L’attentato alle Torri Gemelle del World Trade Center del 9 settembre 2001 è stato, tra le altre cose, una rappresentazione perfetta del paradigma del “mon- do piatto” di Thomas Friedman1. L’idea di un mondo ormai flat, fondato su
una triplice convergenza (collaborazione, orizzontalizzazione, competizione), dentro una cittadinanza ormai completamente digitale2 (pochi “corpi”, molti
steroidi digitali), si è manifestata – tra l’altro – nella copertura visiva e in tem- po reale con cui l’evento è stato testimoniato, dall’interno e da una pluralità di punti di vista “occasionali”, tradotto in immagine, articolato subito dopo in racconto e immediatamente diffuso, anzi socializzato su scala globale at- traverso un passaggio insensibile da una piattaforma a un’altra, da un medium all’altro, da un ambiente a un altro3. Di questa copertura, è esempio emble-
matico il media collage realizzato da History Channel nel 2008, 102 Minutes
That Changed America: 102 minuti, appunto, in cui «tutto quello che stai per
vedere è stato registrato la mattina dell’11 settembre a New York. Il girato è stato raccolto da più di cento testimoni oculari (eyewitnesses) che hanno im- pugnato le loro videocamere per registrare un evento che è diventato storia».
Nel suo volume, animato da un certo entusiasmo per il progresso tecno-
1 Thomas. L. Friedman, The World Is Flat: A Brief History of the Twenty-first Century, Farrar,
Straus and Giroux, New York, 2005 (tr. it. Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo
secolo, Mondadori, Milano, 2006).
2 Sull’idea di cittadinanza digitale, si veda, tra gli altri, Giuseppe Granieri, La società
digitale, Laterza, Roma-Bari, 2006.
3 Nel senso in cui usa questo termine (modellato su quello di agency coniato da Bruno
Latour) Mariagrazia Fanchi in Cinema-Grand Master. Il film nell’epoca della convergenza, in Federico Zecca (a cura di), Il cinema della convergenza. Industria, racconto, pubblico, Mimesis, Milano-Udine, 2012.
Laden – è oggi armata di nuovi strumenti di realizzazione, particolarmente potenti e rapidi, proprio grazie alle logiche di appiattimento globale del mon- do. Ma mentre si imponeva come un evento tipicamente “piatto”, l’attentato alle Torri Gemelle svelava anche altre dimensioni meno immediate di que- sta idea di appiattimento; sul fronte dell’immagine, in particolare, indicava non tanto una dimensione “orizzontale” dell’appiattimento, quanto una sua componente “verticale”, di profondità. Perché l’evento reale non è stato sem- plicemente “coperto”, ma letteralmente ricoperto, in diretta, punto per punto, da una mappa visiva in scala 1:1 che lo ha immediatamente proiettato in una dimensione “altra”, lontana dalla semplice testimonianza, sigillando il farsi storia di un evento in un racconto per immagini ispirato ai codici del modo cinematografico e avviando subito una lacerazione e una sostituzione di que- sta “eccedenza” (dell’evento e della sua visibilità)4. L’inesausta riproposizione
della sequenza dell’attentato ha prodotto poi qualcosa di simile a una “distra- zione ipnotica”, alimentata più o meno consapevolmente anche dal desiderio di derealizzare quell’esperienza mediale, dentro un processo “terapeutico” di premediazione5.
Pur nella sua eccezionalità, l’attentato alle Torri Gemelle solleva un pro- blema che l’estetica e la teoria del cinema conoscono bene, almeno da quan- do ci si è posti il problema delle trasformazioni “ontologiche” introdotte nel territorio dell’immagine dall’avvento del digitale: è il problema della refe- renzialità del visivo, di quel legame insieme logico, materico e sensibile che l’immagine realizza (più che incorporare o testimoniare) nel suo rapporto con la realtà. La visualità contemporanea del networking sembra sospenderla o renderla indifferente6, annichilendo in particolare lo scarto che la rappresen-
tazione per immagini della realtà sempre realizza, fino a produrre una con-
4 Su questi aspetti, e per una sintesi anche bibliografica, si rimanda ad Alessandro Alfieri,
Cinema, mass media e la scomparsa della realtà. Immagini e simulacri dell’11 settembre,
Albo Versorio, Milano, 2013.
5 Cfr. Richard Grusin, Premediation. Affect and Mediality after 9/11, Plagrave MacMillan,
Basingstoke-New York, 2010.
6 Di indifferenza referenziale parla, tra gli altri, Pietro Montani in L’immaginazione inter-
dizione per cui «il giudizio sull’immagine tende a disattivare la modalità del reale in quanto criterio di discriminazione, a vantaggio dei valori performativi
dell’immagine stessa»7. L’idea su cui W.J.T. Mitchell ha spesso insistito – quel-
la delle immagini come «collettività sociale che possiede un’esistenza parallela alla vita sociale dei loro ospiti umani»8, riconoscibilmente “altra” (e in grado
di testimoniare l’alterità del reale) – sembra oggi invalidata da una dinamica in cui le immagini non costituiscono più una “seconda natura” chiaramente riconoscibile: la prossemica tra queste forme di vita e i loro organismi ospite è segnata piuttosto da un processo di invasione o di incapsulamento organico. A questa relazione “rumorosa” («Eravamo davanti all’immagine, siamo nel visivo. La forma-flusso non è più una forma da contemplare, ma in fondo è un parassita: il rumore degli occhi»)9 conseguono in particolare un processo
di derealizzazione mediatica del reale e – con riferimento all’immagine – una perdita del valore e del senso dell’idea di rappresentazione, nonché una chiara distinzione tra spettacolo e documento; l’indifferenza referenziale, del resto, parifica le prestazioni rappresentazionali dei diversi modi dell’immagine, ap- piattendo “democraticamente” il mondo sul visivo.
Da un lato, una simile condizione alimenta ulteriormente quel processo di oni-
rizzazione della realtà caratteristico della “società dello spettacolo”; un processo
che, mentre esautora ogni strategia di autenticazione dell’immagine, incoraggia un’attitudine dispositiva nei confronti della realtà, come se si trattasse di un am- biente di relazioni interamente determinato dal nostro desiderio: «Se tra realtà e rappresentazione non c’è differenza, allora lo stato d’animo predominante diviene la malinconia, o meglio quella che potremmo definire come una sindrome bipo- lare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità di tutto»10.
In secondo luogo, e sempre sull’asse del “passionale”, questo scenario di insensibile allontanamento della realtà all’interno di una sua rappresentazione immediata, fluttuante, onnipresente e priva di articolazione e ritmo, garantita dalle tecnologie digitali e dalla società informatica, prospetta per il soggetto una condizione di vera e propria anedonia, vale a dire di incapacità di provare piacere:
7 Ivi, p. 23, corsivo mio.
8 W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, Duepunti, Palermo, 2008, p. 117. 9 Régis Debray, Vie et mort de l’image: Une histoire du regard en Occident, Gallimard
(Folio), Paris, 1995 (tr. it. Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano, 1999, p. 229).
Non sono più io che sento qualcosa, ma è l’estensione tecnologica delle mie facoltà che sente al mio posto. La tecnologia quindi si oppone a me che non la riconosco come una mia estensione, come qualcosa che mi appartiene: essa è l’idolo che ha preso il mio posto. Seguendo questa teoria si può dire che con l’avvento di Internet, noi abbiamo posto fuori di noi il nostro sistema nervoso centrale. L’anedonia sarebbe appunto la conse- guenza di tale intorpidimento e anestesia11.
Il problema, in breve, è un rischio insieme sociale e culturale: l’idea di rap- presentazione finisce per essere implicitamente squalificata a causa della sua natura di processo costruttivo, di ordine linguistico, almeno nella sua capacità di dire la realtà, e di contemplarne la verità in modo obliquo – perché non la rico- pre, né la cattura, né la registra ecc. Il paradigma visivo della società digitale del
networking, dell’appiattimento, della socialità mediatica, dell’amatoriale e della
frantumazione dello spazio e del tempo (compreso quello della contemplazio- ne: siamo, appunto, nel flusso) sembra definire una figura di spettatore poco incline – verrebbe da dire antropologicamente – a riconoscere nella rappresen- tazione cinematografica un luogo di possibilità rispetto al racconto del reale: è come se nel corso degli ultimi quindici anni, dopo la stagione postmoderna, la digitalizzazione avesse definitivamente bruciato (dentro il mito di un realismo ingenuo) un certo paradigma rappresentazionale, e si fosse imposto una specie di platonismo selettivo, ponendo fine a quel rapporto di “fiducia” (e, sull’asse dello spettatore, di credenza) che, lungo il Novecento, ha garantito certe pos- sibilità “realiste” nel rapporto tra cinema, spettatore e società. Al tempo stesso, tuttavia, è proprio questo sfondo visuale, spesso entusiasticamente celebrato nella sua natura crossmediale, cortocircuitata, magmatica, frammentaria, flui- da, convergente e “sociale”, a creare le condizioni differenziali perché il disposi- tivo cinematografico si (ri)affermi come alterità, e a segnare la possibilità di un recupero di certe sue facoltà: non conforme o organico a questo scenario, di cui ha saputo incorporare e metabolizzare dimensioni e contenuti senza lasciarsene stravolgere (il digitale in quanto tecnologia e il digitale in quanto “pensiero”), il cinema può oggi riaffermare non soltanto una sua specificità, ma può anche testimoniare di un modo dell’immagine “altro”, il cui bisogno è solo assopito, o troppo rumorosamente disturbato dalla proliferazione contemporanea del visi-
vo. Lo fa, o può farlo, da una posizione forse decentrata, o non più egemone, al- meno per quanto riguarda la sua capacità di sedimentare immaginari e agire in termini pragmatici. È però del cinema, oggi, funzionare come reagente rispetto al territorio appiattito e digitalizzato del flusso mediale contemporaneo; è del cinema, anche, riabilitare un rapporto denso, anche sotto il profilo sociale, tra quegli attori ormai confusi o reciprocamente cannibalizzati che sono la realtà, l’immagine e lo spettatore.