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Fratello dove sei?

Ancora una volta è la televisione a fornire la spinta propulsiva a una piccola ri- voluzione nel campo della comicità cinematografica. I fratelli Farrelly, infatti, nascono e crescono artisticamente nella squadra di sceneggiatori di una serie culto della NBC, Seinfeld (1989-1998), poco nota in Italia ma di formidabile successo negli USA (durante il periodo di messa in onda vincerà una quantità impressionante di Emmy Award e Golden Globe).

Spesso invocata come l’incarnazione stessa della postmodernità, la sitcom inventata da Jerry Seinfeld e Larry David si è fatta vanto per anni di essere un programma “sul nulla” e di proporre un umorismo del tutto amorale e fine a se stesso, scevro da qualunque pathos o funzione didattico-educativa8. Per

8 Si veda, sul tema, Michael Medved, Hollywood vs. America: Popular Culture and the War

certi aspetti, le avventure di un gruppo di personaggi che navigano a vista nell’assurdo, spesso oltre ai limiti dell’autismo, costantemente portati a forza- re i limiti delle convenzioni nella rappresentazione televisiva, ma al contempo perfettamente a proprio agio, imprevedibilmente sereni e appagati dalle pro- prie esistenze prive di senso e sentimento9. Da questa serie enigmatica, che

determina una sorta di riprogrammazione del pubblico statunitense, nasce l’idea per una commedia semplicemente insensata, che mette in scena due perfetti deficienti. Perché i due amici protagonisti di Scemo e più scemo sono proprio il prototipo dell’idiota “che appartiene a se stesso”, ovvero dell’uomo del futuro di cui parlerà Lars von Trier alcuni anni dopo.

Inabili a tutto, incapaci di svolgere il più semplice dei lavori, capaci solo di compiere disastri avvilenti e sistematicamente preda di pulsioni regressive, Lloyd Christmas e Harry Dunne sono la versione aggiornata di ciò che era- no stati Fatty Roscoe Arbuckle per lo slapstick degli anni Dieci e The Three

Stooges negli anni Trenta. Spiriti maligni, sorti dalle profondità della cultura

popolare più sboccata e disinibita per portare scompiglio e disordine in un universo convenzionale, retto principalmente dal buon gusto, dall’etica e dal- la logica del “giusto profitto”.

I due buddies messi in scena dai Farrelly sono brutti, goffi, sporchi, igno- ranti, poveri, volgari proprio come i futuri protagonisti di Jackass. Possono trascorrere intere giornate impegnati in fastidiosissimi scherzi infantili. Sono del tutto irresponsabili, sia rispetto a qualunque forma di impegno sia ri- spetto alle aspettative altrui. Sono capaci di tradire (e si tradiscono a vicenda con serenità) ma non hanno nessuna intenzione di assumersene la respon- sabilità. Hanno un rapporto delirante col denaro, che prescinde totalmente dal concetto di valore. Non lo sanno guadagnare, ma quando se ne trovano per le mani lo sprecano nei modi più insensati, inseguendo le gratificazioni più estreme e superficiali. Si lanciano in scherzi crudeli e mettono in pratica stratagemmi del tutto amorali pur di raggiungere i loro scopi (per esempio vendere un uccellino morto a un bambino cieco). Disprezzano ogni forma di etichetta, sabotano l’ecologia, vivono i sentimenti in maniera del tutto mate- riale, oscillando dall’idealismo più sfrenato alla corporeità più esplicita.

Tutto questo, però, con una leggerezza che li rende invulnerabili. Infatti, fra

9 Si veda, al riguardo, Ryan Dawson, Seinfeld: A Show about Something, Cambridge

University Press, Cambridge, 2006 e William Irwin (ed.), Seinfeld and Philosophy: A Book

le altre cose, si deve riconoscere loro di essere talmente al di fuori del contesto sociale tradizionalmente inteso da non essere in alcun modo invischiati con le sue ipocrisie (e non è un caso che tutta la seconda parte del film si svolga ad Aspen, Colorado, località di gran moda per le vacanze invernali del jet set).

Se siano i Farrelly stessi lo “scemo e più scemo” è fatto che non ci interessa e che porterebbe ad attribuire loro una patente di autorialità che è invece utile evitare, lasciando che figure e motivi dei loro film circolino liberamente nell’industria culturale e nella cultura popolare americana (e non solo). Fatto sta che anche il secondo film, Kingpin (id., Bobby e Peter Farrelly, 1996) propone una coppia di losers on the road, impegnati in un’impresa tanto insensata quanto indispensabile. Molto più compiuto sul piano narrativo, il film racconta di un campione di bowling al quale hanno amputato una mano e si ritrova a giocare con un moncherino di plastica dopo una discesa agli inferi della degradazione – chiara parodia di The Hustler (Lo spaccone, Robert Rossen, 1961) e del suo sequel, The Color of Money (Il colore dei soldi, Martin Scorsese, 1985) – facendo coppia con un amish dal talento imprevedibile che egli dovrebbe condurre nel mondo dei professionisti.

Stavolta gli idioti sono un po’ meno idioti, ma resta una girandola para- dossale di situazioni limite, poste in essere da questi due perfetti esclusi. Ma il film costituisce un’evoluzione interessante soprattutto per come integra una serie di elementi che diventeranno una costante nei film successivi dei due fratelli. Woody Harrelson, come detto, è un disabile. Gli manca un arto e il film non fa nulla per celare la sua menomazione, insistendo con ripetute gags sull’handicap in questione. Il suo aspetto, del resto, non è molto più rassicu- rante, giacché a caratterizzarlo è soprattutto un riporto imbarazzante e ribelle che ne deturpa ogni pretesa di fascino. D’altra parte, lo vedremo accoppiarsi per interesse con la padrona di casa, anziana tabagista dai denti giallissimi, la cui fisicità cadente costituisce un vertice di abiezione difficilmente raggiungi- bile, incrociando ageism e sessismo, per non parlare delle evidenti perversioni che animano la vita e l’immagine dell’esasperato antagonista messo in scena da Bill Murray. Ancora, sull’altro versante, la purezza dell’amish interpretato da Jeff Daniels contrasta con l’immagine di ottusità, grettezza e limitatezza di vedute con cui è rappresentata la comunità religiosa, solitamente idealizzata.

Difficile decidere quale atteggiamento adottare, di fronte a procedure che svelano tutta l’ambivalenza con cui è solita esprimersi la cultura di massa, specie quando si confronta con temi di questa delicatezza. Infatti, ecco da un

lato l’attacco per la maniera irrispettosa, percepita come offensiva e simboli- camente violenta, con cui sono trattati i soggetti più deboli e ogni forma di anormalità10. Dall’altro lato, si comincia a intravedere che questa rappresen-

tazione in se stessa costituisce un netto passo avanti e un contributo tanto più importante, in quanto mainstream, all’ampliamento del cosiddetto visibile per tutta una serie di figure relegate alla condizione “tecnica” dell’osceno11.

Infatti, come nota Kathleen LeBesco,

as much as all the Farrelly brothers’ films rack up laughs at the expense of people with disabilities, many of them contrarily function to normalize disability. Most of their main characters have some form of disability or another; in addition, another subset of disabled characters whose portray- als are more complicated and nuanced exists within the filmic universe of the Farrelly brothers. Peripheral characters with disabilities – from spina bifida to stuttering, among others – are tipically not subjected to the same problematic framing as many of the lead characters, and in fact often reflect a view of disability itself as normal12.

Ed è esattamente ciò che accade in tutti i film successivi dei Farrelly. In

There’s Something about Mary (Tutti pazzi per Mary, Bobby e Peter Farrelly,

1998), la protagonista ha un fratello ritardato attorno al quale (e agli omoses- suali, alla solita vecchia cadente dagli irrefrenabili appetiti sessuali, ai teneri animali da compagnia e altri stereotipi assortiti) si sviluppa la maggior parte delle gags. Alcuni dei personaggi del film arrivano a fingere menomazioni per sfruttare la sensibilità di Mary/Cameron Diaz nei confronti di chiunque ma- nifesti una forma di disabilità, ma è fondamentalmente l’ipocrisia stessa del “politicamente corretto” a essere presa di mira, specie in un irresistibile dialogo fra la Diaz e Matt Dillon, in cui il corteggiatore mente spudoratamente, simu-

10 Un esempio interessante, che presenta anche una rassegna capace di offrire un quadro

ampio delle posizioni in gioco, è dato da David Zagorski, Pop Culture Limbo: How Low

Can We Go?, «California State University Review», VI, 2, 2001.

11 Ci riferiamo alla matrice etimologica del termine “osceno” (bandito dalla scena) così

come problematizzato a partire dal celebre contributo di Julia Kristeva, Poteri dell’orrore.

Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano, 1981.

12 Kathleen LeBesco, There’s Something about Disabled People: The Contraddictions of

Freakery in the Films of the Farrelly Brothers, «Disability Studies Quarterly», XXIV, 4,