Cercano l’idiota che hanno dentro di sé. Nessun altro può farlo al posto loro. Quello che voglio dimostrare è che… se una società diventa sempre più ricca, allora perché la gente non è più felice? Nell’età della pietra tutti gli idioti morivano, giusto? Adesso non è più così. Essere un idiota è un lusso, ma è anche un passo in avanti. Gli idioti sono esseri del futuro. Questo se si riesce a trovare un idiota che sia proprio un idiota che appar- tiene a se stesso.
Così si esprimeva il protagonista di uno dei più controversi film di Lars Von Trier, Idioterne (Idioti), del 1998. Provocatoria variazione sul tema del mani- festo Dogma 95, Von Trier pretendeva di riallacciarsi a una vasta e confusa tradizione che rimanda alle avanguardie, all’antipsichiatria, a diverse moda- lità delle controculture novecentesche1, ma perfino a una tradizione letteraria
che, dal Medioevo in poi, celebra la purezza degli umili e la forza sovversiva del rifiuto – spontaneo o voluto – di ciò che è convenzionalmente ritenuto intelligente (e perciò furbo, produttivo, normale o come lo si vuole definire).
Non è ovviamente questa la sede per dilungarsi sull’importanza e la sot- tigliezza del concetto di idiozia e sulle sue infinite variazioni e possibili decli- nazioni in una prospettiva di storia culturale ad ampio spettro2, ma assai più
1 Al riguardo si vedano le molteplici dichiarazioni dello stesso regista in: Lars von Trier,
Gli Idioti. Dogma95. La sceneggiatura. Il diario di lavorazione, Ubulibri, Milano, 1999; e
in: Lars von Trier, Il cinema come Dogma. Conversazioni con Stig Björkman, Mondadori, Milano, 2001.
modestamente provare a esplorarne l’impatto sul cinema americano contem- poraneo e avanzare alcune ipotesi in merito a funzioni e significati.
Infatti, appesantito da un apparato teorico e filosofico di una certa pom- posità e attardatosi a contemplare il proprio statuto autoriale, Lars von Trier arrivava con ritardo a esplorare un tema che il cinema americano sembrava, nel ’98, avere già ampiamente metabolizzato a un livello per così dire main- stream.
Non ci riferiamo al caso fin troppo evidente di Forrest Gump (id., Robert Zemeckis, 1994)3, ovvero a quella sorta di “idiot performant” che informa
di sé buona parte della cultura americana (recuperato, per esempio, anche da Joel e Ethan Coen in gran parte dei loro film) e che in qualche modo rappre- senta una versione idealizzata della condizione del soggetto postmoderno.
Infatti, in una delle più scatenate parodie del mondo hollywoodiano e dei suoi meccanismi interni, Tropic Thunder (id.), diretto nel 2008 da Ben Stiller, a un certo punto Robert Downey Jr. spiega a un collega l’errore di aver interpretato il personaggio di Simple Jack, vale a dire un idiota-idiota, non un idiota geniale o capace di imprese memorabili, come Rain Man o, appunto, come Forrest Gump, ma un idiota definitivo e qualsiasi, senza possibilità di redenzione.
È questo il tipo di idiozia alla quale facciamo riferimento. Teorizzata per- fino da Mike Judge in un film del 2006, Idiocracy (id.), che pare fare il verso a von Trier e che invece rappresenta un testo connettivo sul quale conviene dilungarsi. Si tratta infatti di un plot che deriva da una tipica commistione di generi, tra distopia fantascientifica, parodia e satira sociale, con un medio- cre al cubo interpretato da Luke Wilson (bibliotecario dell’esercito…) che viene ibernato e si risveglia alcuni secoli dopo, scoprendo che l’umanità è ormai completamente regredita a una fase di demenza diffusa a causa di due fenomeni concomitanti: il ruolo delle tecnologie che hanno reso inutile, in termini evolutivi, l’esercizio dell’intelligenza, e l’aridità dello stile di vita delle
l’opera del neurologo Oliver Sacks, diventata di larga diffusione nel corso degli anni Ottanta e talvolta frequentata anche dal cinema – si pensi a Awakenings (Risvegli, Penny Marshall, 1990). Diversamente, sul piano storico e culturale, fra le numerosissime opere di diversa ispirazione (uno per tutti, Foucault), ci limitiamo a ricordare il sempre inop- pugnabile testo di Carlo Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana, in Carlo Cipolla, Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna, 1988.
3 Sul tema si veda: Riccardo Caccia, Forrest Gump, in Gianni Canova (a cura di), Robert
persone più intelligenti, restie a riprodursi o ad avere più di un solo figlio per non compromettere la propria realizzazione individuale, laddove i meno do- tati, invece, sembrano non avere alcun problema a riprodursi massicciamente, in modo anche irresponsabile. Il film presenta diversi omaggi alla fantascien- za classica e in particolare a opere di confine, come Sleeper (Il dormiglione, Woody Allen, 1973) o Le cinquième élément (Il quinto elemento, Luc Besson, 1997).
Wilson, naturalmente, figurerà come un genio in un mondo che rischia la carestia perché la gente si ostina ad annaffiare le piantagioni con bevande addizionate con vari integratori, ma il punto non è questo.
Il punto, piuttosto, è che il regista e sceneggiatore è quello stesso Mike Judge passato alla storia della televisione americana per aver creato, nel 1993, uno dei programmi più sgradevoli e al contempo fortunati di MTV, Beavis
and Butt-Head, serie d’animazione incentrata sulle avventure di due liceali
tanto stupidi quanto volgari, violenti, politicamente scorretti, provocatori, amorali e così via, seguendo lo stigma che il programma ha incontrato nei quattro anni di programmazione e nelle sue successive ramificazioni. Eppure, questa serie, che in Italia ha sempre avuto un successo molto relativo per come è profondamente calata nel contesto di riferimento, negli USA ha registrato non solo un pubblico enorme (sia pure fortemente connotato sul piano ana- grafico) ma anche una straordinaria influenza su film e serie degli anni suc- cessivi, riuscendo evidentemente a rispondere a un preciso bisogno di natura simbolica.
Nel 1997, quindi, la Fox mette in programmazione un’altra serie animata che segue in gran parte coordinate analoghe e si riferisce al medesimo target,
South Park di Trey Parker e Matt Stone, confluita poi nel palinsesto di MTV.
Qui, nel 2000, esordirà anche una ulteriore serie, questa volta non di anima- zione ma rientrante in sostanza nel frame della cosiddetta “reality television”,
Jackass, di Spike Jonze, Johnny Knoxville e Jeff Tremaine, dove a essere sfida-
ti, di puntata in puntata, erano i limiti del buon gusto e di ogni buon senso, a partire dall’istinto di conservazione.
Molto meno idioti di quanto non appaiano in video4, i protagonisti della
4 Come si può immaginare, la pubblicistica in merito, nel campo della popular culture,
è imponente. Si vedano, fra gli altri: Robert W. Sweeny, “This Performance Art is for
the Birds”: Jackass, ‘Extreme’ Sports, and the De(con)struction of Gender, «Studies in Art
serie hanno assunto uno statuto divistico che li accomuna a certe icone punk, facendosi espressione di un disagio ma anche consapevoli performers al limite dell’avanguardia (e, in fondo, non avrebbe del torto chi li vedesse impegnati a integrare in un format televisivo le sperimentazioni estreme di Andy Warhol o Marina Abramovich…)5. Alla fine, quella che esprimono è, a tutti gli effetti,
una sub-cultura giovanile da periferia urbana, nel senso che al termine sono soliti attribuire i cultural studies.
Solo che questa sub-cultura ruota attorno a una celebrazione dell’idiozia (in particolare dell’impresa autolesionista priva di significati apparenti, gra- tuita) e filtra attraverso una grande piattaforma televisiva globale, sicché ha l’ambizione (raggiunta) di elevarsi al rango di cultura a tutti gli effetti, di rap- presentare cioè un emblema o una tendenza di elementi comuni alla cultura contemporanea senza ulteriori specificazioni.
Perché, se Beavis & Butt-Head, South Park o Jackass (ma anche l’Ali G cre- ato nel 1998 da Sacha Baron Coen) si riferiscono prevalentemente a un target giovanile, essi non fanno altro che declinare in modo pertinente ai soggetti ai quali si rivolgono un tema che appare ampiamente diffuso e pervasivo anche su un piano più generale.