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L’attore è il medium

Per comprendere dunque la portata del fenomeno e le sue coordinate in ter- mini sintetici, ci si può riferire all’attore che meglio di ogni altro ha saputo incarnare lo spirito comico del tempo che va dalla metà degli anni Novanta all’inizio del nuovo secolo, Jim Carrey.

La vasta bibliografia6 che lo riguarda e la sua stessa filmografia hanno

Laboratory of Masculinity: Renegotiating Gender Subjectivities in MTV’s Jackass, «Critical

Studies in Media Communication», XXVI, 5, 2009, pp. 393-410.

5 Non suoni un parallelo eretico. In Italia, l’artista concettuale Maurizio Cattelan ha

collaborato con gli eredi locali di questo tipo di televisione, Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, alias I soliti idioti, non a caso inaugurato da MTV nel 2009 e dichiaratamen- te ispirato alla trasmissione inglese Little Britain (David Walliams, Matt Lucas, 2003- 2006). Al riguardo si veda: http://www.huffingtonpost.it/2013/10/25/maurizio-cattelan- bologna_n_4163286.html

6 Si vedano al riguardo: Jérȏme Larcher, Éloge de Jim Carrey, «Cahiers du Cinéma»,

548, 2000; Giacomo Manzoli, Jim Carrey, l’enigmatica perfidia, «Cineforum», 402, 2001 (si parva licet); Vivian Sobchack, Thinking through Jim Carey, in Cynthia Baron,

ampiamente messo in luce quali sono le radici nelle quali affonda il suo stile e la direzione in cui si è sviluppato il suo contributo originale alla storia della performance cinematografica e della comicità. Da una parte, sotto il profilo dell’uso del corpo, è stato largamente sottolineato il debito che nutre nei con- fronti di Jerry Lewis. Dall’altro lato, Carrey ha iniziato negli anni Ottanta e si è inserito in quel vastissimo alveo di comicità irriverente che ha trovato i suoi momenti più celebri nel cinema di John Landis e nelle trasmissioni del

Saturday Night Live, avendo in figure come John Belushi e Andy Kaufman

i suoi punti di riferimento. Da lì vengono i vari Dan Ackroyd, Bill Murray, Steve Martin, Marty Short e attorno a quella stessa factory sono in qualche modo cresciuti i vari Jeff Daniels, Adam Sandler, Ben Stiller, Jack Black, Seth Rogen, Vince Vaughn, Steve Carrell, Owen e Luke Wilson, e tutta la schiera di attori e autori che hanno animato le serie degli American Pie e degli Scary

Movie, il cui faro è invece la grande pulsione parodica del trio composto da

Jim Abrahams e da David e Jerry Zucker (i quali, del resto, avevano scritto proprio con Landis quella specie di film-manifesto, ma senza la supponenza di Dogma 95, che è Kentucky Fried Movie [Ridere per ridere, John Landis, 1977]).

E si tratta di una tradizione così pervicace e profonda da aver travalicato i tradizionali confini del genere. Se, come è stato ripetutamente osservato7, l’eti-

chetta dispregiativa di “demenziale” è sempre stata fuorviante nella definizione di questo tipo di comicità già a partire dagli anni Settanta e serve soprattutto a marcare il pregiudizio degli osservatori, è vero che il tipo di oggetti con cui ci si trova ad avere a che fare sembrano spesso predisposti per disorientare le aspet- tative canoniche di uno spettatore tradizionale. C’è da chiedersi allora come sia possibile, per esempio per Judd Apatow o Milos Forman, guidare rispettivamen- te Adam Sandler o Jim Carrey in film malinconici, vere e proprie metariflessioni sul tema della comicità, sulla funzione sociale del comico nella cultura di massa e sulla soggettività che ne deriva, come Funny People (id., Judd Apatow, 2009) o Man on the Moon (id., Milos Forman, 2000). Si tratta infatti di altrettanti drammi comici di lunghezza esorbitante (fra le due ore e le due ore e mezza) in cui si narra la vita di personaggi che “fanno ridere” per mestiere e che oscillano fra euforia e disforia, intrecciando il successo professionale e il fallimento esi-

Diane Carson, Frank P. Tomasulo (eds.), More Than a Method. Trends and Traditions in

Contemporary Film Performance, Wayne State University Press, Detroit, 2004.

stenziale, i piaceri dello star system con la malattia, il dolore e persino la morte, in un’alternanza di momenti strazianti o intimi da una parte e, dall’altra parte, di turpiloquio, volgarità estreme, meschinità, scorrettezze politiche – provoca- toriamente ricercate o involontarie – che chiamano in causa tutte le categorie possibili: sex, gender, race, age, disability e così via. Peraltro nel caso dell’Andy Kaufman interpretato da Carrey, vediamo ritratto un artista realmente esistito e che rientra a pieno titolo nella galleria dei biopic sui lunatici di talento, sui ribelli borderline che hanno fatto la fortuna del regista ungherese.

Del resto, la figura di Jim Carrey era letteralmente esplosa fra il 1993 e il 1994, allorché – da attore semisconosciuto – si è trovato a interpretare, nello stesso anno (escono tutte nel ’94) ben tre commedie che condividono fra loro ben più di un’aria di famiglia. Due di essi, Ace Ventura: Pet Detective (Ace

Ventura – L’acchiappanimali, Tom Shadyac, 1994) e The Mask (The Mask – Da zero a mito, Chuck Russell, 1994) sono praticamente film gemelli, benché

nati da presupposti completamente differenti.

Il secondo è un interessantissimo film di derivazione fumettistica, ripren- dendo una storia di grande successo nel campo dell’underground, concepita da John Arcudi nel 1989 per la casa editrice indie Dark Horse, mentre il pri- mo nasce da una serie di performance televisive di Carrey, rielaborate da Jack Bernstein e destinate a un successo planetario che si consolida con il secondo capitolo della saga, Ace Ventura: When Nature Calls (Ace Ventura – Missione

Africa, Steve Oedekerk, 1995) capace di superare i duecentodieci milioni di

dollari dell’epoca solo al box office. In entrambi i casi, il personaggio di Carrey è quello di un disadattato completamente alienato, la cui comicità è prevalente- mente di natura corporea e deriva dal modo formidabile con cui Carrey riesce a fornire un correlativo plastico, attraverso spasmi di ogni forma e natura, a una compressione dell’aggressività che ha chiaramente superato il limite di guardia. In The Mask – Da zero a mito, il tema della schizofrenia è assunto persino a livello diegetico, trattandosi del classico nerd, apparentemente rassegnato a un ruolo di subalternità e a una vita di umiliazioni, il quale può dare libero sfogo al proprio lato oscuro, tanto violento quanto irresistibile, semplicemente in- dossando una maschera incantata. Ma altrettanto violento e del tutto incapace di sottoporre a una qualunque disciplina i propri istinti e la propria libido è il detective per animali Ace Ventura, anch’egli esploratore del “basso corporeo” in tutte le sue manifestazioni più regressive e liberatorie; anch’egli semplicemente incapace di esercitare qualunque forma di sensibilità nei confronti degli umani

con cui si trova a interagire, in una forma esasperata di sociopatia che lo porta a una esclusiva empatia mimetica con gli amati (e ricercati) animali.

È perfettamente legittimata ogni ipotesi sul fatto che Carrey si trovi, in questi film, a dare una forma – tanto inquietante quanto catartica – al disagio individuale, specialmente maschile, di fronte a una richiesta supplementare di riguardo per tutte le sensibilità altrui, in una società multietnica e com- plessa. Il comico scaturisce, in forme estreme, dalla riduzione dello spazio di “libera espressione” per le forme tradizionali della mascolinità, ormai auto- maticamente ricondotte al concetto di dominio maschile e dunque fortemen- te stigmatizzate. Ed è altrettanto lecito ricollegare tutto questo con l’epoca in cui i film sono ambientati: la fine della guerra fredda e dei testosteronici anni Ottanta, il riposizionamento di tutta una serie di soggetti all’interno della società americana, nuove forme di declinazione del gender molto più “equilibrate” (è il periodo d’oro di Demy Moore e Angela Bassett e di figure divistiche maschili decisamente più gentili di quelle che avevano segnato il decennio precedente, da Keanu Reeves a Patrick Swayze).

Ma fra i tre del 1994, il film di Carrey più interessante ai fini del discorso che stiamo dipanando è sicuramente il terzo, quello che lo vede al fianco di Jeff Daniels, Dumb & Dumber (Scemo e più scemo, 1994) diretto da due figure destinate a lasciare un segno, Bobby e Peter Farrelly.