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Griffith, ovvero: rimettere ordine

Se c’è un elemento che caratterizza il cinema dell’era Obama, dicevamo all’ini- zio, non è il racconto della crisi economica. Evidentemente, l’impatto maggiore che l’investitura del primo afroamericano alla guida degli Stati Uniti ha avuto su Hollywood come sul mondo è stato rispetto alle questioni etniche. Così, qualcuno potrebbe semplicisticamente identificare il cinema dell’era Obama come quell’insieme di produzioni che trattano questioni legate al razzismo o in generale vicende che intrecciano la storia del paese a quella di alcune minoranze discriminate. Non a caso Scott riprende da un articolo di James Hoberman12

Eckhart) in Thank You for Smoking (id., Jason Reitman, 2005): Jeff Megall: «Sony has a futuristic sci-fi movie they’re looking to make»; Nick Naylor: «Cigarettes in space?»; Jeff Megall: «It’s the final frontier, Nick»; Nick Naylor: «But wouldn’t they blow up in an all oxygen environment?»; Jeff Megall: «Probably. But it’s an easy fix. One line of dialogue. “Thank God we invented the... you know, whatever device”». La necessità di ricorrere agli accorgimenti di cui il film di Reitman si prende gioco è ovviamente figlia di una maggiore diffidenza da parte del pubblico e di una soglia più alta per la sospensione d’incredulità.

12 James Hoberman, A New Obama Cinema?, «The New York Review of Books», 11

February 2012, leggibile online all’indirizzo http://www.nybooks.com/blogs/nyr- blog/2012/feb/11/new-obama-cinema-clint-eastwood-halftime/

l’idea che un film come Milk (id., Gus Van Sant, 2008), per quanto carat- terizzato da un finale tragico, rappresenti una di quelle opere che anticipano l’elezione di Obama attraverso «a political symbol of hope»13.

Da un lato si hanno quindi pellicole come The Help (id., Tate Taylor, 2011),

12 Years a Slave (12 anni schiavo, Steve McQueen, 2013) e soprattutto The Butler

(The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca, 2013) il film di Lee Daniels che nasce sulla scia del successo di Precious (id., 2009) e che si pone, in questo senso, come manifesto di una rinnovata tendenza del cinema hollywoodiano resa possi- bile grazie al peso simbolico della figura di Obama, nel film interpretato da Or- lando Eric Street dopo alcuni tentativi da parte di Daniels di avere il presidente in persona nel ruolo di se stesso. Accanto a questo filone che con La Polla potremmo chiamare quello delle «innumerevoli pellicole americane che nei decenni hanno titillato i nostri buoni sentimenti senza muovere un dito non dico per cambiare le cose (compito che non è del cinema, e meno che mai di quello hollywoodiano), ma nemmeno far comprendere al pubblico i veri termini del problema agitato»14, il

tema della storia degli schiavi e dei loro discendenti negli Stati Uniti è al centro di altre opere, prima tra tutte, ovviamente, Django Unchained (id., 2012) di Quentin Tarantino. Se i film di Taylor, McQueen e Daniels sembrano adagiarsi su un mo- dello di racconto consolidato15, trasparente e patinato, l’operazione di Tarantino

appare interessante anche solo per il modo in cui tiene conto dell’irruzione della Storia all’interno del sistema retorico e stilistico del suo cinema, che ancora nel film precedente, Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria, 2009) era in grado di piegare il fatto assodato al potere immaginifico dell’autore cinematografico.

Per quanto operi secondo canoni ancora manifestamente postmoderni, pro- prio da Bastardi senza gloria, immettendo il dato storico all’interno di un sistema puramente autoreferenziale come era stato il suo cinema fino a quel momento, Ta- rantino denuncia in qualche modo la limitatezza del postmoderno come categoria storica prima che stilistica. L’Adolf Hitler di Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata, Steven Spielberg, 1989), che compare di fronte a

13 A. O. Scott, Movies in the Age of Obama, cit. Il film, com’è noto, racconta parte della

vita di Harvey Milk, primo omosessuale dichiarato eletto negli Stati Uniti e successiva- mente assassinato.

14 Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino,

1999. Nel saggio, La Polla parla nello specifico di Amistad (id., Steven Spielberg, 1997).

15 Nel caso di McQueen, poi, sorprendentemente, dal momento che l’autore viene dalla

videoarte e da due lungometraggi controversi animati da una volontà di ricerca non in- differente: Hunger (id., 2008) e Shame (id., 2011).

Harrison Ford per donargli un autografo come una sorta di inquietante rockstar, è evidentemente un’interpretazione del Führer, un Hitler reinventato in favore di camera che, per quanto stravagante, non è però controfattuale, non confligge di- rettamente con l’evento storico ma è anzi messo sullo stesso piano, lui e tutta la ricostruzione del mondo nel 1938, di una vicenda immaginifica che prende le mosse da una delle narrazioni che si pongono all’origine della letteratura occiden- tale come i miti arturiani, le cui tracce non a caso si trovano anche in cronache come l’Historia Brittonum, gli Annales Cambriae o l’Historia Regum Britanniae. La confluenza e sostanziale permeabilità di miti fantastici e fatti storici è il fulcro del progetto culturale dello Spielberg di quegli anni, alfiere del postmoderno cine- matografico che poco dopo Indiana Jones e l’ultima crociata, con Schindler’s List (id., 1993), sembrerà intraprendere una nuova strada, lontana dalla «meraviglia della fantasia, che aveva sostanziato pressoché ogni sua pellicola (persino, in taluni momenti, […] opere di sofferenza come Il colore viola e L’impero del Sole)»16. In

questa breve scena sta tutta la leggerezza e al contempo la densità del postmoder- no spielberghiano, lontane dal più radicale mashup di Quentin Tarantino, che da

Reservoir Dogs (Le iene, 1992) a Death Proof (Grindhouse – A prova di morte, 2007)

rimaneggia esclusivamente materiale direttamente finzionale, e anzi quasi esclusi- vamente cinematografico.

Concludendo Bastardi senza gloria con l’omicidio di Hitler da parte di un commando fantasma americano, Tarantino crea invece un discrimine troppo ampio tra il racconto finzionale e il reale svolgersi degli eventi, al punto che lo spettatore non solo non potrà sostituire, a livello di immaginario, come spes- so accade, la versione cinematografica (o in generale narrativa) di un fatto con la ricostruzione documentata del fatto stesso (si pensi, tra i molti esempi che si possono fare, proprio ai citati film storici di Spielberg degli anni Novanta), ma sarà costretto a prendere atto della differenza tra l’opera filmica e ciò che egli conosce della fine di Hitler e della Seconda guerra mondiale, in nessun caso compatibile con ciò che Tarantino propone. Siamo, in questo caso, ben oltre l’ammiccamento postmoderno, e anzi siamo lontani da un’idea di post- moderno ortodossa: l’invenzione pura diviene strumento anti-postmoderno. Ribadendo che anche questo suo film è invenzione pura e allontanandosi così tanto da ciò che qualsiasi spettatore sa essere accaduto, Tarantino lo riafferma,

16 Franco La Polla, Steven Spielberg, Il Castoro, Milano, 1995, p. 125; The Colour Purple

ne esplicita l’esistenza al di fuori del suo orizzonte di racconto e rappresenta- zione. È quello che Umberto Eco chiamerebbe un realista negativo, in oppo- sizione a quel «primato ermeneutico dell’interpretazione»17 che caratterizza

il postmodernismo filosofico e che ha, evidentemente, anche delle ricadute sul modo in cui il cinema postmoderno ha rappresentato fatti, personaggi, scenari del passato e del presente soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, da Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta, Steven Spielberg, 1981) a Titanic (id., James Cameron, 1997). Se l’11 settembre 2001 ha, come si è detto, influenzato il modo in cui il cinema americano è venuto a patti con il postmoderno prima di tutto come modo di guardare la Storia, l’elezione di Obama, specialmente riguardo alle delicate tematiche razziali, funziona anch’essa come punto di svolta. È evidente, infatti, come l’apparizione del presidente alla fine di The Butler si ponga in opposizione a quella già citata concezione ciclica che caratterizza un’opera alla quale Daniels evidentemente s’ispira, ovvero Forrest Gump. Obama sembra dare un senso, una direzione, un fine all’esistenza del protagonista così come di tanti altri afroamericani.

Nel caso di Django Unchained, ambientato pochi anni prima lo scoppio della Guerra di Secessione, le ambizioni di Tarantino sono ancora maggiori: se apparen- temente il film è edificato ancora su quel polimorfismo frammentato tipicamente postmoderno, contiene in sé momenti che vanno oltre la rivisitazione ironica e non innocente del passato e si propongono come gesti radicali, che il passato lo sfigurano apertamente18. Nella scena in cui i cavalieri del Klan circondano il carro

del dottor Schultz, per esempio, la citazione da The Birth of a Nation (Nascita di

una nazione, 1915) è palese. Se nello Spielberg di Indiana Jones vengono meno le

gerarchie tra Chrétien de Troyes e Howard Hawks, qui il referente viene esplicitato e alterato: la cavalcata dei cavalieri è interrotta, del tutto gratuitamente e piutto- sto bruscamente, da una scena apertamente parodica, à la Mel Brooks, in cui i cavalieri discutono dei buchi nei loro cappucci e si dimostrano, sostanzialmente, degli idioti. Questa breve scena, inserita nel bel mezzo di un’azione spezzandone il

climax, funziona come un inceppamento, una scelta che va manifestamente con-

tro le immagini di Nascita di una Nazione e al loro valore fondativo, contro quel montaggio alternato che simbolicamente sta alla base dell’impianto retorico del

17 Umberto Eco, Cari filosofi è l’ora del Realismo Negativo, «La Repubblica», 11 marzo

2012. Leggibile online all’indirizzo http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/re- pubblica/2012/03/11/umberto-eco-cari-filosofi-ora-del-realismo.html

cinema americano. Invece che due azioni contemporanee che finiscono per con- fluire, Tarantino accosta due momenti lontani nel tempo, l’uno, il flashback stra- niante, inserito per disinnescare la forza spettacolare dell’altro, l’aggressione degli uomini a cavallo. Per Tarantino, dunque, ciò che in Bastardi senza gloria finiva per essere disgiunto con violenza (la Storia e la finzione cinematografica), qui risulta congiunto al punto che, per affrontare il tema del razzismo, della discriminazione, dello schiavismo, Tarantino sembra volere ridiscutere il modello di racconto che a lui appare inscindibile da un’ideologia razzista e colonialista che da Griffith passe- rebbe attraverso Ford per arrivare fino a oggi19. Siamo su posizioni opposte rispetto

all’idea di Scott per cui la forza mitopoietica del cinema avrebbe avuto un ruolo centrale nell’elezione di Obama. Al contrario, l’elezione di Obama sembrerebbe offrire la possibilità di una riscrittura del cinema americano a partire addirittura dalle sue fondamenta, regolando i conti con un passato in maniera così radicale e critica da andare molto oltre quello che si definisce postmoderno in rapporto al ci- nema americano degli anni Ottanta e Novanta e insieme facendo piazza pulita del politicamente corretto e delle buone intenzioni non realizzate che caratterizzano i tre film citati sopra20.

Un discorso esplicitamente politico che si intreccia a una riflessione profonda sul dispositivo e sul linguaggio è anche quello di Clint Eastwood, che a parti- re dagli anni del secondo mandato di Bush realizza alcuni film che guardano apertamente a immaginari consolidati, a simboli, icone del Novecento. Capita con Flags of Our Fathers (id., 2006) e Letters from Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima, 2006), dedicati alla Seconda guerra mondiale, per arrivare alle figure di Nelson Mandela in Invictus (Invictus – L’invincibile, 2009) e di J. Edgar Hoover in J.

Edgar (id., 2011). Non solo: a manifestare «l’intenzione di Eastwood di fare i

conti con la storia recente»21 sono anche le immagini dello tsunami che aprono

Hereafter (id., 2010) e l’accenno agli attentati terroristi a Londra del luglio 2005

nello stesso film. L’aldilà che nel film riusciamo a intravvedere è, per i personag-

19 A proposito dell’idea, chiara nel film, per cui le colpe ideologiche di quel cinema non

possono essere separate dall’apparato retorico che le sostiene, si veda la lunga intervi- sta del regista al sito The Roots: Henry Louis Gates Jr., Tarantino ‘Unchained,’ Part 1:

‘Django’ Trilogy?, «The Root», 23 December 2012, http://www.theroot.com/articles/hi-

story/2012/12/django_unchained_trilogy_and_more_tarantino_talks_to_gates.html/

20 Va detto che la messa in discussione delle premesse ideologiche su cui si fonda il cinema

americano non coincide, nel film, a una piena rimozione dell’immaginario western clas- sico da cui invece Tarantino si sente libero di attingere a piene mani.

gi, una possibilità di tornare indietro, a cercare volti e fatti che appartengono al passato. È qui che si stabilisce, complice Dickens (che tramite Griffith è figura fondamentale per la definizione estetico-narrativa del cinema hollywoodiano, per Ėjzenštejn)22, una metafora lampante del cinema dello stesso Eastwood e più

in generale del cinema americano contemporaneo. Il regista, con i suoi perso- naggi, è lacerato tra la propria natura, quella di poter frequentare un “oltre” che è poi lo spettro del cinema americano passato, e la necessità di andare avanti, di vi- vere qui e ora, in un mondo in cui i traumi dello tsunami e quello dell’attentato londinese rimandano ovviamente a quella soglia che è stato l’11 settembre 2001. Il tema per eccellenza del cinema eastwoodiano, quello del revenant, declinato in più e più modi lungo quarant’anni di carriera, è qui esposto in maniera diversa rispetto al solito: non metaforizzato, reso esplicito, ma al contempo lontano, appartenente a un altrove irraggiungibile, contritamente ai travasi tra mondo dei vivi e mondo dei morti suggeriti da molti film precedenti dell’autore. Questo per- ché in un orizzonte mitico il ricongiungimento con il passato è possibile (si pensi per esempio al finale di Unforgiven [Gli spietati, 1992], quando Munny sembra ritrovare la ferocia e la mira di una volta, «come se […] arrivasse da un tempo primitivo e arcaico che precede la storia e le convenzioni di genere»)23, mentre in

Hereafter, che nonostante l’apertura al trascendente (o proprio in virtù di essa)

esprime una filosofia radicalmente materialista, di fronte alla cieca crudeltà della natura o all’imprevedibilità folle dell’uomo, il racconto cede il passo all’evidenza del fatto. È importante notare, come fa Pezzotta, che nel film sono trattati molto diversamente la sciagura naturale («Eastwood sceglie di rappresentare lo tsunami iniziale con tutto il realismo allucinante permesso oggi dagli effetti digitali»)24 e

l’attentato terroristico che richiama l’“irrappresentabile” 11 settembre:

La rappresentazione dell’attentato terrorista è ridotto a un botto e a una fiammata che esce da una galleria. L’orrore della natura appartiene pur sem- pre alla sfera del sublime che, kantianamente, ribadisce la nostra finitezza. Mentre la morte inflitta dall’uomo all’uomo va oltre ogni logica ed è molto

22 Sergej M. Ejzenstejn, Dikkens, Grifit i my, in Griffit, Moskva, Goskinoizdat, 1944

(tr. it Dickens, Griffith e noi, in Sergej M. Ejzenstejn, La forma cinematografica, Einaudi, Torino, 1999, pp. 204-266).

23 Guglielmo Pescatore, Gli spietati, in Giulia Carluccio (a cura di), Clint Eastwood,

Marsilio, Venezia, 2009, p. 62.

meno rappresentabile. Per questo la sequenza in cui il piccolo Marcus rin- corre il suo berretto tra le gambe della folla è un momento di grande etica della visione: solo alla fine capiamo che in questo modo evita di morire, solo alla fine ci ricordiamo che è il 7 luglio 2005 […]. Per rappresentare una tragedia, bisogna attaccarsi a qualcosa di molto piccolo e marginale, come un bambino che si preoccupa solo di cercare il suo cappello25.

Il confronto con una verità porta alla necessità di un discrimine non solo nella vita dei personaggi del film, ma anche nell’opera di un autore cinemato- grafico che si trova a interrogare il proprio cinema in un rapporto fertile con il passato (questo ci sembra essere il “classicismo” di Eastwood) rimanendo più che mai ancorato al presente. La necessità di stabilire e al contempo raccontare dei fatti fa del cinema di Eastwood una macchina demistificante che riesce a mantenersi perfettamente in bilico tra la metafora, l’astrazione e al contempo parlarci «dell’incontro, smisurato, estremo e drammatico, con una verità»26.

Flags of Our Fathers, Invictus e in misura minore J. Edgar sono appunto opere

che partono dal simbolo per rivelare la verità dietro esso celata: quella della sua creazione. Così, conscio di essere molto più che un leader politico, il Nelson Mandela di Morgan Freeman lavora sulla costruzione di se stesso e di un’idea di nazione che passi attraverso una serie di eventi emblematici, in maniera cer- tamente meno spudorata e mistificante (ma non meno manipolatoria) dell’eser- cito degli Stati Uniti di Flags of Our Fathers, che scollega definitivamente il fatto dall’interpretazione e dalla rappresentazione che viene fornita al paese attra- verso i media27. «Il reale per Eastwood è come lo specchio – scrivono Edoardo

Bruno e Grazia Paganelli a proposito di J. Edgar – l’immagine “opposta”, il

viceversa di quello che appare, il segno rovesciato che mostra, crudele, il senso

svincolato dal referente, dunque il vero più vero del vero, di una società soffoca- ta e impaurita»28. Eastwood distingue certamente una mistificazione legittima,

25 Ibidem.

26 Pietro Bianchi, Una verità estranea a questo mondo, «Cineforum», LI, 501, gennaio-

febbraio 2011, p. 11.

27 Molto simile è anche il destino della giovane madre di Changeling (id., 2008), triturata

appunto da meccanismi che rimuovono la verità tentando di sostituirla con simulacri. La verità è però qualcosa che la donna sente, percepisce, al di là della possibilità di una verifica.

28 Edoardo Bruno, Grazia Paganelli, Come lo specchio, «Filmcritica», LXII, 621-622, gen-

quella di Mandela, da una oscura, vista «come una possibilità tradita, con il sogno americano che preme per non doversi mai scontrare con la realtà, salvo poi, allo spettatore di oggi, essere scoperto e svelato nella sua menzogna»29. Il

parallelo tra un Mandela/Obama e un Hoover/Bush, Jr. è fin troppo semplice e per certi versi semplicistico: così però i film sono stati letti, l’uno aperto alla speranza di una nuova leadership, l’altro come lapide immaginifica posta sugli anni delle menzogne di Bush, Cheney e Rumsfeld. Al di là di ciò, a Eastwood interessa comunque indagare la contraffazione e l’(auto)creazione indipenden- temente dagli obiettivi che chi la mette in moto si prefigge. Un cinema del discernimento come esigenza primaria del contemporaneo.

L’esigenza di distinguere il vero dal falso, l’opinione dalla realtà, di uscire dall’orizzontalità postmoderna dove tutto è sullo stesso livello e ricominciare a dare un ordine e una gerarchia alle cose emerge così da figure apparentemente antitetiche come Tarantino e Eastwood, che nelle loro opere più recenti ripartono in modi diversi da Griffith e passando per altri punti fermi della storia del cinema americano30 mettono in crisi quel “materialismo democratico” che è espressione

filosofica per eccellenza del postmoderno, dicendoci, con Badiou, che «Il n’y a que des corps et des langages, sinon qu’il y a des vérités»31.