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La “storia” dell’11 settembre, cominciata nell’immagine con l’attentato alle Torri Gemelle, ha avuto una conclusione visiva sicuramente insoddisfacente, per nulla adeguata non soltanto al suo prologo, ma anche, più in generale, allo scenario che abbiamo sinteticamente descritto. La cattura e l’uccisione di Bin Laden, avvenute il 2 maggio 2011 ad Abbottabad, in Pakistan, sono in- fatti testimoniate soltanto da due fotografie. La prima rappresenta il volto del terrorista ricoperto di sangue, gli occhi quasi cancellati dalle ferite e la bocca socchiusa dalla sorpresa e dal dolore; da un certo punto di vista – anche ca- tartico – è forse la più utile; ma è anche la meno importante, perché è priva di storia, è letterale e militare, non contiene alcun dramma, alcun “movimento”, e sicuramente non possiede la forza narrativa o simbolica di ripagare, esor- cizzare e chiudere le centinaia di riprese audiovisive e di fotografie che hanno testimoniato, quel giorno di settembre del 2001, la traduzione dell’immagi-

nazione omicida di Bin Laden. È insomma priva di reciprocità rispetto alla sofferenza che marca in modo inequivocabile tutto il prologo della vicenda – il

volo disperato degli uomini e delle donne rimasti intrappolati nelle torri, le telefonate al 911, gli occhi pieni di lacrime, rivolti al cielo, di amici e parenti o semplici passanti, i muri del pianto affollati di fotografie… – e che l’ammi- nistrazione Bush avrebbe voluto infliggere, in dosi almeno equivalenti (anche dal punto di vista mediale), all’organizzazione responsabile dell’attentato. In quel primo piano, invece, è già tutto finito, e Bin Laden non rimanda per niente al «the world’s most dangerous man».

La seconda fotografia è del tutto diversa, e diversamente insoddisfacente. È lo scatto che ritrae il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il suo vice Joe Biden, il suo Segretario di Stato Hillary Clinton e un’altra manciata di persone (politici e militari e colletti bianchi di Washington) seduti o in piedi all’interno

della Situation Room della Casa Bianca – tavoli, sedie, computer, monitor e collegamenti satellitari. Lo scatto, dall’alto, è più amatoriale che ufficiale, come sembra suggerire la porzione di nuca in basso a sinistra e il corpo quasi del tutto tagliato dell’uomo in giacca scura sulla destra. Il punto di vista è interno, ov- viamente “legittimo” (niente di rubato), ma sembra implicare l’assenza di una procedura, anche minima, di “messa in scena”, come se l’obiettivo non fosse quello di realizzare un’immagine ufficiale ma di documentare più semplice- mente un momento tra gli altri della partecipazione comune di quel gruppo di persone a un evento collocato fuori campo. Un’impressione che ne sostiene con forza un’altra, quella della verità dello scatto – nessuno, appunto, messo in posa, niente di orchestrato, la forte divaricazione tra lo sguardo del fotografo e quello dei soggetti fotografati, del tutto insensibili a quella traiettoria d’osservazio- ne. La forza dell’asse visivo che lega le persone nella stanza all’oggetto del loro sguardo è infatti tale da rendere il punto di vista del fotografo quasi del tutto invisibile; e l’invisibilità si raddoppia con riferimento al vero centro della scena, posto fuori dai bordi dell’immagine, al termine (negato) di quegli sguardi.

Il “contenuto” della fotografia, in effetti, non sono né Obama, né Hillary Clinton, né nessun altro, ma questo guardare rapito, teso, totalizzante verso qualcosa che accade fuori campo, a sinistra, probabilmente proiettato su uno o più schermi; l’azione è tutta in questo tendere lo sguardo e il corpo (il corpo per assecondare lo sguardo, e il corpo quasi raccolto nello sguardo), rafforzata dalla varietà con cui si realizza – anche grazie alle figure di contorno, come la ragazza che si ritaglia uno spazio d’osservazione stando fuori dalla stanza troppo affolla- ta, o come l’uomo davanti a lei, costretto a inclinarsi verso sinistra per superare l’ostacolo di chi gli sta davanti; sembrano due intrusi, non invitati, due passanti trattenuti dall’importanza dell’evento. Al tempo stesso, la scena ha il potere di commentare, di riflesso (come in un reaction shot), attraverso i modi con cui si realizza questo guardare rapito, per mezzo delle reazioni e delle posizioni in par- te inconsapevoli che lo accompagnano (posture, gesti, espressioni facciali ecc.), l’oggetto di quello sguardo, ciò che è precluso allo spettatore della fotografia: sappiamo, dalla “didascalia” ufficiale che accompagna l’immagine, che si tratta dell’azione, trasmessa in diretta, della cattura e dell’uccisione di Bin Laden; questo il “fatto”; quanto alla forma – come si sta svolgendo l’azione? –, la pos- siamo intuire, appunto, solo dalla piega emotiva di quel guardare, dallo stupore preoccupato della Clinton, per esempio, o dalla virile tensione del Presidente, o da quell’attrazione scomposta dei due personaggi sullo sfondo ecc.

In assenza di un controcampo che allarghi i bordi della fotografia per inclu- dere ciò a cui mirano quegli sguardi (sappiamo che cos’è, ma non possiamo ve- derlo), questo pubblico e le sue reazioni rappresentano a ben vedere – a dieci anni dall’attentato alle Torri gemelle – la versione “ufficiale” (o la più vicina a qualcosa di ufficiale) della cattura e dell’uccisione di Osama Bin Laden; ne raccontano la storia e, insieme, la sua drammatizzazione in forma di risposta emotiva; più an- cora, dovrebbero certificare che quella cosa è davvero accaduta, e che qualcuno – letteralmente – può testimoniarlo per il fatto di averla vista accadere. Epilogo insoddisfacente, anzi, doppiamente insoddisfacente: da un lato, perché uno degli episodi più importanti della storia contemporanea (e l’epilogo dell’evento che ha segnato in modo indelebile l’inizio del terzo millennio) è tutto e soltanto negli occhi e nelle reazioni di un piccolo gruppo di persone, concentrate a osservare un fuori campo inattingibile al resto del mondo; dall’altro lato, perché questa fotografia impone di accogliere, per essere creduta vera, una richiesta che, sullo sfondo di quel paradigma che abbiamo descritto più sopra, sembra non solo im- possibile, ma quasi illegittima: chiede di fidarsi di quegli sguardi, di credere alla verità testimoniale di quell’emozione che traduce e sintetizza il momento in cui la cattura di Bin Laden è stata vista e vissuta, e dunque ha cominciato a esistere; chiede di credere allo sguardo altrui, mentre essa si trasforma, attraverso quel fuori campo mai colmato e al tempo stesso (e proprio per questo) trasformato in un “oggetto” del desiderio, nell’emblema di una censura e di una sottrazio- ne del visivo del tutto impensabile nella società contemporanea, attraversata da un’onnipotenza dello sguardo. Tanto che, in filigrana, quella fotografia, col suo pubblico speciale che partecipa emotivamente a un fuori campo negato al resto del mondo, vale anche come efficace rappresentazione dell’idea contemporanea di potere – vedere ciò che ad altri è negato vedere – e incarna uno spostamento pragmatico e valoriale esemplare: dal potere dell’immagine, vissuto e elaborato collettivamente, al potere che deriva dal possedere in modo esclusivo la facoltà di contemplare un’immagine.