171, l’Esquirro172 e il Bonfant173 aggiungono alcuni importanti elementi relativi
alla scoperta. Secondo questi autori, l’iscrizione sarebbe pertinente a un sarcofago incassato nella
169 Col termine si indica probabilmente un’unità di misura che tuttavia non si è riuscito a comprendere.
170 Un esempio si trova in ILSard I, 116, dove si legge hic iacet dolor parentum / b(o)n(ae) m(emoriae) Ianuarius. 171 D’ESQUIVEL, p. 54.
parete (n. 56), che a detta del Bonfant sarebbe stato aperto solo molti anni dopo la morte dell’arcivescovo D’Esquivel. Quest’ultimo e l’Esquirro parlano del sarcofago, affermando che al momento non era possibile procedere ad aprirlo per evitare di recare danni alla struttura muraria della basilica. Per quanto riguarda la sua ubicazione, essi lo localizzano all’interno della basilica, e più precisamente nel pilastro alla sinistra dell’ingresso sul lato del vangelo, che sosteneva uno degli arconi del cymborio o tamburo della cupola. In effetti negli Actas I, in data 16 gennaio 1625, compare una breve nota relativa all’apertura del sarcofago e al recupero delle reliquie del presunto S. Pompeiano. Nel documento si afferma che l’iscrizione era stata asportata molti anni prima, ma mancano informazioni precise, per cui bisogna supporre che nel 1625 essa fosse già perduta. Per quanto riguarda il sarcofago, esso viene localizzato in uno dei pilastri che sorreggevano la cupola, ma dalla parte dell’epistola e non del vangelo, come affermato dalle altre fonti. Esso conteneva solo poche ossa che furono ritenute pertinenti ad una deposizione secondaria (f. 154r): A los 16 del mes
de henero de 1625 annos. Este mesmo dia se hallo dentro la iglessia del glorioso martir San Sadorro una arca de piedra fuerte que estava puesta a la parte de la epistola que tiene la cabessa a la parte que sustenta y mantiene la cupula de dicha santa iglessia en la nave de dicha parte de la epistola que es antes de entrar en lo quarto de dicha cupula, al lado de una columna que antiguamente hi havia en dicho llugar del qual tan solamente queda la bassis de aquell, dentro la qual arca de piedra fuerte se han hallado los huessos y reliquias del glorioso martir San Pompeiano que segun denota es translassion y no entierro y el letrero deste glorioso martir San Pompeiano se dise se hallo en tiempo del senor duque de Gandia que se hallo fabricado en la parede y de halli se quito dicho lletrero las quales santas relliquias se an sacado de dicha arca por el senor doctor y canonigo Cosma Scarxoni vicario general sede vacante en todo el presente arcobispado de Caller y sus uniones estando presentes en su compagnia el doctor y canonigo Domingo Cuja y los venerabiles Miguel Crusay, Monserrat Martis beneffissiados de la seo de Caller, lo doctor Joan Francisco Carmona y Francisco Cany notario por parte del notario y secretario de la curia y mensa archebispal calaritana.
L’iscrizione174 (CIL X, 1340*) doveva essere integra, in quanto non manca alcun elemento
tipico degli epitafi cristiani. Come già messo in luce dal CIL, la trascrizione del D’Esquivel differisce maggiormente dalle altre, sostanzialmente concordi fatta eccezione per alcuni piccoli particolari175. Sulla base del confronto con gli Actas, si può proporre la seguente trascrizione:
(croce) Hic iacet b(onae) m(emoriae) / Pompeianus qui / vixit annis pl(us) m(inus) XXVI re/quievit in pace s(ub) d(ie) VII ++ ian(uarias).
La prima linea contiene il consueto incipit. Il nome del defunto, la cui derivazione può essere fatta risalire al gentilizio Pompeius o alla città di Pompeii, ha un confronto in Sardegna in un’iscrizione già nota dalle fonti del Seicento e riscoperta a Cagliari negli anni ’80 del Novecento, dove il nome compare nella forma errata Ponpeianus176. Alla terza linea si trova l’indicazione della
173 BONFANT, pp. 316-317.
174 In CORDA 1999, CAR063 essa viene erroneamente identificata con l’iscrizione di un Ponpeianus (sic),
corrispondente a CIL X, 1341*, ritrovata nella c.d. seconda chiesa sotterranea (BONFANT, p. 265) e riscoperta nel 1988
murata su una parete del palazzo arcivescovile di Cagliari (vd. MUREDDU,SALVI,STEFANI 1988, p. 39; SALVI,STEFANI
1988, pp. 254-256; AE 1988, 633).
175 Probabili errori di stampa o di scrittura vanno ritenuti il vxit in luogo di vixit in Carmona e il ninus in luogo di minus
in Bonfant
176 Sull’iscrizione di Ponpeianus vd. nota 12. Per quanto riguarda il nome, in KAJANTO 1965 si contano 86 attestazioni,
durata della vita del defunto, fissata in circa ventisei anni. La quarta linea pone i maggiori problemi di interpretazione. Dopo la formula di trapasso (requievit in pace), si specifica la data di morte: essa è introdotta dalla sigla s(ub) d(ie), leggibile solo negli Actas I in quanto le altre fonti considerarono la D onciale sbarrata come un’hedera e, ad eccezione dell’Esquirro, omisero la S. Il giorno è indicato dal numerale VII, seguito da due segni che non è possibile identificare, il secondo dei quali forse è un episemon177, che precede il nome del mese di gennaio. Ne risulta una data confusa, priva
della menzione delle calende, idi o none, per cui è impossibile fissare il giorno del mese al quale ci si riferisce.
1.1.12.4. L’11 novembre, nella terza cappella del braccio sinistro crollato della basilica,
presso la terza colonna, fu rinvenuta un’epigrafe di marmo (CIL X, 1102*) trascritta di seguito (f. 37r): Die XI nohembres 1614. Se fa nota que a la creu o bras esquerro de la iglesia ques bras de
creu della a la tercera capella (si be darrocades) a la coluna tercera hy ha un retol que diu ut jacet desta manera. Le ultime due linee dopo i puntini dovevano essere scolpite su un altro frammento ritrovato nelle vicinanze, che probabilmente combaciava col primo, come affermato negli Actas (ab
alguna distancia seguexe lo que assi se posa).
Gli autori del Seicento sono concordi nel riferire l’iscrizione a un sarcofago inserito nella parete del braccio meridionale, ricoperto di terra e di detriti provenienti dal crollo delle volte178. Lo
scavo della sepoltura ritenuta pertinente a questa iscrizione fu portato a termine solo il 5 ottobre 1621, come risulta dagli Actas I (f. 119r) e dalla cronaca dell’Esquirro179. Considerato che il
giornale di scavo di quel giorno è più preciso della breve nota esaminata in questa sede, e che viene presentata inoltre una nuova trascrizione dell’epigrafe, si preferisce affrontare l’analisi dell’epitafio di Adone nella sezione relativa agli scavi del 1621 (vd. infra).
1.1.12.5. Il 24 novembre, in un’antica struttura di forma quadrangolare situata fuori dalla
basilica in un punto imprecisato, si rinvennero murati nella parete interna quattro frammenti di iscrizioni marmoree (FR11-14; ff. 37v-38r): Die 24 novembris 1614 in dicta ecclesia Sancti
Saturnini. En sert ediffici quadro antich a la part de fora de la iglesia se ha trobat de part de dins
de la fabrica pizigats a la paret los mabres seguents que ut jacent les lletres seguexen axi.
L’epigrafe, come le tre successive, è inedita e riportata soltanto dagli Actas I. Sulla base delle lettere residue e del formulario che è possibile ricostruire, se ne può proporre la seguente trascrizione:
--- / [--- a]miọṛụ[m --- / --- quievit?] in pacẹ IIII[--- / --- qu]i vixit ạ[nnis? --- / ---]Ạ (hedera?) ḄẠ[---] / ---.
Si tratta di un epitafio cristiano, nel quale manca la parte contenente il nome del defunto. Questi è tuttavia ricordato con una formula che comprendeva la parola [a]micoru[m], secondo una consuetudine che ricorre in testi sia pagani che cristiani, fra cui anche due iscrizioni provenienti rispettivamente da Tharros e da Carales180. Alla seconda linea si legge in pace, verosimilmente
177 Che si tratti di un episemon sarebbe suggerito dal confronto con le attestazioni di questo segno presenti sulle
iscrizioni sarde (cfr. ad esempio CIL X, 7763; 7766; 7770; 7775; AE 1971, 137; IlSard I, 122, tutte da Carales), e dal confronto con altri esempi di episemon presenti negli Actas I (vd. infra a proposito di CIL X, 1353*).
178 D’ESQUIVEL, p. 54; ESQUIRRO, pp. 53-54; BONFANT, p. 372. 179 ESQUIRRO, pp. 517-518.
180 Si tratta dell’iscrizione di Karissimus (CIL X, 7914; cfr. CORDA 1999, THA002; DUVAL 1982b, pp. 281-285),
preceduto da un verbo indicante il trapasso come quievit, requievit o recessit181. Sopra la E si
vedono alcuni segni di difficile interpretazione, apparentemente lettere nane che compongono un numerale IIII, forse relativo alla data di morte. La terza linea conteneva l’indicazione biometrica: resta la parola vixit, preceduta dall’asta di una I da riferire al pronome [qu]i, seguita da un’asta obliqua riconducibile alla A di a[nnis]. Impossibile ricostruire il significato della quarta linea, che dal disegno appare corrosa nella metà inferiore. Il segno centrale a forma di cuore potrebbe essere un’hedera, preceduta da una A e seguita da una parola che forse iniziava per BA.
1.1.12.6. Il secondo frammento conserva sette linee di testo, incomplete sia sul lato destro che
su quello sinistro. Dato il numero decrescente delle lettere man mano che si procede verso il basso, il marmo doveva avere una forma grossomodo triangolare con vertice in basso.