• Non ci sono risultati.

Ricominciare a guardare

Da qui, da questa immagine e dal suo fuori campo, prende idealmente cor- po Zero Dark Thirty (id., 2012) di Kathryn Bigelow, caratterizzato da una tensione costante tra documento e rappresentazione, tra la consapevolezza dell’alterità irriducibile del mondo reale e la volontà di dare testimonianza dei

fatti, mediatici e non, che vi accadono. In particolare, Zero Dark Thirty offre l’occasione per una riflessione in merito al «tratto elaborativo dell’immagi- ne, ciò che ne riqualifica la prestazione referenziale», vale a dire la capacità di «intercettare il mondo, di esplorarlo e di ridescriverlo»12 sulla base di un

principio della differenza tra modelli, regimi, stili e tecnologie della rappre- sentazione. Sullo sfondo dello scenario mediale contemporaneo, alimentato da convergenze e indifferenze, il cinema può farsi valere come un’alternativa preziosa, anche se al costo di riaffermare ogni volta il proprio modo specifico di pensare la realtà attraverso l’immagine, di autenticarla e presentificarla; su questo sfondo, in breve, esso si impone – può imporsi, deve imporsi – per

differenza. Una differenza che, mentre testimonia implicitamente quella sfa- satura storica, mediale e antropologica per cui il cinema è ormai «cosa del

passato» (Debray), non organica alla visualità contemporanea, riafferma però, del cinema, alcune facoltà specifiche, rideclinandole opportunamente (e, in parallelo, alcuni bisogni che solo esso può soddisfare, dopo averli creati)13:

quella di ordinare l’esperienza, anche sensibile, della realtà, contro il regi- me della fluttuazione e della frammentazione, “affettivamente” – non solo referenzialmente – indifferente; quella di intercettare la realtà, e di intrec- ciarsi alla storia, attraverso strategie stilistiche e narrative che non giocano a illudere o a sostituirsi alla realtà, tra feticcio e simulacro, ma definiscono un luogo – reale e simbolico – di elaborazione del reale; quella di consegnare allo spettatore un pensiero della realtà attraverso l’immagine, evitando di appiat- tire la realtà sull’immagine, o di scioglierla in essa; quella, infine, di riportare (auto)riflessivamente a un problema che il cinema, più consapevolmente ed efficacemente di altri media, non può quasi mai aggirare o dare per scontato, soprattutto oggi: il problema dello sguardo e del possesso visivo della realtà.

Non è un caso, allora, che, come già aveva fatto Michael Moore in Fahren-

heit 9/11 (id., 2004), Kathryn Bigelow scelga di cominciare Zero Dark Thirty

oscurando ciò che considera l’inizio della storia, vale a dire l’attentato alle Torri Gemelle. Impone a quella tragedia tutta visiva e amatoriale, da eyewitness, uno schermo nero, luttuoso e ormai cieco, lasciando allo spettatore soltanto la traccia

12 Pietro Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il

mondo visibile, cit., p. XIII-XIV.

13 Cfr. Jean-Michel Frodon, Horizon cinéma. L’art du cinéma dans le monde contemporain

sonora di chi l’ha vissuta, da dentro e in diretta. Nel caso del film di Moore14,

l’oscuramento assumeva il senso di una vera e propria (auto)censura, tanto più sensibile all’interno di un lungometraggio documentario d’inchiesta; restavano solo le immagini di chi c’era, guardava, partecipava, respirava il fumo denso diffuso dal crollo, pregava, piangeva: in breve, le reazioni al crollo, a ciò che era stato appena visto. Nel caso di Zero Dark Thirty, quell’oscuramento iniziale non serve soltanto a evitare per l’ennesima volta quella specie di distrazione ipnotica che ha ormai svuotato di senso e “densità” le immagini del crollo; certo, come per Moore, quelle riprese segnatamente amatoriali vengono sottratte allo spetta- tore perché ormai avvertite come immagini che rimandano soltanto a se stesse, nonché come il simbolo di un’usura dello sguardo che ha annichilito la capacità di reagire all’immagine, svuotandone la richiesta e il potere. Nel caso del film di Bigelow – la quale, subito dopo, comincia il suo “lungometraggio di finzione narrativa” con una feroce sequenza di interrogatorio in “tempo reale” – si tratta anche di segnare, fin da subito, una differenza tra due modi dell’immagine, e tra due modi di raccontare per immagini la realtà e la storia. Come a dire: quel- la è la partenza, il modo in cui è stata contemporaneamente vissuta e guardata l’origine della storia, ma profondamente diverso sarà lo svolgimento di ciò che ne è conseguito, perché a un altro modo dell’immagine farà ricorso il film, nella fattispecie al potere e al valore della rappresentazione cinematografica; e, anche, che Zero Dark Thirty non sarà l’ennesimo film attorno a ciò che è stato visto, e visto in quel modo, ma esattamente il contrario: un dietro le quinte, un film su ciò che non è stato (ancora) visto, o su ciò che non si può vedere; e, insieme, da qui, un film sulla costruzione di uno sguardo – per tornare a Debray: sullo stare

davanti alle immagini, anziché nel flusso. Una rappresentazione, appunto, che

subito s’oppone alla nuda cronaca dei fatti, opportunamente oscurata (perché lì, in quell’eccesso di immagini, sta il principio della cecità contemporanea), e che introduce lo spettatore in un regime visivo e in un rapporto con l’immagine

14 Prima ancora dei film di Moore e Bigelow, l’oscuramento delle immagini dell’attentato

alla Torri Gemelle è al centro del cortometraggio diretto da Alejandro Gonzáles Iñárritu,

Mexico (Messico), contenuto nel film collettivo 11’09’’01 – September 11 (11 settembre 2001,

2002); anche in questo caso, la censura del visivo (con l’eccezione di pochi fotogrammi in cui si mostra il lancio nel vuoto delle persone rimaste intrappolate nelle torri del World Trade Center) è destinata a attirare l’attenzione sul sonoro, in cui si mescolano “racconto” americano e preghiera musulmana. Il corto ruota essenzialmente attorno all’opposizione simbolica tra le religiosità islamica dei terroristi, che fanno coincidere il loro sacrificio con l’ascesa verso il Paradiso, e la caduta dei corpi disperati degli “infedeli”.

(e, per suo tramite, con la storia) che riafferma subito, implicitamente, il ruolo

costruttivo e dispositivo del cinema nei confronti della realtà e dell’esperienza del

mondo, da opporre al trauma disordinato e intermittente che l’emorragia con- temporanea di registrazioni digitali, senza più luogo, spazio, tempo e sguardo, alimenta incessantemente ma, anche, indifferentemente.

Da un lato, del resto, c’è quel vuoto finale della storia – la fotografia della Situation Room – che può essere raccolto degnamente solo da una facoltà im- maginativa come quella del cinema: oscurare le immagini dell’attentato equi- vale anche a indicare una differenza sostanziale tra un modo denso di convocare la realtà e la fragilità di un’eccedenza visiva che finisce per chiudersi in se stessa. Perché tra questi due punti estremi, tra l’inizio e la fine della storia, ciò che manca non sono altre immagini, ma un racconto: quel vuoto finale sembra in- dicare la necessità di qualcosa che chiuda, e non soltanto di una nuova ondata di riprese e di testimonianze oculari che vadano più o meno disordinatamente a riempire, fino a soffocare, un malinteso desiderio di (provvisoria) partecipa- zione visiva; per chiudere la storia c’è bisogno sì di altre immagini, ma altre nel senso di diverse (per qualità, intenzione, disposizione) da quelle che hanno acceso il dramma storico e, contemporaneamente, la sua archiviazione visiva.

Altre immagini disposte in un racconto; e ciò significa, prima di tutto, l’ordine di una narrazione: così, anche per rafforzare una retorica realista e inaugurare subito uno spazio discorsivo in cui la realtà è indicata, rinviata, evocata e non semplicemente ripresa, Bigelow segna puntigliosamente luoghi e date (dà tempo e spazio), da quell’11 settembre 2001 fino al 1° maggio del 2011, quando i “canarini” (così viene chiamata la squadra speciale incaricata della missione finale) entrano nel rifugio di Bin Laden, passando per gli at- tentati di Londra del 7 luglio 2005, del Marriott di Islamabad del 20 settem- bre 2008, di New York (Times Square) del 1° maggio 2010 (e il passare dei giorni tra l’individuazione del compound in cui potrebbe risiedere Bin Laden e l’azione militare viene scritto dalla protagonista, in forma di protesta, sul vetro dell’ufficio del suo capo); così, per dare avvio a una relazione costruttiva – e sempre nei termini di una retorica degli “effetti di realtà” – con quanto indicato dalla frase su cui si apre il film («The following motion picture is

based on first hand accounts of actual events»), il racconto intreccia costan-

temente cronaca pubblica – i televisori accessi negli uffici e sintonizzati sui notiziari dei network televisivi e sulle dichiarazioni dei politici – e racconto finzionale da dentro e dietro le quinte, fino a un punto di massimo avvicina-

mento raggiunto nella scena in cui Maya (Jessica Chastain) siede all’interno del ristorante del Marriott attaccato nel 2008.

La ricerca di un ordine del discorso – dove a contare è soprattutto il secondo termine, vale a dire un’azione di riconfigurazione del tempo storico – trova però il suo luogo esemplare nella (ri)mediazione degli eventi da parte di un solo punto di vista – visivo, conoscitivo, emotivo –, quello di Maya, secondo una logica iperclassica che il film denuncia anche in termini di progressione drammaturgica, rispetto della consecutività temporale, impianto enunciativo ecc. Soprattutto – non poteva essere altrimenti – visivo, perché, come antici- pato, Zero Dark Thirty è anche, e necessariamente, un film imperniato sulla progressiva costruzione di uno sguardo o, meglio ancora, su un processo di avvicinamento dello sguardo alla realtà: se nella prima scena del film – quella della tortura di un prigioniero da parte di Dan (Jason Clarke) – Maya, appena giunta in Pakistan da Washington, ha abbassato più volte lo sguardo, fino a sen- tirsi domandare, una volta fuori, se preferisce seguire gli interrogatori successivi da un monitor, nel finale, prima di potersi sciogliere in un pianto liberatorio, Maya apre pudicamente il sacco in cui è stato chiuso il corpo morto di Bin La- den riportato dai “canarini”, e lo guarda; anzi, lo riconosce, confermando così, attraverso quel contatto visivo, che l’azione si è conclusa. E da qui, solo adesso, può davvero cominciare un’altra storia, quella – caricata ovviamente anche di valori politici, sociali, morali ecc. – di un pensiero della realtà mediato da una rappresentazione.

Poco prima, nella Situation Room da cui è stata sorvegliata, in diretta, l’azione dei “canarini” inviati a catturare Bin Laden, c’era ovviamente anche Maya, che ha seguito in silenzio ciò che veniva trasmesso dalle telecamere a infrarossi montate sui caschi dei militari; e solo in quel momento, mentre la sua “storia” si chiudeva e, con essa, il racconto ordinato di eventi, parole e azioni di Zero Dark Thirty, solo in quel momento il film ha cominciato davvero a funzionare, trovando il suo senso e la sua necessità, e inauguran- do un altro racconto o, meglio, un altro percorso, a ritroso, dentro dieci anni di storia e immagini (storia per immagini e immagini della storia); un percorso dell’immaginazione in cui il cinema fa la differenza, riportando idealmente, dall’epilogo del film, a quelle prime immagini censurate, per ricondurle a loro volta non soltanto a una storia resa finalmente leggibile a partire da un punto di vista, ma a una comprensione emotiva che scioglie finalmente quel trauma iniziale in un percorso passionale, fuori da ogni

ipnosi o anedonia contemporanea – solo adesso, insomma, si può piangere

davvero: come Maya, assieme a Maya, per Maya.

Zero Dark Thirty nasce per colmare idealmente il fuori campo della foto-

grafia che abbiamo analizzato, ma senza limitarsi a aggiungere un ennesimo scampolo di storia o un nuovo frammento di realtà all’“epica” dell’11 settem- bre; al contrario, approfitta di quella negazione per situare, lì dove non c’è niente da vedere (ma molto da immaginare), l’azione del cinema, partendo dalla fine per risalire il corso degli eventi, lasciando fuori, nel nero o nel non detto, tutto ciò che è già stato visto e consumato (e, insieme, un certo modo di vedere e consumare la realtà attraverso l’immagine), per consegnare in- fine allo spettatore un racconto – un percorso, un processo, un movimento orientato. L’importanza (e, insieme, la bellezza) del film di Kathryn Bigelow sta tutta in questa riaffermazione dell’azione – unica, specifica, storicamente sedimentata, culturalmente necessaria – del cinema all’interno della corni- ce mobile e evanescente della visualità contemporanea. In cui quella specie di “proibizione” testimoniata dall’immagine da cui siamo partiti può essere superata e colmata solo dall’azione del linguaggio, e da un modo dell’immagi- ne non sottomesso a un’ingenuità referenziale che scade immediatamente in indifferenza: perché in quel fuori campo non c’è semplicemente qualcosa di invisibile; piuttosto, c’è qualcosa che può e deve essere detto in un certo modo, qualcosa che attende di incontrare il suo linguaggio e la sua traduzione; a ben vedere, si tratta di un’occasione e di una richiesta, non di un divieto. In quel fuori campo c’è, tra le altre cose, la necessità di chiudere una storia e partorire un racconto; c’è il bisogno, dopo dieci anni di immagini, cronache, docu- mentari e film “sull’11 settembre”, di dare un senso e un ordine alla Storia. Compito difficile e necessario, che solo il cinema – ancora oggi, soprattutto oggi – può portare a termine.

La voce di un’era al termine.