In un recente saggio sulla cultura statunitense contemporanea, Daniele Fiorentino sottolinea come l’11 settembre abbia condotto gli americani a ri- considerare la loro storia, avviando un processo che è proseguito anche oltre l’immediato impatto dell’evento:
L’11 settembre ha imposto agli americani di fare i conti con il loro passato e con il loro presente, e soprattutto di riconsiderare il futuro. In qual- che modo, quello che è avvenuto negli anni seguenti alla tragedia è sta- ta una riflessione collettiva su cosa significhi essere americani e su come quell’evento abbia contribuito a ridefinire il senso stesso dell’identità ame- ricana. Oggi, a dieci anni di distanza, quando gli Stati Uniti sembrano essersi allontanati dal clima di solidarietà e autoanalisi collettiva seguita al 9/11, sono molti i segnali che indicano come quella riflessione sia ancora in pieno svolgimento1.
Nel contesto di questa riflessione, i media narrativi, dalla letteratura, al fumet- to, alle serie TV ecc., hanno rivestito un ruolo centrale proprio nell’affiancare a una elaborazione dell’evento e del trauma una profonda analisi di cosa significhi essere americani, sullo sfondo della storia della nazione, non solo quella recente, ma spesso e volentieri quella antecedente nineleven, dalla guerra fredda in poi, o addirittura quella prossima ventura. Per quanto riguarda il cinema, la variegata mappa dei generi e dei percorsi autoriali che articolano questa analisi, tra sguardi
1 Daniele Fiorentino, Non è un paese per vecchi: identità, paura e futuro, in Raffaella
Baritono, Elisabetta Vezzosi (a cura di), Oltre il secolo americano? Gli Stati Uniti prima e
Inception (id., Christopher Nolan, 2010), ma se ne potrebbero citare molti altri –, si
configura come una sorta di insieme in cui frammenti diversi restituiscono altret- tante schegge dell’identità storica, ideologica, morale, psicologica degli Stati Uniti e degli americani. Analogo discorso si potrebbe fare per l’universo narrativo delle serie televisive, dove un simile va e vieni tra passato, presente e futuro caratterizza buona parte della produzione degli anni Duemila. Per limitarci ad alcuni esempi tra i più interessanti, basti pensare a come l’emersione di temi legati alla minaccia terroristica o all’incidente porti da un lato a ridefinire totalmente l’etica dell’eroe, i confini tra bene e male, la frontiera tra noi e gli altri, ma anche a sconvolgere o forzare i canoni temporali del racconto stesso, tra l’esplorazione limite del presente, ora per ora (24, 2001-2010), e la sovrapposizione del prima, dell’adesso, del poi di un disastro (Lost, 2004-2010); dall’altro, alla necessità di ritornare a momenti chiave della storia americana, come per gli anni Sessanta di Mad Men (2007-in produzio- ne), da Kennedy in poi.
In questo ampio paesaggio narrativo, al di là dei temi sopra ricordati, che ri- guardano più in generale la messa in discussione degli archetipi su cui si fonda(va) il mito americano, emergono alcune questioni e motivi più specifici, tra cui, in pri- mis, quello della giustizia. Leonardo Gandini, per esempio, nel contesto di una re- cente analisi, ha sottolineato con chiarezza come la produzione mainstream post 11 settembre si sia concentrata ossessivamente sulla relatività della nozione di giusti- zia, attraverso parabole narrative che mettono in scena uomini che ricercano e per- seguono ostinatamente, a ogni costo, una giustizia inevitabilmente “imperfetta”2.
In questo senso, secondo Gandini, il cinema hollywoodiano degli anni successivi al crollo delle Twin Towers evidenzia come
Le cicatrici più profonde inferte alla società americana dal crollo delle torri non riguardano il trauma dell’aggressione, quanto piuttosto la con- sapevolezza, improvvisa, dolorosa e diffusa della relatività della nozione di giustizia3.
2 Leonardo Gandini, Giustizia imperfetta. Il panorama etico della nazione dopo il grande
attentato, «Segnocinema», 146 (Segnospeciale: Filming (in) America. Raccontare gli Stati Uniti dopo il 9/11, a cura di Andrea Bellavita), luglio-agosto 2007, pp. 18-20.
Da questo punto di vista, film come Minority Report (id., Steven Spiel- berg, 2002), The Three Burials of Melquiades Estrada (Le tre sepolture, Tommy Lee Jones, 2005) e Inside Man (id., Spike Lee, 2006), così come molti altri, sono senz’altro esemplari e bene testimoniano quel mutamento dello scenario etico che il grande attentato ha determinato in modo traumatico e radicale.
Tuttavia è altrettanto vero, come è lo stesso studioso a notare, che la cul- tura americana, e il cinema in particolare, si interrogano dai tempi dell’omi- cidio Kennedy, e poi del caso Watergate, sull’inconsistenza di una nozione di giustizia dissolta nelle trame occulte e nelle dinamiche imperscrutabili di centri di potere inattingibili e impunibili, al di là delle versioni ufficiali, dan- do luogo a un cinema della paranoia, che il trauma della guerra del Vietnam aveva contribuito ad alimentare e rilanciare su altro versante. Molto cinema della New Hollywood si portava dietro ed esprimeva questa paranoia, de- stinata a trovare una rinnovata ragione d’essere nell’ultimo trauma dell’11 settembre. Inaudito, inatteso, “nuovo”, ma anche un altro trauma che si ag- giunge, nel senso di ancora uno, enorme, capace di scoperchiare del tutto il vaso di Pandora4.
In questo senso, tornando al cinema post 11 settembre, allargando il panorama, non è un caso che anche il New Horror contemporaneo, con i
remake dei redneck movie post-Vietnam, riprenda a metaforizzare l’orrore e
il trauma con il ritorno dei mostri5. Come allora. La paura, o la paranoia,
assumono forme (generi, personaggi, spazi e ambienti) diversi, ma ancora una volta è il cinema americano tutto (oltreché la fiction Tv) che funziona come soggetto sensibile che racconta, si racconta, un trauma che ne richiama altri, una ferita che ne riapre di precedenti. Da questo punto di vista, come già si sottolineava in apertura, il cinema degli ultimi anni non mette in sce- na, in forme più o meno esplicite o implicite, dirette o indirette, l’America del periodo seguito all’11 settembre, ma piuttosto la nazione americana tout- court, nella sua Storia, nei suoi valori, nei suoi miti e fobie, alla luce, certo, della situazione morale, ideologica, psicologica derivata dal crollo delle Twin Towers. Racconta, cioè, il crollo morale, ideologico, psicologico derivato dal crollo materiale delle Torri, ritrovando tra le macerie frammenti che non sono
4 Cfr. Andrea Bellavita, Filming (in) America. Raccontare gli Stati Uniti dopo il 9/11,
«Segnocinema», 146, cit., p. 17.
5 Cfr. Rocco Moccagatta, Redneck manifesto. Gli orrori indicibili della provincia america-
unicamente quelli del presente. In questo ripensare l’America, e l’american-
ness, emerge, consustanziale agli altri, un altro elemento topico, un altro tema
ricorrente, quello della violenza; certamente “uno dei caratteri portanti della cinematografia di questo inizio secolo”, oltreché “tema portante della società americana fin dalle sue origini”, ci dice, ancora, Fiorentino, chiamando diret- tamente in causa il film su cui si concentrerà questo saggio:
Il tutto è condito spesso di una violenza cieca e ingiustificata perpertrata però, a differenza della tradizione, anche dai buoni che rischiano di essere travolti nel vortice della brutalità perdendo così sicurezza e autodefinizio- ne. Tutto si sfuoca nell’incertezza di chi sia il colpevole della degenerazio- ne della violenza. The Departed (2006) di Martin Scorsese riassume queste incertezze in un’avvincente trama di scontro e intreccio tra affari criminali e polizia nella quale i protagonisti saltano continuamente da una parte all’altra, confondendosi e confondendo lo spettatore su chi siano davvero i buoni e i cattivi. Una spirale di violenza travolge quasi tutti i personaggi lasciandone sul selciato la quasi totalità6.
Effettivamente, non solo rispetto al tema della violenza, ma anche a quelli indicati nelle pagine precedenti, e al contesto descritto da Gandini, The De-
parted risulta esemplare7. E non è un caso che si tratti dell’opera di un regista
che proprio dalla New Hollywood proviene, e che, quindi, se racconta, a modo suo, il trauma presente, lo fa in continuità con ciò che l’ha preceduto; una continuità innanzitutto interna al cinema (il suo cinema, le sue costanti d’autore ecc.), ma si tratta di un cinema che massimamente ha saputo tra- smettere nel corso dei decenni la temperatura morale e ideologica della società americana, i suoi traumi, le sue ferite, appunto la sua paranoia.
In The Departed – Il bene e il male molti elementi riportano ai film prece- denti di Scorsese, così come molti elementi, segnali e indizi riportano ad altri momenti della Storia americana, variamente riflessi dalle storie raccontate in altri suoi film. Tra questi, un ruolo forte e carico di significato riveste anche
6 Daniele Fiorentino, Non è un paese per vecchi: identità, paura e futuro, cit., p. 277. 7 Le pagine che seguono rielaborano in alcuni punti il testo del mio precedente saggio
dedicato al film: The Departed. “Here, in this Country”: l’America di Scorsese, in Leonardo Gandini, Andrea Bellavita (a cura di), Ventuno per undici. Fare cinema dopo l’11 settembre, Le Mani, Recco, 2008, pp. 149-158.
la scelta dei materiali sonori e musicali in particolare, che affollano la colonna sonora. Significativamente, per esempio, Gimme Shelter è la canzone che, nel- la colonna sonora della sequenza introduttiva di The Departed, si intreccia con la voce narrante, e poi dialogica, di Frank Costello, nel passaggio dalle imma- gini significativamente di repertorio che aprono il film (nelle sceneggiatura originale esplicitamente riferite agli anni Settanta, con un sottotitolo che data «1974»8, sostituito nel film dall’indicazione «qualche anno fa», altrettanto si-
gnificativa), e l’avvio del racconto. Si tratta di una delle più famose canzoni dei Rolling Stones, apparsa la prima volta nell’album Let it Bleed, del 1969, una sorta di canzone della fine del mondo, del senso di apocalisse legato all’era del Vietnam, come ricorda a distanza di anni lo stesso Mick Jagger9. È la terza
volta, dopo Good Fellas e Casino, che Scorsese utilizza la canzone dei Rolling Stones. Questa volta, tuttavia, Scorsese puntualizza il senso della scelta:
Gimme Shelter est un cri. Un cri, provoqué à l’époque par la guerre du
Vietnam, mais qui a toujours une résonance. Aujourd’hui, j’ai envie de hurler de la même manière. Et puis, les personnages du film sont, en quel- que sorte, embarqués dans une guerre. Ils n’ont aucun refuge (shelter)10. La ricorrenza della canzone evidentemente salda il legame con gli altri due film in questione, così come molte altre ricorrenze, narrative, tematiche, stili-
8 Ecco come apre la sceneggiatura di William Monahan:
FADE UP ON
THE SOUTH BOSTON HOUSING PROJECT. A maze of buidings against the harbor. CLOSE ON:
YELLOW. Yellow ripples past the camera and when it clears we see through diesel smoke: A BUSING PROTEST in progress. The SCHOOLBUS, full of black kids, is hit with bricks, rocks. A brief, violent, destructive barrage.
The surging, rioting, crowd in the street is so Irish that it might as well have been photo- graphed in Belfast. Placard of the period are displayed.
TITLE: 1974.
9 «Well, it’s a very rough, very violent era. The Vietnam War. Violence on the screens,
pillage and burning. And Vietnam was not war as we knew it in the conventional sense... That’s a kind of end-of-the-world song, really. It’s apocalypse», in Jann S. Wenner, Mick
Jagger Remembers, «Rolling Stone», 14 December 1995, p. 3 (www.rollingstone.com).
10 Martin Scorsese, in Nicolas Shaller, Stéphanie Lacome, Scorsese sans filtre, «Première»,
stiche ecc., su cui qui non ci si sofferma, proseguono un discorso e una poetica d’autore di impressionante e magmatica coerenza. Ma ciò che le parole di Scor- sese sembrano sottolineare per questa precisa occorrenza di Gimme Shelter, in
The Departed, è il senso politico che si porta dietro e che rilancia oggi. Saldando
il legame con il passato, con la Storia americana. Un senso politico in forma di grido, di grido dell’autore, di Scorsese («aujourd’hui, j’ai envie de hurler de la même manière»), ma anche dei personaggi e del mondo raccontato, «in qualche modo imbarcato in una guerra». In questo senso se è vero che Scorsese continua a raccontarci l’inferno in terra, ora, e forse a partire da Gangs of New York (id., 2002), come sostiene Jean-Christophe Ferrari, la rappresentazione di questa dannazione acquista una dimensione nuova e specificamente politica:
Ce qui a changé chez Scorsese, à partir de Gangs of New York, tient, je crois, à une nouvelle manière de représenter l’enfer; ce séjour carcéral et incandescent auquel les hommes semblent condamnés. Le caractère subjectif de la dam- nation et la dimension objectivement cauchemardesque du monde trouvent aujourd’hui un équilibre qu’ils n’avaient pas dans Taxi Driver, Raging Bull ou After Hours. Ou, pour le dire autrement, il y a, dans l’oeuvre récente de Scorsese, un engagement politique explicite, c’est-à-dire une représentation désabusée des États-Unis et, par contamination, du réel tout entier11.
L’universo concentrazionario del film, in cui si fronteggiano forze dell’or- dine e criminali, con armi, obiettivi e modalità tanto interscambiabili quanto la loro condizione etica, costituisce una rappresentazione estrema, esacerbata,
urlata, di una nazione giunta a una sorta di ground zero della moralità, per
usare un’espressione dello stesso regista12, che riprende direttamente la defi-
nizione dell’immagine del disastro, delle macerie e del deserto seguiti all’11 settembre 2001, dell’azzeramento delle torri gemelle all’attuale ground zero, simbolo di un’apocalisse e di tutti i suoi departed. Ed è proprio questo univer- so, definito da trame, percorsi e ruoli indistricabili che ritorna, rilanciandola all’ennesima potenza, a quella paranoia di cui sopra si diceva.
La Boston del film, e il milieu Irish-american che Scorsese mette in scena
al posto di New York, tante volte raccontata, e raccontata anche nel film forse
11 Jean Christophe Ferrari, Martin Scorsese. Les infiltrés, «Positif», 550, Décembre 2006, p. 36. 12 In Ian Christie, Scorsese. Faith under Pressure, «Sight&Sound», November 2006, p. 14.
intimamente e politicamente più vicino a The Departed, cioè Gangs of New
York, appaiono al contempo come una dislocazione e una ricollocazione me-
taforica, con quelle frontiere e quelle opposizioni etniche così ossessivamente indicate nel corso di tutto il film. Del resto, come è stato notato in diversi studi recenti13, l’ambientazione bostoniana (e south-bostoniana, in particola-
re), è location ricorrente nel cinema (come nella televisione e nella popular cul-
ture) post 11 settembre, laddove l’Irish-americanness dei suoi abitanti diventa
elemento cruciale e metonimico per rappresentare la crisi dell’americanness tutta, in particolare nel crime o gangster movie, anche d’autore, come è il caso per esempio di Mystic River (id., Clint Eastwood, 2003)14, oltreché di The De-
parted. Diane Negra, sottolineando come nel caso di Scorsese, in particolare,
il film «remakes an Asian gangster film with Irish characters», nota come il dato etnico in questo contesto sia evidentemente di natura simbolica:
Despite the current high profile of a set of Irish male stars in Hollywood, these narratives are marked by the minimal involvement of Irish perform- ers, a fact which suggests their disinterest in a sourced, indigenous Irish- ness in favour of a commitment to Irishness as an accessory discourse to Americanness. The fact that this material has been so transparently “Irish- ized” reinforces the broad consensus in the US that Irishness is available to speak a precariously classed, highly instable whiteness.15
Se l’analisi di Negra approfondisce poi la questione della crisi della mascolinità americana, su cui qui non ci soffermiamo, è interessante trattenere lo spunto relati- vo al dato etnico e ambientale già sottolineato. In effetti, appare evidente come Bo- ston sia una perfetta pars pro toto, o metafora, per un’intera nazione, quella nazione cui non solo alludono le numerose bandiere americane che costellano il film (dalle prime immagini di repertorio, quindi della Storia, che tornano guarda caso agli anni Settanta, alle immagini finzionali, della storia), ma che, anche, viene evocata e invocata significativamente dal personaggio che è paradossalmente il perno morale
13 Cfr. i saggi compresi in Ruth Burton (ed.), Screening Irish-America. Representing Irish-
America in Film and Television, Irish Academic Press, Dublin-Portland, 2009.
14 Per un’analisi di Mystic River si rinvia a Giulia Carluccio, Mystic River, in Giulia
Carluccio (a cura di), Clint Eastwood, Marsilio, Venezia, 2008, pp. 91-115.
15 Diane Negra, Irishness, Anger and Masculinity in Recent Film and Televisions, in Ruth
del film, e cioè Costello. Si veda, per esempio la sequenza dello smercio dei micro- processori ai cinesi, dove Costello contrappone ai compratori, nel corso di una trat- tativa tra mafiosi, una serie di norme, in nome di un sistema di valori (paradossali) legati alla “nazione”: «Because here, in this Country… What we generally do in this
Country is that…», laddove il montaggio sonoro della lingua cinese dei compratori
e le parole scandite in inglese dal boss americano, con la ripetizione di this Country acquista una dimensione fortemente drammatica, ancorché il senso di quelle paro- le sia ironico. Di nazione si parla anche nel dialogo tra Costello e French, al volante dell’auto, quando quella americana viene definita una «nazione di topi», nel senso metaforico che il sostantivo rats possiede nel contesto del film, cioè spie, infiltrati, ma anche nella concretezza del senso letterale, ripresa nell’ultima inquadratura del film, quando un topo cammina sul terrazzo della lussuosa residenza del defunto Sullivan, sullo sfondo della cupola d’oro del Capitole, simbolo del governo.
Una nazione di spie, di infiltrati in cui si scopre che lo stesso boss, che è al tempo stesso vittima e mandante di rats, è a sua volta informatore del F.B.I. È evidente dunque che ciò che emerge è una indecidibilità e instabilità tota- li dei ruoli, in un clima di controllo e sorveglianza sia fisici che tecnologici, che mischiano modalità e strumenti arcaici, fisici, appunto, con dispositivi e software elettronici di ultima generazione. La violenza del film, in questa pro- spettiva, non è solo quello fisica, delle collutazioni, delle aggressioni materiali, ma anche quella dell’invasività di mezzi di controllo che sono già virtualmente armi. Quella che si combatte è una guerra in cui non si usano soltanto le armi tradizionali. I computer e i cellulari (di cui riparleremo), onnipresenti nel film, tanto quanto il sangue che scorre, creano e distruggono contatti e persone con semplici comandi. La distruzione di un file equivale all’annientamento di una persona, di un’identità, così come la localizzazione di un cellulare è come una sorta di presa di mira. Vediamo cellulari che suonano, che vibrano, che mes- saggiano come parte fondamentale delle dotazioni degli agenti dell’ordine o del crimine, armi speciali. Scorsese stesso ne indica la funzione nel film:
On a eu toutes sortes de problèmes techniques avec les téléphones mobiles et les ordinateurs. Pour moi, ce sont des armes, et je les ai filmées comme telles16.
16 Michael Henry, Entretien avec Martin Scorsese. L’orgueil précède la chute, «Positif», 550,
Tutto ciò costituisce anche una sorta di aggiornamento della paranoia espressa da film come The Three Days of the Condor (I tre giorni del Condor, Sidney Pollack, 1975), o The Conversation (La conversazione, Francis Ford Coppola, 1974), un aggiornamento che conduce a un livello estremo, definiti- vo. In questo senso, il film è davvero un ritratto dell’America contemporanea, post 11 settembre. Se è vero che Scorsese non ha fatto un film esplicitamente sull’11 settembre, è pur vero che il clima di catastrofe morale che impregna
The Departed parte da lì, come molti critici hanno sottolineato, ma anche che arriva lì. Proprio in considerazione degli agganci con il passato, con la Storia
americana degli ultimi decenni, della stratificazione di riferimenti, sia espli- citamente storici (ricordiamo ancora che il film prende avvio da immagini di repertorio che ci riportano indietro), che interni al cinema. Certo, arrivare lì significa arrivare a un punto di deflagrazione senza ritorno, di apocalisse. In questo, il crollo delle Torri è un punto di non ritorno. E a proposito di
crolli, che è anche il titolo del fortunato libro di Marco Belpoliti sul mondo
contemporaneo, tra i due crolli simmetrici del Muro di Berlino e delle Torri Gemelle17, crollo e caduta è anche, nel film, quello improvviso e scioccante