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Noi, ovvero: qui e allora

In un articolo per il «New York Times» intitolato Movies in the Age of Obama1,

Anthony Oliver Scott tenta una mappatura sintetica del cinema nato sulla spinta dell’elezione del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. La riflessione di Scott, non priva di ovvie semplificazioni ma affascinante, parte dall’idea che l’elezione di Obama sia stata resa possibile non solo dai sugge- stivi discorsi del candidato o da un’innovativa campagna elettorale, ma anche da un immaginario sedimentato attraverso il cinema:

From the class striving of Sidney Poitier’s everyman in the classic film A

Raisin in the Sun to Will Smith’s messianic loners in recent titles like I Am Legend, the movies have ennobled, consecrated, glorified, immortalized

and, most important, normalized the figure of the black man2.

1 Anthony Oliver Scott, Movies in the Age of Obama, «New York Times», 16 January

2013. Leggibile online all’indirizzo http://www.nytimes.com/2013/01/20/movies/linco- ln-django-unchained-and-an-obama-inflected-cinema.html

come, a partire dalla comparsa di Obama sulla scena politica nazionale e in- ternazionale, non si possa non osservare anche un’influenza in senso opposto, che al cinema restituisce ciò che la politica avrebbe attinto da quell’immagi- nario nella costruzione di un suo leader.

Se si guarda agli otto anni precedenti, quelli della presidenza di George W. Bush, non si potrà non notare come il cinema americano ne sia uscito fortemente condizionato, e non solo per il peso della dottrina neocon e theocon su opere come

The Passion of the Christ (La passione di Cristo, Mel Gibson, 2004), il remake di The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra, Robert Wise, 1951) adattato da

Scott Derrickson (The Day the Earth Stood Still [Ultimatum alla Terra, 2008]), The

Book of Eli (Codice Genesi, Albert e Allen Hughes, uscito nel 2010 ma ideato nel

2007) o horror come The Exorcism of Emily Rose (id., Scott Derrickson, 2005)5. A

rendere il cinema hollywoodiano degli anni Zero innegabilmente legato a George W. Bush è però la coincidenza del mandato con l’attentato terroristico dell’11 set- tembre 2001 e le sue conseguenze sulla politica interna ed estera del paese. Ciò rende impossibile discriminare il cinema che etichetteremmo come dell’“era Bush” da quello comunemente definito “post-11 settembre”.

Molti film americani di questi ultimi anni, invece, si vorrebbero strettamente influenzati dalla figura di Obama nonostante anche questa presidenza coincida a grandi linee con una circostanza ben precisa che il cinema ha incominciato a trattare in maniera sempre più dettagliata6, ovvero la Great Recession cominciata

nel 2008. Le produzioni hollywoodiane sembrano però diversamente orientate nel

3 Il discorso di Scott non si limita al cinema, ma esce anzi rafforzato dagli esempi che

l’autore fa guardando agli show e alle serie televisive, prima tra tutte I Robinson (The Cosby

Show, NBC, 1984-1992).

4 Anthony Oliver Scott, How the Movies Made a President, «New York Times», 16

January 2009. Leggibile online all’indirizzo http://www.nytimes.com/2009/01/18/ movies/18darg.html.

5 A questo breve elenco andrebbe aggiunto senz’altro I Am Legend (Io sono leggenda,

Francis Lawrence, 2007), titolo che Scott riconduce invece a quella schiera di pellicole che, grazie alla funzione “messianica” del personaggio di Will Smith, pavimentano la strada all’elezione di Barack Obama.

6 Tra i molti titoli vale la pena citare almeno Inside Job (id., Charles Ferguson, 2010); The

Company Men (id., John Wells, 2010); Too Big to Fail (Too Big to Fail – Il crollo dei giganti,

realizzare film che si riferiscono direttamente alla crisi rispetto a quelli che ci appa- iono esplicitamente ispirati all’immaginario che si è andato addensando intorno al Presidente. Le tendenze più evidenti del cinema americano di questi ultimi anni sembrano quindi guardare alla presidenza Obama e alla Grande Recessione come a due universi indipendenti, specie per quanto concerne la volontà di voler indaga- re le cause remote della crisi finanziaria, uscendo quindi fuori dal ristretto orizzon- te degli anni in cui essa si sta consumando. Ciò viene fatto rivolgendo lo sguardo a opere del passato che gli avvenimenti recenti rendono nuovamente attuali (dunque Oliver Stone può dare un seguito al suo Wall Street [id., 1987] con Wall Street:

Money Never Sleeps [Wall Street – Il denaro non dorme mai, 2010]) oppure raccon-

tando direttamente storie di ieri con indubbie capacità penetrative sull’oggi (è il caso ovviamente di The Wolf of Wall Street [id., Martin Scorsese, 2013]). In gene- rale, l’idea è quella che la crisi venga da lontano, così come l’attentato alle Twin Towers: il cinema che racconta la recessione partendo direttamente dalle stanze in cui questo problema si è generato appare in qualche modo in continuità con quello che si interrogava, pochi anni prima, sulla politica americana in rapporto al Medio Oriente, da Fahrenheit 9/11 (id., Michael Moore, 2004) a Syriana (id., Stephen Gaghan, 2005) e Charlie Wilson’s War (La guerra di Charlie Wilson, Mike Nichols, 2007). Il cinema apertamente politico, quindi, nell’era Obama sembra vivere ancora di quella spinta d’indignazione nata soprattutto come reazione alla seconda guerra del Golfo, cambiando semplicemente obiettivi7.

Negli anni della presidenza Bush questo tipo di produzioni è caratterizzato da un evidente antagonismo rispetto alle scelte del governo americano, al si- stema dei media che lo sostiene e all’inquietante miscuglio di conservatorismo politico e fanatismo religioso che si diffonde soprattutto nel cuore del Paese. È persino ovvio dirlo, ma fatta la tara di alcuni horror e alcuni blockbuster (su tutti 300, Zack Snyder, 2007) che sembrano scaturire direttamente dalla visione mistico-patriottarda di Bush Jr. e del suo entourage, il cinema dell’era Bush è nel complesso un corpus che come minimo tematizza in maniera critica alcuni temi tornati prepotentemente in auge dopo l’11 settembre e la guerra in Iraq, primo tra tutti quello della vendetta. Questa interrogazione dolente e spesso non risolutoria che troviamo in opere anche molto diverse tra loro come Munich (id., Steven Spielberg, 2005) o The Brave One (Il buio nell’ani-

7 Si veda in particolare Douglas Kellner, Cinema Wars: Hollywood Film and Politics in the

ma, Neil Jordan, 2007), mette spesso ed esplicitamente in relazione l’America

dei primi anni Duemila con contesti apparentemente lontani e più cupi, siano essi gli intrecci terroristici degli anni Settanta nel primo o la New York da incubo di Taxi Driver (id., Martin Scorsese, 1976) nel secondo. Il richiamo e la rievocazione di fatti storici ben precisi si mescola con la rielaborazione di fonti cinematografiche e culturali più ampie, private però di quella volontà di riscrittura strumentale tipica del postmoderno: un nuovo cinema d’impegno che non voglia essere antagonista in modo manicheo e didascalico è costretto a storicizzare, ripartendo talvolta dalla lezione postmoderna ma nella prospettiva di ristabilire gerarchie, di guardare alle fonti, siano esse storiche o culturali, con un discernimento assente nella mescolanza ottimista da fine della Storia e delle ideologie che caratterizzava ancora alcuni dei capolavori degli anni Novanta, primo tra tutti Forrest Gump (id., Robert Zemeckis, 1994), opera che, come ricorda Riccardo Caccia, nel suo svelare un parallelismo tra storia personale e collettiva le scopre entrambe contrassegnate dalla ciclicità8.

L’11 settembre, com’è noto, è considerato un momento spartiacque anche per- ché sembra rimettere in moto la Storia: l’attentato alle Twin Towers segna «the end of the end of history»9 e, per quanto riguarda un certo cinema americano, la

presa di coscienza dell’irreversibilità della crisi del postmodernismo che ne aveva caratterizzato la produzione di punta da almeno vent’anni. È una questione che in questa sede solo marginalmente tocca le possibilità che il cinema acquisisce nell’era del digitale e la «debolezza sempre più marcata, al limite dell’indifferenza, [che] si manifesta oggi sul piano della relazione tra immagine e realtà, mentre quest’ulti- ma si appiattisce nelle sue rappresentazioni o, viceversa, promuove queste ultime a unico orizzonte “materico” e conoscitivo»10. Questo perché il pubblico degli anni

Duemila è apparentemente più smaliziato: da un lato la necessità di una verosimi- glianza innerva anche i blockbuster più spudoratamente immaginativi11, dall’altro

8 Cfr. Riccardo Caccia, Forrest Gump, in Gianni Canova (a cura di), Robert Zemeckis,

Marsilio, Venezia, 2008, pp. 65-66.

9 Fareed Zakaria, The End of the End of History, «Newsweek», 24 September 2001, sorta di

risposta al celebre saggio di Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, New York, 1992 (tr. it. La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992). Si veda, tra agli altri, anche Slavoj Žižek, Censorship Today: Violence, or Ecology as a New

Opium for the Masses, http://www.lacan.com/zizecology1.htm.

10 Luca Malavasi, Realismo e tecnologia. Caratteri del cinema contemporaneo, Kaplan,

Torino, 2013, p. 46.

il concetto di “verità” sembra oggi a portata di tutti: basta consultare una qualsiasi pagina di wikipedia per riscontrare le differenze, le invenzioni o le omissioni tra un film storico o biografico e lo svolgersi effettivo dei fatti. Il film politico, dunque, se intende reinserirsi nel flusso precedentemente sospeso della Storia all’interno di un ritrovato andamento diacronico, si muoverà su un terreno accidentato, ol- tre che vestirsi di nuovo senza cadere nella trappola nostalgica ideologico-formale dell’impegno ormai invecchiato di opere come Lions for Lambs (Leoni per agnelli, 2007) e The Company You Keep (La regola del silenzio, 2012) di Robert Redford, che significativamente si limita a ignorare il tempo trascorso dalla stagione neo- hollywoodiana di Pakula e Pollack realizzando due opere scritte, dirette (e persino interpretate) come fossero uscite direttamente dagli anni Settanta.

Se i grossolani exploit di Redford rimangono per molti versi casi isolati, è altrettanto vero che in pochi sembrano interrogarsi sulla necessità di ri- pensare il film politico in vista di una stagione culturale che sta superando definitivamente il postmoderno. Sicuramente tra questi c’è Steven Spielberg, ma non è solo.