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Ground Zero L’evento e il suo sfondo mediale

Il mattino dell’11 settembre 2001, a seguito di una serie di dirottamenti pia- nificati dall’organizzazione terroristica Al Qaeda, due aerei di linea impatta- no contro le Twin Towers a New York, uno si schianta sul Pentagono, sede del Dipartimento della Difesa statunitense, un quarto, dopo la ribellione dei passeggeri, precipita nei campi della Pennsylvania, senza raggiungere il suo obiettivo (presumibilmente Washington). È un attacco compiuto diretta- mente sul suolo degli Stati Uniti, che ne colpisce cuore finanziario e difensivo, sebbene appaia come un monito rivolto a tutto l’Occidente, come conferma- no, pochi anni dopo, gli attentati a Madrid e Londra.

A poco più di un decennio di distanza, l’11 settembre si è ritagliato, nella memoria collettiva così come nei discorsi istituzionali, lo spazio di una formula. Come il 4 luglio è divenuto una ricorrenza, una data senza necessità di ulteriore specifica, mentre un caso beffardo ha voluto che, secondo il sistema di datazione americano, le cifre che la compongono (9/11) risuonino come un rimando spon- taneo al numero dell’emergenza (911). Del resto, da subito, è stata chiarissima la tendenza a stabilire, rispetto a ciò che accadde qual giorno, un prima e un dopo, così come palese si è rilevata la volontà di attribuire a esso il ruolo di una diga spartiacque, sancendo una cesura, secca e nitida, tra ciò che è stato e ciò che è, «sospingendo il ventesimo secolo, con le sue guerre calde e fredde, con i suoi mis- sili nucleari e le sue discussioni, verso un passato lontano coperto da brume»1.

1 Serge Schmemann, citato in Peter Carravetta, Del postmoderno, Bompiani, Milano,

Quasi come se, in quella mattina di inizio di millennio, l’immagine delle Torri colpite, collassate e precipitate su se stesse, avesse costituito davvero un Ground

Zero, un punto zero, l’epicentro di un nuovo immaginario.

L’11 settembre 2001 è anche il più celebre casus belli annoverato nelle recenti cronache internazionali. Meno di un mese dopo, infatti, scoppia e si combatte un inedito tipo di guerra, mai prima concepito: una War on Ter-

ror, un’azione bellica, al contempo di risposta e preventiva, contro il terrore,

che ha luogo in due scenari ben definiti, Afghanistan (2001-in corso) e Iraq (2003-2011), così come in altri, dai contorni più sfumati2, in accordo con

uno sforzo rivolto verso una frontiera globale. Una campagna politica inter- nazionale che ricorre allo strumento della guerra per scagliarsi contro uno

stato d’animo, convocando nella sfera del nemico (il terrorismo) istanze dif-

ficilmente identificabili con tradizionali perimetri di carattere geo-politico, men che meno istituzionale, chiamate a raccolta intorno al volto barbuto e appuntito dello sceicco saudita Osama bin Laden.

Una guerra che si combatte nelle strade di Baghdad, o tra le impervie montagne al confine tra Afghanistan e Pakistan, ma, per la prima volta, an- che progressivamente in rete3, cercando di volgere a proprio favore l’impatto,

potente e imprevedibile, delle più recenti tecnologie della comunicazione me- diata impiegate nel warfare, tali da promuovere la scena on-line a vetrina prio- ritaria del conflitto, rilanciando la spartizione atavica del campo di battaglia in un orizzonte fatto di scambi di dati, immagini e immaginari4.

Un punto di svolta insomma, l’11 settembre, che irrompe nel pieno della

condizione postmoderna e finisce per sabotarne i piani. Curiosamente infatti,

proprio quando la realtà sorpassa la finzione «in una sorta di duello tra loro

2 Scenari aperti o ridefiniti dalla Guerra al Terrore si trovano infatti anche in Medio-

Oriente (Libano e Striscia di Gaza), nel Caucaso settentrionale (Cecenia), in Asia meri- dionale (India, Nord-Ovest del Pakistan), nel Sud-Est asiatico (Indonesia, Filippine), in Africa (nel Corno e nei territori del Sahara) e in Sud-America (Colombia).

3 Va specificato che il primo contesto bellico in cui è presente internet è la Guerra del

Kosovo (1996-1999), tuttavia la sua importanza è ancora relativa, non paragonabile a quella che la rete acquisirà a distanza di soli cinque anni.

4 Nicholas Mirzoeff, Watching Babylon: The War in Iraq and Global Visual Culture,

Routledge, London, 2004 (tr. it. Guardare la guerra. Immagini del potere globale, Meltemi, Roma, 2005); W.J.T. Mitchell, Cloning Terror. The War of Images, 9/11 to the Present, University of Chicago Press, Chicago, 2011 (tr. it. Cloning Terror. La guerra delle imma-

gini dall’11 settembre a oggi, VoLo publisher, Firenze-Lucca, 2012); Nathan Roger, Image Warfare in the War on Terror, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2012.

a chi sarà il più inimmaginabile»5, gli attacchi di Al Qaeda annunciano la

conclusione di quello sciopero degli eventi proclamato negli anni Novanta, scongiurando pertanto ogni coevo pericolo di fine della storia. Non stupi- sce quindi, come dimostrato da Philip Hammond, che tra le innumerevoli reazioni agli attacchi del 2001 «una delle più straordinarie e inaspettate sia stata il dibattito sul postmodernismo che ne è scaturito»6, riassumibile in una

domanda, tanto semplice quanto radicale: dentro o fuori il postmoderno? È ancora possibile, dopo l’11 settembre, parlare di relativismo, fine delle grandi narrazioni, distanza ironica, o del fatto che nulla è reale?

Le risposte, come ovvio divergenti e riconducibili a posizioni antitetiche, non sono materia d’analisi delle pagine che seguono7. In questa sede, ciò che

risulta importante prendere in considerazione dall’incrocio tra 11 settembre e postmoderno è che la querelle derivatane, da ambo le parti, ha riconsegnato alla sfera sociale la nozione di evento, che fatica non poco a trovare una fisionomia semantica, oggetto, com’è, di usi e abusi – almeno nell’ambito del linguaggio comune, per cui pare che a qualsivoglia avvenimento spetti oggi un’attribuzione

evenemenziale (dal fatto storico alla reunion di un gruppo rock, dall’incontro di

calcio in mondovisione alla premiere di una serie televisiva di successo). Chiarite le argomentazioni circa la liceità di conferire la qualifica filosofica di evento, se non di major event, ai fatti dell’11 settembre 20018, è importante

rimarcare come l’accaduto (e per quanto concerne la sua portata quantitati- va e simbolica, in particolare lo scenario di New York) si sia primariamente imposto come un media event, un evento mediatico, secondo la definizione “cerimoniale” di Daniel Dayan and Elihu Katz9, quanto meno poiché così è

5 Jean Baudrillard, L’esprit du terrorisme, «Le Monde», 2 Novembre 2001 (tr. it. Lo spi-

rito del terrorismo, Cortina, Milano, 2002, p. 37). Sul tema si veda anche Slavoj Žižek, Welcome to the Desert of the Real, Verso Books, London-New York, 2002 (tr. it. Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’11 settembre e date simili, Meltemi, Roma, 2002).

6 Philip Hammond, Media, War & Postmodernity, Routledge, London, 2007 (tr. it. Media

e Guerra. Visioni Postmoderne, Odoya, Bologna, 2007, p. 15).

7 Oltre a Philip Hammond, si rimanda a Peter Carravetta, Del postmoderno, cit. 8 Sul concetto di “evento” applicato ai fatti dell’11 settembre si rimanda a Giovanna

Borradori, Philosophy in a Time of Terror: Dialogues with Jurgen Habermas and Jacques

Derrida, University of Chicago Press, Chicago, 2003 (tr. it. Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari, 2003) e a Mauro Carbone, Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.

9 Daniel Dayan, Elihu Katz, Media Events: The Live Broadcasting of History, Harvard

stato concepito dagli stessi organizzatori, come dimostra lo schema con cui gli attacchi sono stati eseguiti. L’esempio più noto al riguardo chiama in causa la gemellarità delle Torri, che diventa un fattore decisivo nel momento in cui colpire la Torre Nord significa, com’è successo, concentrare tutti gli occhi dei media sullo schianto successivo, avvenuto, sedici minuti dopo, contro la Tor- re Sud, un impatto che ha costituito il profilmico di un’attrazione trasmessa in diretta mondiale.

Tuttavia, si tratta di capire come si è evoluto il sistema dei media cui ci si riferisce dieci anni dopo un indiscusso predominio televisivo (e occidentale) con cui si confrontano i due studiosi israeliani, riflettendo sulla forma spettaco- lare con cui l’attentato è stato percepito, elaborato, vissuto attraverso la sua fitta trama di incisioni mediali. Le immagini delle Torri che si sgretolano, come la conseguente amputazione operata allo skyline newyorkese, costituiscono infat- ti un trauma visivo devastante ed enigmatico, così «oggettivamente intriso di esteticità»10 da essere stato persino definito, non senza polemiche, «la più grande

opera d’arte possibile nell’intero cosmo»11; ma, tali immagini, di cui tutti ser-

biamo il ricordo, viste prima in televisione, poi migrate nella stampa e in rete e viceversa12, non sono immuni dalle modalità comunicative che ne hanno con-

diretta, Baskerville, Bologna, 1995). Si ricorda che, secondo la teoria proposta dai due

studiosi, poiché si possa parlare di evento mediatico (evento rispetto cui la televisione possa dispiegare il suo potere di dichiarare una festività, un’occasione cerimoniale dal carattere marcatamente rituale) si devono rispettare alcuni parametri: sintatticamente, si deve interrompere la normale programmazione televisiva; semanticamente, l’evento deve avere una grandezza tale da imporgli una portata storica; pragmaticamente, deve avvenire un “arresto” nello scorrere della vita quotidiana, in modo che il pubblico possa dedicarsi, quasi con devozione, alla fruizione del programma.

10 Pietro Montani, La funzione testimoniale dell’immagine, in Tullio Gregory (a cura di),

XXI secolo. Comunicare e rappresentare, Edizioni dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2009,

pp. 477-489.

11 Karlheinz Stockhausen, citato in Mario Carbone, Essere morti insieme, cit., p. 76. La

dichiarazione di Stockhausen, cui è seguita una rettifica da parte dello stesso musicista in data 19 settembre 2001 (si veda il sito www.stockahusen.org), ha prestato il fianco, come inevitabile, a molte critiche. Tra esse si segnala quella dell’architetto Richard Serra, che accusa Stockhausen di aver smarrito la distinzione tra arte e realtà, cadendo pertanto nella trappola di estetizzare il terrore. Richard Serra, Aestheticizing Terror, «The New York Times», 21 October 2001, p. 2.

12 I motivi per cui l’11 settembre la rete si impone per la sua importanza sono almeno tre.

Il primo è di natura infrastrutturale: internet rappresenta infatti una nuova possibilità logistico-comunicativa con cui gestire l’emergenza (nonostante si sia parlato di blocco

dizionato la metabolizzazione pubblica. Una questione di visualità dell’evento, intesa nell’ottica della sua performatività attraverso i media: negli ultimi anni, anche contributi non provenienti dall’area disciplinare dei media studies hanno fatto riferimento a questa dimensione mediatizzata dell’11 settembre.

Il filosofo Mauro Carbone13, per esempio, rilegge il crollo delle Torri alla

luce di una metafora – quella del naufragio con spettatore – collocata in una li- nea di continuità tesa tra l’invenzione del poeta latino Lucrezio e la Critica del

giudizio di Immanuel Kant, una parabola scandita dalle molteplici rielabora-

zioni di cui la metafora è stata oggetto, nel corso di due millenni, da parte del pensiero occidentale14. Per Carbone, ciò che conferma l’11 settembre è che il

naufrago non si distingue più dallo spettatore, che la sicurezza contemplativa di

chi guarda è stata abbandonata poiché, a partire dalla rivoluzione copernica- na, l’uomo ha perso la sua posizione privilegiata nell’universo, e, senza scogli cui aggrapparsi, è costretto a percepirsi come soggetto totalmente implicato nella Storia, dunque, come irrimediabilmente esposto al pericolo del nau- fragio. Un’indistinguibilità dello spettatore dal naufrago che si concretizza nell’11 settembre in quanto spettacolo più visto dalla storia umana: naufragio, appunto, di cui siamo stati tutti spettatori.

Anche lo studioso di cinema Marco Dinoi15 si interroga sul significato

di tutto quel bulimico guardare. Dinoi fa notare come, nel rendere visibile l’11 settembre, «il sistema dei media è […] ricorso a un flusso ininterrotto di immagini creando una sorta di vuoto pneumatico, che impediva loro con- nessioni con altri luoghi, i raccordi di montaggio ad altre immagini» proprio mentre la ripetizione ossessiva si frapponeva paradossalmente tra visione e comprensione, impedendo di capire, di interpretare l’evento, «perché questo

per congestione o di caduta nelle ore immediatamente successive lo schianto); il secondo

è relativo alle nuove modalità di confronto che la rete garantisce (per esempio: siti per la ricerca di familiari scomparsi, siti di commiato per le vittime, siti che urlano alla co- spirazione, siti legati al cyber-terrorismo jihadista); il terzo è collegato alla dimensione archivistica assegnata alla rete dopo l’11 settembre, intesa come inesauribile deposito di memoria collettiva.

13 Mauro Carbone, Essere morti insieme, cit.

14 Hans Blumemberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher,

Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1979 (tr. it. Naufragio con spettatore. Paradigma

di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna, 1985).

15 Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze,

vuol dire anche temporizzarlo, vederlo appunto come un evento “accaduto”, mentre la coazione a ripetere a cui ci siamo trovati di fronte tendeva a collo- carlo in una sorta di presente continuo, di fatto fuori dal tempo»16.

Il “giorno delle Torri”, il sistema dei media rimastica quindi immagini sempre uguali, trasmesse in loop e rese atemporali nella loro ostinata ripetizio- ne dell’identico – cui si fa incontro il nostro sguardo, affetto, come diagno- stica Clément Chéroux17, da sindrome diplopica, disturbo oculare che causa

una visione raddoppiata, promuovendo la percezione della distruzione del World Trade Center grazie a immagini cariche di ripetizione e déjà-vu, tanto sembrano sdoppiarsi e moltiplicarsi nei media (del resto, come si è visto, è la stessa gemellarità delle Torri a implicare una prima, fondamentale forma di ripetizione).

Poco dopo gli attacchi anche l’antropologo Marc Augé18 ha proposto la

sua analisi dell’accaduto. Augé, schierato dalla parte dei favorevoli nel dibat- tito sulla qualifica evenemenziale concessa all’11 settembre, giustifica il suo punto di vista spiegando come la distruzione del World Trade Center faccia registrare un’eccedenza degli effetti rispetto alle cause, ossia resista a quell’esi- genza di spiegazione che, a sua volta, risponde a un «desiderio d’ordine, a una volontà di negare la radicalità dell’avvenimento»19 tipici di tutte le società

umane (secondo Augé, particolarmente acuti nella nostra, in cui sarebbe sem- pre più difficile sopportare l’idea di accidentalità).

Ciò che è avvenuto va sottoposto allora a uno slittamento di funzione. Quando l’avvenimento assume dimensioni smisurate e impressionanti, la spiegazione, in termini di cause, non basta più a ridurlo, a estirparne il senso: è necessario non scorgere in esso un esito, bensì un inizio. L’avvenimento allora cambia natura e l’effetto diventa causa, da oggetto di spiegazione si fa, esso stesso, fonte di senso: negato nella sua brutale contingenza, può dare così risposta ai bisogni di intelligibilità soddisfatti, in accordo con il pensiero di Paul Ricoeur, dalle forme del racconto. Ecco quindi che si alternano le

16 Ivi, p. 81.

17 Clément Chéroux, Diplopie, l’image photographique à l’ère des médias globalisés: essai

sur le 11 Septembre 2001, Le Point du Jour, Cherbourg-Octeville, 2009 (tr. it. Diplopia. L’immagine fotografica nell’era dei mezzi globalizzati: saggio sull’11 settembre, Einaudi,

Torino, 2010).

18 Marc Augé, Journal de guerre, Galilée, Paris, 2002 (tr. it. Diario di guerra, Bollati

Boringhieri, Torino, 2002).

ricostruzioni, in televisione e in rete (senza dimenticare la letteratura) che raccontano l’11 settembre cercando di narrativizzarlo; o se si vuole, ecco lo spunto per la realizzazione del film a segmenti 11’09’’01 – September 11 (11

settembre 2001, Alain Brigand, 2002), distribuito in sala proprio nella data

del primo anniversario degli attacchi.

Il naufragio dell’11 settembre, l’evento più visto di tutti i tempi, è sta- to quindi messo in scena da un complesso sistema di tecnologie e media al lavoro quel martedì a New York, rendendoci tutti spettatori del disastro e imponendosi come un crocevia irrinunciabile per gli studi che si focalizzano sulle condizioni comunicative in cui il crollo delle Torri è stato prodotto e concepito, a partire dalle numerose domande oggi legate alla percezione delle immagini mediali, che, in maniera sempre crescente, rimescolano tra loro aspetti sensazionali della comunicazione, valore documentale e finzione riela- borativa. Redacted (id., Brian De Palma, 2006), lo vedremo, è da considerarsi a questo proposito un film di primaria importanza.

L’11 settembre è, insomma, il primo media event ad accadere in un pae- saggio mediale rinnovato, dove sono in vigore norme della comunicazione introdotte dalla diffusione delle reti globali e dalla definitiva espansione del- la codifica digitale negli ambiti dell’elettronica e dell’informatica: le norme, cioè, della rimediazione, dell’interattività, dell’accessibilità e della partecipa- zione – senza contare che, dalla metà del decennio, si inizia a parlare di con-

vergenza per qualificare l’intera cultura mediale degli anni Duemila. Il pieno

compimento di ciò che l’11 settembre pare solo introdurre non è però da ricercare nella ravvicinata operazione Enduring Freedom, che apre le ostilità in Afghanistan il 7 ottobre 2001: il conflitto più lungo combattuto dagli Stati Uniti nella loro storia si rivela presto, in termini di trattazione mediatica, una

forgotten war20, una guerra “dimenticata” perché difficile da mostrare, in cui i

media, spiazzati dopo l’11 settembre, si stringono intorno alle scelte dell’am- ministrazione politica statunitense, pur venendo sottomessi a una pesante pressione governativa e a una forzata distanza dai fatti. Una situazione simile, per certi versi, a quella della Guerra del Golfo21.

È quindi la Guerra d’Iraq, all’opposto mediaticamente sovraesposta, a fare

20 Sherry Ricchiardi, The Forgotten War, «American Journalism Review», 52 (August-

September) 2006, http://www.ajr.org/article.asp?id=4162

21 Si rimanda a Susan L. Carruthers, The Media at War, Palgrave Macmillan, Basingstoke,

esplodere le premesse dell’11 settembre, aggiornando la copertura mediatica del conflitto all’avvento di Facebook, Twitter, YouTube e suggerendo di rife- rirsi ai conflitti post-11 settembre nei termini di eventi mediali diffusi, come li hanno definiti Andrew Hoskins e Ben O’Loughlin22, ovvero immersi e

prodotti in una nuova ecologia mediale. In attesa di verificare come le relazioni tra guerra e sistema dei media a partire dall’intervento statunitense in Iraq dialoghino con il ruolo e l’apporto che le immagini mediali si sono ritagliate negli scenari bellici contemporanei – come quelli presenti in Medio-Oriente e nel Nord-Africa – è intanto anzitutto possibile evidenziare la decisiva discon- tinuità che esse segnano rispetto all’azione esercitata dai media sul conflitto nel decennio precedente.

Ricercatori accademici anglosassoni23 e nord-europei24 utilizzano il ter-

mine mediatizzazione per indicare appunto le evoluzioni occorse alla guerra nell’arco degli ultimi tre decenni, un lasso di tempo in cui, in modo sempre maggiore, pratiche sociali e modi di interazione si sono sviluppati dipenden- temente dalla crescita dell’influenza dei media. Quest’ultimi infatti, grazie a una penetrazione nel tessuto sociale sempre più invasiva, non si sono occupati soltanto, quasi tautologicamente, di mediare la realtà dei conflitti e delle crisi internazionali, attività intesa come un atto concreto di comunicazione che dà significato a un medium nello specifico del contesto emergenziale, ma hanno provveduto a mediatizzarla, divenendo essi stessi agenti di mutamento locale e globale. I media non si sono limitati, dunque, a rendere disponibili gli acca- dimenti per l’audience, bensì, si sono fatti partecipi alla produzione di eventi.

Così intesa, la mediatizzazione si configura come un processo graduale, che tuttavia, in accordo con Hoskins e O’Loghlin, può essere scandito in due macro-fasi temporali. La prima è identificabile con gli anni Ottanta del secolo scorso, a seguito della liberalizzazione dei mercati finanziari e dello snellimento delle norme originariamente intese a regolare i settori dell’attività economica (le cosiddette politiche di deregulation) in concomitanza con un

22 Andrew Hoskins, Ben O’Loughlin, War and Media. The Emergence of Diffused War,

Polity Press, Cambridge-Malden, 2010.

23 Per esempio: Simon Cottle, Mediatized Conflict: Developments in Media and Conflict

Studies, Open University Press, Maidenhead, 2006; Denis McQuail, On the Mediatization of War: A Review Article, «International Communication Gazette», 68, 2006, http://

www.sagepub.com/mcquail6/Online%20readings/19c%20McQuail.pdf

24 Per esempio: Knut Lundby, Mediatization: Concept, Changes, Consequences, Peter Lang,

panorama delle telecomunicazioni che inizia a essere dominato dalla presen- za di conglomerati editoriali, network e corporation, che concentrano in po- che mani vari strumenti della comunicazione e dell’informazione. In questi stessi anni viene inoltre messo a punto il direct broadcasting via satellite, che permette, da un lato, di inviare e ricevere immagini da qualsiasi parte del mondo, versante ameno di quella globalizzazione che, con il suo incedere, sta permeando il dibattito pubblico; dall’altro, di dare avvio alla trasmissione di informazioni in tempo reale, secondo la logica narrativo-mostrativa del flusso continuo di notizie.

La Guerra del Golfo (1990-1991) con la sua peculiare trattazione media-