Jason Reitman, dopo aver letto il romanzo che ispirerà il film46, chiede a suo pa-
dre Ivan di acquistarne i diritti attraverso la sua compagnia, la Montecito Picture Company. Lo script conosce un lungo percorso prima di arrivare alla sua stesura definitiva. C’è un primo trattamento a opera di Sheldon Turner che, nel 2003, vende un copione tratto dal libro alla Dreamworks. Il soggetto viene poi rielabora- to da Ted e Nicholas Griffin su commissione dello stesso Ivan Reitman. In paral- lelo, Jason Reitman scrive una sua personale sceneggiatura che in seguito integrerà con elementi della versione originale di Turner, con cui alla fine dividerà i credit per la sceneggiatura (a detta del regista, i due non si erano mai conosciuti prima, il trattamento dei Griffin invece non risulta essere stato utilizzato).
La crescente credibilità del nome del regista (reduce da due film di buon impatto e ottimo incasso), poi, ha garantito la presenza di una superstar come George Clooney nel ruolo del protagonista, il tagliatore di teste Ryan Bing- ham. Clooney non è nuovo alle incursioni nel cinema indie (si pensi al suo sodalizio con Steven Soderbergh e alle sue collaborazioni con lo sceneggiatore Charlie Kaufman e i fratelli Coen, oltre alla sua carriera di regista), ma ha co- munque un volto e un nome che appartengono al firmamento hollywoodiano. Una di quelle star di “Serie A” capaci di muovere flussi di spettatori e, grazie al background di attore impegnato, rafforzano ulteriormente la credibilità del film. Il budget è contenuto: venticinque milioni di dollari. Una cifra ragguar- devole per le logiche produttive “alternative”47 (Crazy Heart [id., Scott Cooper,
2009], film d’autore con Jeff Bridges – che vincerà su Clooney di Tra le nuvole l’Oscar come Migliore attore protagonista nell’edizione 2010 – è costato appena sette milioni), ma irrisorio in relazione alle cifre medie di un film mainstream (senza andare a guardare il costo dei grandi blockbuster, Duplicity [id., Tony Gilroy, 2009], una commedia degli equivoci tra romance e spy story con Julia Roberts e Clive Owen, è costata sessanta milioni di dollari). Questi investi-
46 Cfr. Walter Kirn, Up in the Air, Doubleday, New York, 2001 (tr. it. Tra le nuvole,
Rizzoli, Milano, 2010).
47 Per essere eleggibile di nomination per gli Independent Spirit Awards, gli Oscar del cine-
ma indipendente, un film non deve avere un budget superiore ai venti milioni di dollari (un grande passo in avanti rispetto ai limiti originari che fissavano a cinquecentomila dollari il tetto massimo), cfr. Geoff King, Il cinema indipendente americano, p. 56. Il regolamento dell’edizione 2013 degli Independent Spirit Awards è disponibile sul sito internet ufficiale: <https://s3.amazonaws.com/SpiritAwards/2013+Spirit+Awards+Rules+%26+Regs.pdf>.
menti rispettano le logiche produttive indiewood: un budget importante per gli standard dell’indie ma abbastanza contenuto da garantire un rischio minimo per chi produce e una buona distribuzione (va ricordato che negli Stati Uniti i film non escono ovunque lo stesso giorno, ma certi prodotti seguono una diffu- sione prima mirata al pubblico ideale – città, centri universitari – poi ampliata presso un’audience generalista sfruttando le recensioni e l’effetto del passapa- rola). Il film non rappresenta, quindi, un rischio produttivo. Perché l’investi- mento è minimo e l’eventuale passivo potrà essere coperto da un blockbuster che garantisce introiti su larga scala48, e lo studio ha comunque un buon ritorno
d’immagine per aver prodotto un film d’autore (come abbiamo già affermato, lo scambio tra universo mainstream e universo indie agisce anche a livello di credibilità: i capitali del primo in cambio dei capitali culturali e reputazionali del secondo).
Già dal punto di vista tematico, il film si distacca dallo stereotipo dell’im- maginario indie. Prima di tutto, l’utilizzo di un volto noto, con cui lo spettatore solitamente crea contatto e empatia (George Clooney), nel ruolo del “cattivo”. Il personaggio di Ryan Bingham è un solitario che porta avanti una filosofia di vita nomade, rifiuta i legami stabili e si sposta continuamente da un capo all’altro degli Stati Uniti per non sentirsi morire («The slower we move the faster we die. Make no mistake, moving is living. Some animals were meant to carry each other to live symbiotically over a lifetime. Star crossed lovers, monoga- mous swans. We are not swans. We are sharks.»): un grigio burocrate che si avvicina alla mezza età e che per pagare i conti licenzia persone per conto terzi. Poi, le sottotrame che mischiano diversi generi: il coming-of-age (Nathalie Kee- ner [Anna Kendrick], giovane ambiziosa che si rende conto che il mondo non è il posto di cui aveva letto nei libri di scuola), il romance (la love-story possibile con Alex Goran [Vera Farmiga], personaggio che si connota come doppio fem- minile di Bingham che problematizza il romance fino ai confini del bromance) e la commedia all’interno di un contesto in cui i non-luoghi – che nel cine- ma indie sono diventati situazioni ideali come come metafora della condizione umana grazie a Lost in Translation49– rappresentano i rifugi sicuri e ovattati.
48 Nello stesso anno Dreamworks, co-produttrice del film, e Paramount, distributrice,
hanno realizzato Transformers: Revenge of the Fallen (Transformers. La vendetta del caduto, Michael Bay, 2009) che ha guadagnato, solo al cinema, oltre ottocento milioni di dollari.
49 Uno dei successi più controversi del cinema indie contemporaneo. Con un budget di
Il tono del film è sfumato, gentile, quasi garbato. Risponde quindi a quella sorta di medietà apparente cercata da un cinema liminare, in cui un certo grado di compromesso non è solo accettato ma suggerito. Questa apparen- te leggerezza garantisce la possibilità di trattare scenari controversi, facendo sopportare la presenza di un protagonista negativo che non ha nemmeno la consolazione di un pieno ravvedimento finale e di un happy end. A conferma che il realismo indie probabilmente non ha perso la sua forza eruttiva o la sua capacità di guardare al sociale con occhio critico ma, diversamente da quanto argomentato da Newman50, ha semmai accentuato le sfumature.
Pur essendo accostabile al cinema indie per alcune caratteristiche illustrate nel precedente paragrafo, Tra le nuvole rappresenta un momento fondamen- tale per la definizione della personalità del regista. Cominciano a emergere alcune ricorrenze tematiche (il personaggio principale, un esponente della
Generazione X ormai maturo che svolge un lavoro terziario che si ritrova a
fare i conti con se stesso e le scelte che l’hanno portato alla situazione di stallo in cui è inconsapevolmente ritratto [come Nick Naylor in Thank You For
Smoking e Mark Loring (Jason Bateman) in Juno]) e la messa in scena appare
meno stilizzata e aderente a modelli medi per seguire una ricetta in divenire e riconoscibile con una determinata biografia artistica. Tra le nuvole comincia un fondamentale lavoro dialettico, ripreso poi in Young Adult (id., 2012), tra il personaggio frammentato (si confrontino per esempio le rappresentazio- ni di Ryan Bingham [George Clooney] con quelle di Mavis Gary [Charlize Theron]: non sono quasi mai ritratti a figura intera, si connotano solo in base agli oggetti e alle maschere che vestono) e i luoghi de-umanizzati di quella che Marc Augé chiama surmodernità: da un lato gli aeroporti, le sale di at- tesa, i centri congressi, le immense megalopoli del nulla costruite ai margini delle grandi città; dall’altro gli appartamenti impersonali per single in car- riera alla periferia di Minneapolis, centri commerciali, fast food e negozi che normalizzano la rottura tra città e campagna.
Il lavoro stilistico di Reitman in Tra le nuvole è fondamentale per ga- rantire l’emergere di urgenze culturali capaci di catturare lo spirito di una generazione. Prendiamo come esempio la caratterizzazione dei personaggi.
duce una grande eco. Ma è anche uno dei primi film la cui ricezione sembra concentrarsi prepotentemente sul concetto di mercificazione e di sfruttamento di un determinato im- maginario. Cfr. Geoff King, Lost in Translation, cit.
Bingham rappresenta l’evoluzione del protagonista dei film “in presa diretta” sulla Generazione X (Giovani, carini e disoccupati e Slacker) che, vent’anni dopo l’entusiasmo giovanile si ritrova bloccato. Riproponendo, quindi, quel- lo schema di rovesciamento proprio del cinema post-Nuova Hollywood che rappresentava gli ex esponenti della controcultura e della lotta giovanile degli anni Sessanta ormai imborghesiti e alle prese con una crisi di personalità davanti alle responsabilità (uno dei film più rappresentativi in tal senso è The
Big Chill [Il grande freddo, Lawrence Kasdan, 1983]). Dei quarantenni non
completamente cresciuti51 che hanno cercato di replicare le strutture protet-
tive dell’adolescenza attraverso il consumismo e il rifiuto delle responsabilità. Atteggiamento che porta nella sfera affettiva quel senso di precarietà che le generazioni più giovani (il personaggio di Natalie Keener [Anna Kendrick]) affronteranno sul posto di lavoro (non è un caso che Tra le nuvole ragioni sulle conseguenze della crisi economica sulla vita delle persone anche grazie all’interessante utilizzo di veri lavoratori americani licenziati nella parte dei personaggi vittime di Bingham) con un atteggiamento diverso, che li porta a reagire non più con rabbia o ironia alle situazioni, ma con empatia e rassegna- zione (si veda il momento in cui Nathalie decide di lasciare il lavoro).
Anche in Young Adult si esplicita questo tipo di conflitto interno al per- sonaggio. Mavis Gary (Charlize Theron) è ritratta in un sistema di oggetti connotati ma non meno impersonali. Il suo viaggio epifanico nella cittadina natale di Mercury – dove ritorna per riallacciare i rapporti con il suo fidanza- to dei tempi dl liceo, che ha appena avuto un bambino – è interrotto perché la supposta innocenza è perduta, e il panorama della sua città natale è ormai quello di un enorme suburb con grandi magazzini e catene di fast food. Inte- ressante la contrapposizione tra il locale della gioventù di Mavis, un bar poco alla moda, con arredamento tradizionale e con colonna sonora a base di mu- sica alternativa (Dinosaur Jr., Lemonheads, Replacements, Teenage Fanclub), e il luogo in cui lei e Buddy Slade (Patrick Wilson) si incontrano: un anonimo locale sulla scia della catena Hard Rock Cafè ma in chiave sportiva.
Ma restiamo su Tra le nuvole concentrandoci su come Reitman cerchi di allontanarsi da alcune stilizzazioni dell’indie per inseguire una espressività più personale.
La messa in scena del film tenta da subito di costruire l’idea di annulla-
mento del personaggio contemporaneo. La sequenza d’apertura – sulle note di una trasfigurata versione soul di This Land Is Your Land, canzone del 1940 di Woody Guthrie emblema della lotta contro le disparità sociali negli Stati Uniti (altro elemento simbolico la scelta di una cover di questo brano ese- guita nel 2005 dalla cantante afroamericana Sharon Jones) – è composta da inquadrature in campo totale di panorami rurali americani. Questi quadri sorprendono per la loro omogeneità geometrica. Chilometri quadrati di terra coltivata in modo da formare quelle che dall’alto sembrano tappezzerie tutte uguali. Ogni volta che Bingham raggiunge una nuova città, questa ci viene introdotta da un’inquadratura aerea, soggettive di un ipotetico osservatore che guarda dal finestrino di un aereo che tracciano le tappe del viaggio di Bingham. Le città sono viste dall’alto, mostrando il loro disegno architetto- nico: il centro direzionale con i grattacieli circondato da un immenso suburb composto da caseggiati via via sempre più bassi. Ed è proprio in quei grat- tacieli che Bingham si reca per disumanizzare (i licenziati reagiscono dichia- rando di sentirsi nullità senza il lavoro). È una scelta interessante perché il cinema indie solitamente usa pochissimi campi totali o panoramiche. Con- centrata sulla dialettica tra primi, primissimi piani e dettagli, la retorica di un racconto minimalista sembra rifiutare le inquadrature d’insieme a meno che non siano degli establishing shot. Se il concentrarsi dei primi piani può essere interpretato come il tentativo di definire una personalità eccezionale, la scelta in controtendenza di Reitman vuole proprio suggerire il processo inverso. Bingham è un uomo perso, un uomo che cerca di portare tutto verso la disumanizzazione: l’uomo e la donna si connotano attraverso le tessere fedeltà; i legami stabili sono catene che opprimono; non è importante chi si è (la sequenza in cui i protagonisti si introducono alla festa della convention degli informatici prendendo i cartellini con nomi di altre persone). È chiaro che questo sistema è costruito apposta per crollare. In Lost in Translation, per esempio, la caratterizzazione dei due personaggi principali (Bob Harris [Bill Murray] e Charlotte [Scarlett Johansson]) punta proprio alla definizione di due personalità eccezionali che si incontrano grazie a un contesto disumaniz- zato da cui cercano con tutte le loro forze di evadere (e infatti il film abbonda di primissimi piani e annulla quasi totalmente il campo/controcampo se non nei dialoghi tra i due protagonisti).
La sequenza del matrimonio della sorella Julie (Melanie Lynskey) viene costruita su più livelli distinti. A livello di narrazione, sembra riproporre il
tema del ritorno a casa come momento di pausa che permette la svolta verso la redenzione finale. Non a caso, non solo Ryan porta Alex con sé, ma si trova anche nella condizione di dover convincere il promesso sposo Jim (Danny McBride), durante una crisi il giorno delle nozze, a non rinunciare a sposarsi dopo che per tutta la vita ha tenuto conferenze sull’importanza di essere da soli e liberi di muoversi come meglio si crede («life is better with company. Everbody needs a co-pilot»). Usare una convenzione narrativa istituzionale può significare uno scarto dalle norme indie per cui, rispettando le riflessioni sullo “smart” cinema, bisogna comunque ribaltare le situazioni a livello sim- bolico per creare distacco critico. Si vede Ryan inquadrato a figura intera e non più frammentato, assieme ad Alex e immerso in posti riconoscibili come il vecchio liceo. Il matrimonio, poi, è diretto con la macchina a mano. A sug- gerire l’idea non tanto di cinema amatoriale, quanto di empatia e vicinanza. Parole, queste, che suggeriscono una determinata scelta stilistica e il ruolo sempre più importante, per la scena culturale americana, del concetto di new
sincerity52: un’opposizione alla dittatura dell’ironia e del distacco, del rifiuto
delle grandi cause collettive e dell’impegno. Per quanto riguarda gli studi ci- nematografici, Geoff King si è recentemente interrogato sui modi in cui l’in-
die mischia ironia, empatia e sincerità non solo in prodotti di sistema (come
per il già citato caso di Juno e Little Miss Sunshine) ma anche nelle esperienze del mumblecore53 o del cinema di Kelly Reichardt54.
Altra discontinuità con la prima fase della carriera di Reitman è la deci- sione di rifiutare sia l’happy end, sia uno sfumato what if che lasci una porta aperta sul futuro senza prendere nessuna posizione apparente (altro elemento ricorrente nel cinema indie). La presa di coscienza segue un’epifania diversa da quella che i protagonisti si aspettano. Dopo il matrimonio della sorella, Ryan è costretto in ufficio per l’attivazione del programma di licenziamen- to a distanza messo a punto da Nathalie. Deluso dall’interrompersi del suo continuo movimento, prende l’ennesimo aereo per andare a Chicago da Alex, deciso a dichiararsi e rinunciare a quanto predicato lungo tutto il corso del film. Nella “vita reale”, però, Alex è sposata con figli. Il che porta il protago-
52 Solo per restare agli ultimi contributi del dibattito, cfr. Jonathan D. Fitzgerald, Sincerity,
Not Irony, Is Our Age’s Ethos, «The Atlantic», 20 November 2012, <http://www.theatlan-
tic.com/entertainment/archive/2012/11/sincerity-not-irony-is-our-ages-ethos/265466/>
53 Cfr. Mumblecore in Geoff King, Indie 2.0, cit., pp. 122-169. 54 Cfr. Geoff King, Indie 2.0, cit.
nista a seppellire i suoi propositi di cambiare vita e uscire dai non-luoghi per rimettersi a volare. Proprio durante il suo viaggio a Chicago, infatti, una delle persone che vediamo venire licenziata nel corso del film si suicida, rispettan- do così quanto dichiarato nella sequenza in cui ci viene mostrata in preceden- za («I’m pretty confident about my plans. There’s this beautiful bridge by my house. I’m gonna go jump off it»), spingendo quindi Nathalie alle dimissioni e l’azienda a sospendere il programma di lavoro a distanza. Ryan può quindi ritornare a essere considerato un puntino luminoso che solca i cieli americani mentre la gente torna a casa. «Tonight most people will be welcomed home by jumping dogs and squealing kids. Their spouses will ask about their day, and tonight they’ll sleep. The stars will wheel forth from their daytime hid- ing places; and one of those lights, slightly brighter than the rest, will be my wingtip passing over», recita Clooney in voice over durante le inquadrature conclusive. Il tono amaro della voce si accompagna non solo all’unico, vero primissimo piano dell’attore, ma anche a uno sguardo in macchina, seguito da uno stacco su un cielo americano solcato da un aereo. Come l’apertura, ma con una differenza sostanziale. Ryan ha riacquistato una sua individualità. È stato “morso dalla realtà” acquistando una consapevolezza prima assente.
In conclusione l’indie è diventato un marchio da vendere. Si sono quindi via via messe a punto delle strategie comunicative (apparati paratestuali che si richiamano l’un l’altro), delle tattiche commerciali (festival, grandi città, cittadine universitarie) per promuovere i prodotti verso il proprio pubblico ideale (lavoratori del terziario, studenti universitari, persone ad alta alfabe- tizzazione) e delle strategie narrative per allargare il bacino d’utenza presso l’audience generalista con alcuni “top seller”. Questa sistematizzazione, poi, è passata dalla produzione al film, portando alla definizione di un set di carat- teristiche condivise confluite in uno “stile collettivo” in grado di rispondere a un pubblico che nutre determinate aspettative in questo tipo di prodotti. Uno stile, quindi, capace di agire a livello sia tecnico-formale, sia contestuale, perché risponde e si fa carico di una serie di sintomi culturali. Sintomi che riguardano un determinato stile di vita e un determinato stile di consumo. Una rete culturale, quindi, in cui il film indie va esperito accanto a canzoni
indie, vestiti indie e comportamenti indie cercando quindi di ricreare un sen-
so di appartenenza comunitario anche se non più vissuto in luoghi liminari in opposizione a quelli pienamente corporativi (per esempio possono capitare esperienze quali prendere un caffè da Starbucks, un franchise con 20.891
punti vendita nel mondo con Nick Drake in filodiffusione e una clientela che rispecchia fedelmente l’immaginario indie).
Il caso di Jason Reitman, dunque, è interessante perché permette di leg- gere l’evoluzione del termine indie attraverso diverse prospettive. Per esempio quella industriale. Per cui un film indie non è necessariamente fuori dal main-
stream, ma ne fa parte. Oppure quella contestuale. Dove un film è indie quan-
do viene “percepito” come tale. I suoi quattro film possono essere analizzati per constatare un progressivo deterioramento dei confini tra indipendente e commerciale (e quindi letti come la quintessenza del cinema indiewood che, come abbiamo visto, per alcuni rappresenta l’ormai inevitabile compromesso che priva di quella forza di rottura i film “rigorosamente indie”). Nel cinema di Reitman si legano molti fili rossi. Dalla crisi dell’esponente della Gene-
razione X al coming-of-age delle giovani generazioni, passando per l’autode-
terminazione della cultura indie riconosciuta come oggetto mercificato, per arrivare a un dialogo tra la città e il ritorno a casa visto con gli occhi di chi non vuol credere al mito dell’epifania collettiva nei luoghi della gioventù. In questo, Jason Reitman si pone anche come interprete di diverse realtà interne alla società americana. E lo fa attraverso un cinema che, usando i termini e gli spazi dell’indie, racconta momenti di passaggio, transizioni e mutamenti sociali, economici e antropologici. In questo senso, l’American Indie – come luogo di sintesi di diverse culture, diverse configurazioni stilistiche e diversi contesti commerciali – riesce davvero a essere un orizzonte utile attraverso il