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Redacted: lo squarcio nell’involucro

Redacted, di quanto detto finora, è un esempio che costituisce formalmente

un manifesto programmatico, nel senso che è la stessa forma estetica del film a rivendicarne ostentatamente il significato di riflessione visuale sulla Guerra al Terrore tout court, sulla Guerra d’Iraq nello specifico e, per certi versi, sul cinema contemporaneo, quanto meno nella sua declinazione intermediale34.

Non si vuole tuttavia insistere sull’impianto radicalmente “meta-” del film, al contempo inclassificabile opera filmica in quanto complessa operazione di collazione linguistica, rimarcando ulteriormente come De Palma realizzi, fa- cendosi spazio nell’attuale baraonda immaginifica, un esperimento «di grande riciclaggio in cui il cinema si carica il peso di una rappresentazione e riafferma una sua rinnovata e ripensata centralità»35. Bensì, fornirsi di Redacted come di

un passepartout con cui accedere, tramite vari ingressi, al sistema dei media a partire dal quale si profila oggi la rappresentazione del conflitto, uno sfondo, quello mediale, in cui vengono stabilite le condizioni per l’azione degli operatori

di visibilità contemporanei e in cui si aprono alcune questioni centrali che ani-

mano le attuali dispute sorte intorno all’immagine, volte a regolarne le politiche comunicative e a verificare la salute del suo statuto testimoniale.

In alcuni puntuali contributi che si sono occupati di Redacted, del resto, è già stato dato rilievo alla necessità di dover fare i conti con una forma quasi liminare della rappresentazione cinematografica, un film che, al di là dello spregiudicato lavoro sul mezzo che conduce, cova la chiara ambizione di darsi come sintesi di un più generale campo discorsivo che elegge la realtà del con- flitto a banco di prova dove testare la prestazione referenziale delle odierne im- magini mediali, un campo solcato da alcune questioni che, come traiettorie oblique, trovano nell’opera di De Palma un caldissimo punto di incidenza36.

34 Pietro Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il

mondo visibile, Laterza, Roma-Bari, 2010.

35 Franco Marineo, La fragile soglia: la responsabilità dello sguardo tra realtà e finzione in

Redacted e Standard Operating Procedure, in Manolo Farci, Simona Pezzano (a cura di),

Blue Lit Stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura, Mimesis, Milano-Udine,

2009, p. 152.

36 Tra gli altri, Christian Uva, Schermi di guerra: l’Iraq e le immagini del terrore, in Il

terrore corre sul video, Rubettino, Soveria Mannelli, 2008; Franco Marineo, La fragile soglia, cit.; Pietro Montani, La funzione testimoniale dell’immagine e L’immaginazione intermediale, cit.

È questo il terreno che si vuole esplorare, facendo del film un osservatorio privilegiato da cui partire, più che un oggetto in cui entrare con sguardo analitico, convocando all’occorrenza una serie di altri prodotti audiovisivi (di finzione e non) che, di alcuni spunti offerti da Redacted, costituiscano dei rimandi consonanti e chiarificatori.

Scritto e diretto da Brian De Palma, più volte citato come remake di un film precedente del regista, Casualities of War (Vittime di guerra, 1989), il film viene presentato alla 64ª Mostra del Cinema di Venezia, dove è premiato con il Leone d’Argento per la migliore regia. Costato cinque milioni di dollari e distribuito in sole quarantanove sale negli Stati Uniti, ne incassa solo sessan- tacinquemila: risultato deludente, tuttavia non dissimile dalla quasi totalità di film statunitensi girati sulla Guerra d’Iraq durante il suo corso, che, con l’eccezione – a dire il vero relativa – di The Hurt Locker (id., Kathryn Bigelow, 2008), sono risultati un vero e proprio box office poison37.

La vicenda su cui il film si concentra è relativa a un fatto di cronaca realmen- te accaduto nel 2006 e orbita attorno ad alcuni militari statunitensi, di stanza presso un checkpoint a Samarra, in Iraq, che violentano a turno una quindicenne e, dopo aver ucciso lei e i componenti della sua famiglia, ne bruciano il corpo. Com’è noto, ciò che rende il film un inesauribile spunto di riflessione e, al con- tempo, ciò che ha probabilmente contribuito a renderlo piuttosto inadatto alla circolazione in sala, sono principalmente le sue modalità di rappresentazione:

Redacted è un film di finzione, pensato però come un «potpourri iconico»38, un

«involucro mediale»39 costituito dal montaggio di immagini eterogenee, cioè

prodotte tramite differenti dispositivi tecnici e riconducibili a molteplici fonti audiovisive (che De Palma è stato costretto a riprodurre digitalmente dopo es- sere stato dissuaso dall’idea di impiegare materiali originali); un mosaico che

37 Così in Martin Barker, A Toxic Genre. The Iraq War Films, Pluto Press, London, 2011,

p. 1, citando Bill Everhart, Summer Comes Earlier to Movie Season, «The Berkshire Eagle», 1 May 2009. Il libro di Barker è il risultato di uno studio condotto su un campione com- posto da una ventina di film, prodotti e distribuiti negli Stati Uniti durante la Guerra d’Iraq. Nella fattispecie, lo studio rivela che l’andamento generale degli incassi è piutto- sto basso, in alcuni casi desolante, praticamente sempre inferiore ai costi di produzione. Come detto, fa parziale eccezione The Hurt Locker costato undici milioni di dollari, ne ha incassati dodici e mezzo.

38 Christian Uva, Schermi di guerra, cit., p. 117.

allude, fagocitandole al suo interno, alle disparate vesti di cui si adorna oggi l’immagine nell’arena del conflitto.

Barrage, documentario girato da una troupe francese, costituisce così il

livello della rappresentazione cinematografica che ci si aspetterebbe più re- ferenziale, pudico, asciutto, documentaristico appunto, quando invece finisce per connotare ciò che inquadra (la monotonia esasperante di un posto di blocco) con una pletora di eccessi e banalità estetizzanti, tra cui la fotogra- fia patinata, ingombranti commenti musicali extra-diegetici (Haendel), una didascalica voce fuori campo. Le riprese delle emittenti televisive, due locali e una internazionale, costituiscono i resoconti dell’informazione ufficiale, re- alizzati in loco ma sottostando alle regole dell’infotainment, la mescolanza di informazione e intrattenimento di cui si nutre l’autopromozione televisiva; all’opposto, i filmati registrati dal soldato Salazar con la sua videocamera – apparecchio che egli punta sovente contro se stesso, fino a registrare, sebbene involontariamente, il proprio rapimento – rimandano al punto di vista dei soldati, produttori inesauribili di immagini situate in una prospettiva interna al conflitto, che contribuiscono alla sua messa in forma a partire da spazi d’azione collocati fuori dai canali ufficiali, riservati a coloro che, del conflitto, possono vantare un’esperienza diretta e quotidiana.

Inoltre, le immagini elaborate dagli strumenti ottici montati sugli elmetti dei militari (si pensi alla scena dello stupro) riproducono l’effetto, spettrale e fantascientifico, delle videocamere ad alta densità, eredità degli spettacolari bombardamenti notturni che illuminano i cieli Baghdad la notte del 17 gen- naio 1991: espediente hi-tech, rispolverato nel salvataggio del soldato Jessica Lynch, rapita in Iraq durante un’imboscata e liberata con un’azione nottur- na condotta a favor di telecamere (1 aprile 2003), scelto anche dalla regista Kathryn Bigelow in Zero Dark Thirty (id., 2013) per costruire la sua personale visualizzazione del “fantasma” Osama bin Laden, abbattuto durante l’attacco al compound di Abbottabad, in Pakistan, la notte del 2 maggio 2011.

E ancora, le immagini delle videocamere di sorveglianza che disincar- nano lo sguardo, portando la visione a ridosso della neutralità tecnica, dove si fa asettica e orfana di ogni dubbio, limitata a registrare ciò che incontra per trasformarlo in accertamento, in un dato probatorio; infine, quelle dei colloqui via webcam tra familiari e soldati, ma soprattutto, i video postati in rete dal terrorismo jihadista, ingombrante inquilino dell’immaginario post- 11 settembre, che tra rivendicazioni, testamenti, decapitazioni, ha contribuito

a elaborare e diffondere quello che Adriana Cavarero ha opportunamente definito orrorismo: un termine che rimanda non solo «all’ovvia assonanza con il termine terrorismo ma, prima ancora, al bisogno di sottolineare quel tratto di ripugnanza che, accomunando molte scene della violenza contemporanea, le ingloba nella sfera dell’orrore piuttosto che in quella del terrore»40.

Non c’è un’unica traiettoria che filtra e gerarchizza i vari materiali – a dif- ferenza di Vittime di guerra, che, con una struttura narrativa decisamente più convenzionale, ripercorre una trama non dissimile ma seguendo il punto di vista di un unico protagonista, soldato in Vietnam: Redacted è un film a vocazione impersonale, che rinuncia al racconto diretto dei fatti e privilegia il raffronto tra i rispettivi residui mediali, rendendo impossibile quindi ogni identificazione spettatoriale. L’unico squarcio che si apre nell’involucro è composto dalle imma- gini conclusive del film – fotografie, vere, di cadaveri sfigurati, corpi di bambini dal volto annerito con un pennarello – che, accompagnate dalla celebre aria pucciniana E lucevan le stelle, spingono il confronto intermediale promosso dalla finzione filmica a «ritrovare, se possibile, il mondo reale»41. Ma solo dopo aver

preso di petto alcuni temi cruciali che, dell’immaginario bellico edificato dopo l’11 settembre, costituiscono la testata d’angolo. Tra questi ne sono stati isolati tre, scelti in forza del loro valore preminente.

Il primo tema è costituito dal rapporto che intercorre tra la proliferazione degli

operatori di visibilità del conflitto e la formulazione di principi di intelligibilità delle sue rappresentazioni. È la costante visuale del punto di vista, del “chi vede”,

che il film di De Palma esaspera fino al parossismo. Un “chi vede” che, chiaria- mo subito, è duplice: da una parte indica un chi vede la guerra e la riproduce in

immagine, dall’altra evoca un chi vede ciò che della guerra è stato riprodotto.

Se infatti torniamo al paradigma della mediatizzazione bellica e ci ponia- mo in un’ottica di lettura comparativa tra le due guerre combattute dagli Stati Uniti in due decadi diverse ma nello stesso territorio (e contro lo stesso ne- mico) emerge chiaramente come negli anni Novanta, all’avvento delle televi- sioni e dell’informazione in tempo reale, inizialmente salutato come il primo passo verso la formazione di un’inedita consapevolezza globale e di un’opi- nione pubblica internazionale, sia in realtà corrisposta l’esclusiva presenza nel

40 Adriana Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano,

2007, p. 41.

conflitto di fonti televisive occidentali, vettori di una mediatizzazione presso- ché unilaterale degli eventi, esercitata attraverso la relativa rappresentazione per immagini. La CNN, per esempio, emittente televisiva fondata ad Atlanta nel 1980, tramite il volto e le parole del suo inviato sul luogo, Peter Arnett, si impone immediatamente come detentore quasi esclusivo delle comunicazioni dal Golfo, tanto che nella sua scia si delinea quell’effetto CNN42 che accende

il dibattito circa il ruolo dei media occidentali nei teatri di conflitto per tutti gli anni Novanta.

D’altro canto la pluralizzazione e l’eterogeneità dei punti di vista cui lo scenario mediale apre nella seconda fase della mediatizzazione solleva invece una multiforme massa di interventi. Non è più soltanto la CNN, dieci anni dopo, a definire la prospettiva della rappresentazione bellica, poiché concorre alla copertura informativa una grande compagine di reti satellitari all news occidentali, cosi come di emittenti che operano sulla base di riferimenti cul- turali e di interessi, politici ed economici, non più occidentocentrici, renden- do così irreversibile la relativizzazione della gestione oligopolistica e unilate- rale dell’informazione. Ma, a ben vedere, è più in generale la televisione stessa a dover ripensare il suo ruolo in un mediascape sempre più affollato, in cui, a seguito della diffusione esponenziale di dispositivi adibiti alla cattura e alla riproduzione di immagini, agiscono differenti media, istituzionali e non, e si mobilitano audience di ogni tipologia ed estrazione, che vengono a definire differenti prospettive di lettura del conflitto.

Come dunque mostra emblematicamente Redacted, in gioco non c’è solo la pluralità dei punti di vista, naturalmente legata alla moltiplicazione dei soggetti dediti alla rappresentazione del conflitto, ma anche la tipologia stessa di tali soggetti, a causa di una forte eterogeneità di operatori che promuovono attivamente la diffusione di contenuti visuali del conflitto, sebbene possano

42 Steven Livingston, Clarifying the CNN Effect: An examination of Media Effects According

to Type of Military Intervention, Joan Shorenstein Center on Press, Politics and Public Policy,

Harvard University, Cambridge, 1997, http://www.genocide-watch.org/images/1997Clar ifyingtheCNNEffect-Livingston.pdf. La definizione dell’effetto, così come le sue moda- lità operative e i contesti in cui prende forma, sono stati oggetto di dibattito per tutti gli anni Novanta. In questa sede basti ricordare come l’effetto consista nell’opinione secon- do cui le crisi messe in evidenza dai telegiornali globali in tempo reale siano in grado di dominare l’agenda della politica estera degli Stati occidentali. Gli interventi in Somalia, Bosnia-Erzegovina e Rwanda non hanno però confermato l’efficacia dell’effetto teorizzato da Livingston. Philip Hammond, Media e guerra. Visioni postmoderne, cit., pp. 63-90.

vantare un controllo del tutto relativo sui materiali prodotti una volta che questi vengono immessi nella rete.

Ed è proprio a questo livello che si apre la questione della duplicità del chi

vede, dell’emersione dell’altro sguardo, quello dello spettatore della guerra,

che determina le sue considerazioni a partire dalle immagini che gli perven- gono. Il risultato, in questa prospettiva di eterogenea e affollata produzione di materiali visivi, è che si scoprono messi in crisi i principi stessi di intelligibilità delle immagini come strumenti utili alla comprensione del conflitto. Ne con- segue una stato legittimamente confusionale: si può guardare la guerra senza sentire le voci che la raccontano, dimenticandosi di cos’è immagine l’imma- gine che si sta guardando, senza riflettere più sul nesso che intercorre tra fatto e rappresentazione, ma lasciandosi pervadere, rimanendo abbacinati più che

sgomenti, dall’immagine bellica in quanto tale, come pura esperienza visiva.

Da questo stadio di insaziabilità di immagini dovuta a un’esposizione me- diale intensa, fragorosa, spesso privata di una critica educazione allo sguardo, che può incorrere anche in visioni contraddittorie (le Torri Gemelle crollano in modo diverso nel telegiornale prime-time o in un video di rivendicazione di Al Qaeda) deriva, quale pendant percettivo, la possibilità di approdare a uno stato di paradossale accecamento, inteso come difficoltà di comprendere, di fare ordine, come sostanziale incapacità di ri-accordarsi con il reale poiché assuefatti dai suoi riverberi, una noncuranza relativa al senso di ciò che si guarda, diluito nella sovrabbondanza delle sue rappresentazioni.

L’11 settembre è un caso emblematico nel definire il passaggio dallo stadio

onnivoro alla stato di accecamento da immagini: la molteplicità, in termini quan-

titativi e qualitativi, di operatori di visibilità attivi nella copertura dell’evento sol- lecita il rischio di questa peculiare forma di cecità da eccesso, caratterizzata da un’esperienza spettatoriale apneica, dopata con un esorbitante sovraccarico delle stesse immagini esibite sugli schermi come mantra ipnotici. Tanto che il cinema, in particolare due film ispirati all’evento e realizzati a poca distanza da esso, ha preso le mosse proprio da un metaforico black-out: come a seguito di un corto-circuito, ha deciso di non mostrare più le immagini delle Torri, di rimandare al fatto ma di non farlo vedere, cercando modalità possibili della rappresentazione audiovisiva capaci di ritrovare la realtà a partire da questo esonero.

Così Fahreneit 9/11 (id., Michael Moore, 2004), Palma d’oro al 57° Festi- val di Cannes, documentario di montaggio nel tipico stile del regista, come pure il segmento a firma di Alejandro González Iñárritu, del sopraccitato film

corale 11 settembre 2001, optano per una negazione: entrambi si rivolgono in modo esplicito alle immagini del crollo, entrambi scelgono però di ricu- sarle, oscurando lo schermo, eliminando ogni ascendenza spettacolarizzante dell’accaduto, alternando al nero alcuni dettagli, come i volti sgomenti e i corpi feriti di chi osserva (nel film di Moore) o improvvisi lampi di luce in cui riconoscono le silhouette dei jumpers librarsi nell’aria (nel film di Iñárritu).

Il tentativo è promuovere uno sforzo di rielaborazione che disinneschi gli effetti anestetizzanti che le immagini delle Torri crollanti possono innescare, facendo appello a una dimensione patemica non ancora elaborata in forma di senso. Ma il tentativo è anche partire, anzi ri-partire, da una rimozione, da qualcosa di in- visibile perché interdetto. Così come imposto dagli Stati Uniti dopo l’uccisione di Osama bin Laden, l’uomo che, per dieci anni, è stato un oggetto globale così attraente da averne reso necessario l’occultamento postumo, divenuto, appunto, un corpo negato, rimosso allo sguardo, che pare giacere sul fondo dell’oceano per le conseguenze che avrebbe causato la sua esposizione mediatica, o l’istituzione, per esso, di un luogo di pellegrinaggio. Corpo di cui a mancare è stata la salma, sua ultima immagine, quasi un contrappasso rispetto alla memorabile parabola iconica che l’ha visto protagonista per un intero decennio43.

Il secondo tema consiste invece in un’impennata produttiva di contributi

amatoriali e nella loro integrazione nei circuiti mainstream dell’intrattenimento e dell’informazione. Nell’inventario mediale di Redacted, lo si è notato in pre-

cedenza, sono presenti molti contributi che afferiscono a un livello amatoriale della produzione di immagini: novità a suo modo epocale, tratto distintivo della Guerra d’Iraq rispetto ai conflitti che hanno avuto luogo prima dell’11 settembre. Va tuttavia specificato che da sempre le possibilità offerte dalla riproducibilità tecnica hanno giocato un ruolo fondamentale nel contesto bellico, proprio incentivando una consistente produzione di immagini ama-

toriali (come fattura) o private (come possesso/fruizione) divenute presto una

presenza costante nella riproduzione fotografica della guerra44.

Tuttavia, nell’attuale sistema dei media, si manifesta una scarto decisivo

43 Si rimanda ad Alessandro Amadori, Bin Laden. Chi è, cosa vuole, come comunica il pro-

feta del terrore, Scheiwiller, Milano, 2002; Christian Uva, Le puntate del serial, in Il terrore corre sul video., cit., pp. 81-98; Federica Villa, Lorenzo Donghi, Autoritrattistica Osama bin Laden, «Comunicazioni sociali», 3, 2012, pp. 459-468.

44 Janina Struk, Private Pictures. Soldiers’ Inside View of War, I. B. Tauris, Londra-New York,

rispetto al passato. Se da una parte infatti viene messa in discussione la logica binaria che, collocandoli su sponde opposte, distingue convenzionalmente l’amatore dal professionista – figure oggi piuttosto rintracciabili lungo un

continuum sfumato45– dall’altra emerge un totale ripensamento dell’univer-

so del privato, quindi dei suoi contorni, ridefinizione che si esprime con la trasformazione della memorialistica letteraria e della compilazione di album fotografici, attività tipiche nelle guerre otto-novecentesche, in pratiche me- diali volte all’ostensione di sé, divenuto materiale d’allestimento per le vetrine di una dimensione social che, anche nel conflitto, diviene sempre più globale, interconnessa e visuale, arrivando così a conferire, all’immagine amatoriale e a quella privata nel suo farsi pubblica, il ruolo di potenti e inediti agenti che influiscono sull’immaginario di una guerra nel suo corso.

Torniamo allora agli anni Novanta, quando la fitta cooperazione tra i fautori della guerra e gli incaricati della sua rappresentazione mediatica fa in modo che persino i piani di battaglia siano formulati in modo da tenere conto delle necessità produttive della televisione: viene così a stabilirsi una simbio- tica convergenza tra gli interessi dei network delle comunicazioni, motivati ad aumentare l’appeal dei propri palinsesti, e quelli dei promotori del conflit- to, che riconoscono nell’immagine un alleato insostituibile quando possono piegarla a una copertura controllata degli accadimenti. È pertanto evidente come, operando su queste basi, la grande maggioranza di materiali che giun- gono dal Golfo sia di matrice ufficiale, istituzionale, vagliata da giornalisti e garantita da fonti accreditate. In estrema sintesi, si può quindi dire che, in questa prima fase, la direzione assunta dai prodotti mediali al loro ingresso nel sistema dei media coincide con quella che Henry Jenkins ha definito top-

down, cioè un movimento che, dall’alto, fa ricadere sull’immaginario collet-

tivo le informazioni selezionate da un numero limitato di decisori46.

Dopo l’11 settembre, i sensi di marcia che caratterizzano la viabilità mediale dei contenuti diventano almeno due, a flussi di immagini provenienti dall’al- to, certo ancora largamente protagonisti, si mischiano quelli che procedono in

45 Stuart Allan, Amateur Photography in Wartime: Early Histories, in Kari Andén-