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I segreti di Brokeback Mountain, l’uomo, il mito

«He’s all man – we made sure of that». È ciò che risponde durante la sua pri- ma campagna presidenziale Ronald Reagan, alla domanda di un giornalista evidentemente impertinente sul figlio ballerino Ron, con altrettanta evidenza non proprio in odore di santità o di mascolinità. I coniugi Ronald e Nancy si premurano di accertarsi che il figlio in calzamaglia sia tutto d’un pezzo, uomo da cima a fondo; la loro premura è tale che il povero Ron lascia la danza, terreno minato di effeminatezza e omosessualità impervie, si sposa e entra nel mondo della televisione, un campo ben più virile del palcoscenico e del tutù.

L’aneddoto1 è pettegolo ma non sciocco, e conferma l’ideale virile a cui

guardano la società e la cultura dominanti, e del quale Hollywood è madre: l’uomo (ancor più se di potere) deve rispondere a determinati canoni di natu- ra, ben prima che di comportamento o morali; i suoi familiari non possono essere da meno. Il cinema di uomini è prima di tutto un cinema di uomini maschi, e dunque virili. L’uomo è il breadwinner, la donna bada alla casa e il figlio rincorre con più o meno estasi il modello paterno. La famiglia mono- nucleare – in aggiunta all’amore eterosessista – è l’unico rifugio cui aspira il cinema hollywoodiano, con alcuni generi in particolare (il musical su tutti) a farne da veri e propri portabandiera. Talvolta sopraggiunge un elemento scardinante, tanto che le prospettive vengono disarcionate e confuse (Shane [Il cavaliere della Valle Solitaria, George Stevens, 1953], per esempio, è un western dove conformismo e malizia queer vanno a braccetto); ma a regnare,

1 John M. Clum, “He’s All Man” – Learning Masculinity, Gayness, and Love from American

It is my belief that a conventional cinema, such as classical narrative, is unable to address the experiences or issues of lesbian and gay perceptions, concerns, and concepts. When an audience awaits the image on the screen it expects a heterosexual narrative to unfold, and the audience is not dis- appointed2.

Sulla necessità dell’astrazione nei media, ovvero di una forma in cui

anything goes e che permetta al fruitore di inserirsi attivamente, alla larga da

qualunque ricezione passiva, Barbara Hammer osserva che non può esserci

novità laddove ci sono cinema e narrazione classici. «Even if the characters

are lesbian, the script projects lesbian characters within a heterosexual world of role-playing, lovemaking, and domestic and professional life»3. Se è vero

che a Hollywood la differenza ha assunto nel corso dei decenni fisionomie

mostruose (come insegnano in particolare horror e fantascienza) o secondarie

e trascurabili, a maggior ragione la queerness non ha smesso di venire depo- tenziata e annullata, trasformata in sponda funny e witty o alternativamente in sissy inerme, in un mondo di parti e di attese egemoniche. Gli alieni from

outer space e le dark lady e l’illegalità del noir sono i segnali di un pericolo in-

vasivo diverso dall’uniformità (serena e accreditata) della società; d’altra parte, i ruoli di spalla interpretati da Edward Everett Horton in numerosi musical con Fred Astaire e Ginger Rogers, per esempio, non fanno che confermare la bontà della coppia dei protagonisti, alla quale l’affettata spiritosaggine del caratterista non può che donare carattere di unicità rappresentativa e idea- listica. Nel cinema hollywoodiano la diversità funziona generalmente come metro di paragone o come valvola di sfogo per pensieri e sentimenti egemoni; quando va bene (cioè, va male), essa è conciliante e rassicurante di un rap- porto sociale dominante (In & Out [id., Frank Oz, 1997], As Good as It Gets [Qualcosa è cambiato, James L. Brooks, 1997]); quando va meno bene (cioè, va malissimo), è un cliché queer totalmente inadeguato alla realtà di cui so- gna peraltro di far parte (Flawless [Flawless – Senza difetti, Joel Schumacher,

2 Barbara Hammer, The Politics of Abstraction, in Queer Looks – Perspectives on Lesbian and

Gay Film and Video, Routledge, London, 1993, p. 70.

1999], To Wong Foo, Thanks for Everything! Julie Newmar [A Wong Foo, grazie

di tutto! Julie Newmar, Beeban Kidron, 1995]), proprio come la Dorothy di The Wizard of Oz (Il mago di Oz, Victor Fleming, 1939) che over the rainbow

cerca comunque casa. Eppure l’heterosexual world of role-playing, lovemaking,

and domestic and professional life di cui parla Hammer è il contesto sine qua non di Brokeback Mountain (I segreti di Brokeback Mountain, Ang Lee, 2005)

nel quale i due protagonisti cowboy trovano ragione e sostanza. È proprio dentro quest’immaginario, di ruoli, amori e vite domestiche e professionali assolutamente e inevitabilmente eterosessuali, che il western mélo di Ang Lee configura la sua anima divisa in due: da una parte, la pulsione alla messa in crisi di una mitologia eroica conservatrice; dall’altra, il confinamento insupe- rabile della disparità nella solitudine e nel rimpianto.

È subito dall’incipit che il film (tratto da un racconto di Annie Proulx) cerca un’altra dimensione, immediatamente identificabile in segni e gesti

queer. Nell’attesa dell’arrivo del datore di lavoro (Randy Quaid), Jack (Jake

Gyllenhaal) e Ennis (Heath Ledger) si ritrovano nello spiazzo antistante l’uf- ficio, uno di fronte all’altro, in artifici tipicamente cruising (Jack, in partico- lare, è appoggiato al furgoncino fra offerta e vanità, come in uno scatto di

Physique Pictorial o in posa per una copertina di un video Falcon). Il progetto

è già chiaro: rovesciare un’immagine mainstream dal di dentro, ipotecando immediatamente intenzioni e target (il pubblico specialistico è messo sul chi va là). Da qui, da questa sensibilizzazione di gender che nasce all’interno di un quadro mitologico ben definito, da questa petizione di principio comunque non scontata nei parametri del cinema hollywoodiano, I segreti di Brokeback

Mountain si sviluppa seguendo due ideologie, che i queer studies vedrebbe-

ro tutt’altro che complementari: Jack e Ennis formano (loro malgrado?) una coppia di fatto che il film mostra, sebbene per piccoli dettagli, attraverso dinamiche e reazioni da coppia classica eterosessista appartenente al cinema tradizionalista e all’immaginario dominante; d’altra parte, la progressione e l’ambito degli eventi sono tali che la rappresentazione dei due personaggi principali non può che rientrare nell’immagine stereotipica dell’«homosexual as a sad young man», per dirla con Richard Dyer. Progressismo e allineamen- to si scontrano: il risultato è un prodotto di Hollywood che ipotizza la libera- zione ma che ne azzera gli effetti con il suo stesso assunto. Ciò non significa che la forza di I segreti di Brokeback Mountain sia ridimensionata a tal punto da risultare spuntata: l’incrinatura del mito della virilità egemonica funziona

come contemporanea mitizzazione di identità altrettanto virili e rivoluziona- rie non tanto per il mondo quanto per l’idea che il mondo ha di loro. «What the sad young man stereotype delivers is the reassurance that there will be resolution and certainty. The world before the sad young man offers four resolutions: death, normality, becoming a dreadful old queen or […] finding ‘someone like oneself’ with whom one can settle down»4: mentre morte e

normalità trovano entrambe prevedibile svolgimento, e incontrare qualcuno uguale a sé con cui sistemarsi è soltanto illusione («Two guys living together?» chiede retoricamente Ennis a Jack; «No way», si risponde da solo), I segreti di

Brokeback Mountain riesce a innalzare a leggenda due vite e due modi di esse-

re con la medesima efficacia filmica del freeze frame finale di Thelma & Louise (id., Ridley Scott, 1991), che consegnava le due donne in fuga al ricordo futu- ro. Mitologia e contro-mitologia: come nel road movie di Ridley Scott, anche nel western di Ang Lee il mito si forma con la (sua) morte; e se per l’ideologia

queer «the situation in which options are open, in which sexual identity is

not fixed, will not last»5, la camicia di Jack che Ennis nel finale tiene appesa

all’anta dell’armadio ha lo stesso valore di un voto, immagine sacra destinata a imperitura memoria così come la sospensione infinita della Thunderbird sul vuoto del canyon di Thelma & Louise.

Dopo aver lottato con un orso, Ennis torna al bivacco dove l’attende Jack, che gli si rivolge con il tono geloso della moglie che ha aspettato fino a tardi il rientro del marito. All’indomani del loro primo rapporto sessuale, Jack saluta la partenza giornaliera di Ennis, «See you for supper»; verso la fine del film, in un flashback, Jack ricorda quando Ennis, una mattina, lascian- do il campo gli disse «See you in the morning». La relazione che s’instaura fra i due uomini inizia dunque con un confronto apertamente cruising ed è ratificata da una sodomizzazione senza preliminari né baci. Questa specifica

queer viene però subito trasformata in un quadro di meccanismi domesti-

ci che i panorami selvaggi sembrano contestare. La sensazione è che il film intenda “spaesare” i personaggi, renderli unici e invisibili al mondo, tanto che quando il loro datore di lavoro li sorprende da lontano col cannocchiale seminudi e in atteggiamenti compromettenti, non ha conseguenze rilevanti sullo sviluppo della vicenda (tranne che per un paio di battute). Jack e Ennis

4 Richard Dyer, The Culture of Queers, Routledge, London, 2002, p. 132. 5 Ibidem.

sono due cowboy innamorati che vivono il loro amore alla larga da qualunque sguardo indiscreto, nel profondo di una natura incontaminata. I queer studies “d’antan” avrebbero da ridire. Il finale di un film intitolato A Very Natural

Thing (Christopher Larkin, 1974) (inedito in Italia), noto per essere una delle

prime pellicole distribuite nel circuito mainstream a raccontare la “normalità” quotidiana di una relazione fra due uomini (e non dunque il cinismo maso- chistico di drammi alla The Boys in the Band [Festa per il compleanno del caro

amico Harold, William Friedkin, 1970]), mostra i protagonisti che, al ralenti

e accompagnati da una musica trionfalmente romantica, corrono nudi beati e felici su una spiaggia deserta. Mentre ne rimarca l’importanza, specialmente perché «it was a sequence that sent its original audiences out into the dark homophobic world with a euphoric, utopian energy»6, non potendo sottova-

lutarne la forza che riflette «the mood of a whole generation of gay men who had discovered the freedom and beauty of their own bodies, each other, and the world outside the closet door»7, Thomas Waugh evidenzia che si tratta di

un happy ending dal sapore amaro e forse non così innovatore come appare in superficie: i due uomini gioiscono, si tengono per mano e celebrano la loro specificità in un panorama di desolazione pressoché “post-atomica”, senza nessun’altra persona all’orizzonte. Soli nell’universo: una cosa molto naturale, d’accordo, ma purché nessuno veda. In I segreti di Brokeback Mountain, la dimensione della passione fra Jack e Ennis pare avere lo stesso valore. La sco- perta del piacere dei propri corpi, elaborato fuori dalle lenzuola di un focolare domestico obbligato ma non voluto, si sviluppa fra i monti, le pecore, il gelo e lande sterminate, in assenza di sguardi ficcanaso. Il Wyoming diventa così un refugium peccatorum, piuttosto che la cornice ideale per l’emancipazione dei sensi e dei sessi. Fuori dal mondo, l’amore di Jack e Ennis perde istanta- neamente portata politica (e quindi sociale): «This sense of social identity, of belonging to a group, is a prerequisite for any political activity proper, even when that identity is not recognised as political»8. Jack e Ennis non apparten-

gono a nessun gruppo, non sono i rappresentanti di nessuna società, rappre- sentano esclusivamente se stessi, e per di più lontano dalla cosiddetta civiltà, come se il loro amore dovesse tornare a uno stato brado ideale per realizzarsi.

6 Thomas Waugh, The Fruit Machine – Twenty Years of Writings on Queer Cinema, Duke

University Press, Durham, 2000, p. 20.

7 Ivi, p. 21.

«In homophobic society, the necessary fiction of a cohesive identity must be spoken in order for political communities to maintain any sort of presence»9:

l’identità taciuta, e per di più rimossa dalla società (quantunque omofobica), è un’identità a metà, è un’identità castrata che rinuncia alla propria presenza nel reale. In questo mondo non-mondo, dove perfino le articolazioni delle due spazialità cardine – la tenda in esterni e la casa in interni – assumono una pura connotazione simbolica, il mélo veste gli abiti un po’ “vergognosi” della

fairytale, mentre il West «is a nostalgic, mythical place. How could its view of

pure masculinity do anything but sow seeds of frustration […]?»10.

Eppure la virilità di Jack e Ennis non è mai messa in discussione. Nella prima parte del film, è Jack a indossare il ruolo sessuale “subordinato”, e non per la sua passività nell’amplesso sotto la tenda. È lui a rimproverare Ennis del ritardo e dell’averlo lasciato solo ad aspettare, ed è lui il bersaglio del sarcasmo di Ennis quando quest’ultimo spara al cervo, dopo che Jack ha dato prova più volte di avere una mira inefficace. «If adult masculinity was indistinguish- able from the breadwinner role, then it followed that the man who failed to achieve this role was either not fully adult or not fully masculine»11. Ma se da

subito è Jack ad avere comportamenti da fool, e a mancare di buon occhio per tirare col fucile (fallendo dunque come breadwinner), la sua mascolinità ri- mane integra anche accanto all’ombrosità taciturna del più virile Ennis. Però è proprio quest’ultimo che, nella seconda parte, muta nel più debole dei due, mentre Jack appare il più responsabile e risoluto. Ennis divorzia dalla moglie Alma (Michelle Williams) e progressivamente si isola da tutto e tutti (anche dalle figlie), non riuscendo a fare i conti con un’insoddisfazione che è prima di ogni altra cosa intima. «I’m stuck with what I got here», dice Ennis a Jack sul letto del motel. Ennis è intrappolato in un’esistenza sociale cercata per ob- bligo ma inadatta ad appagarlo. «It is precisely when the penis-phallus is hid- den from view in patriarchy that it is most centered»12: nel West patriarcale,

l’uomo è chiamato alle Armi domestiche, prima ancora che a quelle dell’eser-

9 Caroline Evans, Lorraine Gamman, Reviewing Queer Viewing, in Harry Benshoff, Sean

Griffin (eds.), Queer Cinema – The Film Reader, Routledge, London, 2004, p. 215.

10 John M. Clum, “He’s All Man”, cit., p. 82.

11 Barbara Ehrenreich, The Hearts of Men – American Dreams and the Flight from

Commitment, Anchor Press, Norwell, 1983, p. 20.

12 Peter Lehman, Running Scared – Masculinity and the Representation of the Male Body,

cito; il fallocentrismo della società maschilista è una questione di educazione e di crescita («Boy should watch football» borbotta il suocero di Jack durante un pranzo in famiglia, riferendosi ai doveri televisivi adolescenziali del ni- pote, con prevedibile irritazione del genero), che impone di saper mirare e sparare e provvedere a moglie e figli. Jack non ha una buona mira, Ennis riesce a stento a garantire l’assegno di mantenimento. Però la virilità dei due protagonisti è intatta, se diamo retta a John M. Clum: «The test of manhood is not in the professional world or on the playing field. It is in the bedroom»13.

Jack e Ennis danno prova della loro mascolinità sia sotto le lenzuola coniugali (generando eredi: prova suprema), sia nei giacigli improvvisati che li vedono stringersi fra loro. Mentre il film dissacra il cowboy come figura mitica che non deve chiedere mai, al contempo ne sviluppa le possibilità amatorie, mol- tiplicandole. «In John Wayne films, soft, handsome young men had to be hardened by the dominant image of asexual phallic masculinity»14, però la

mascolinità di Jack e Ennis non ha bisogno di essere perfezionata. Il cowboy di Brokeback Mountain, insomma, non fa cilecca, ma anzi è rafforzativo di un’idea di uomo all man, tutto d’un pezzo anche quando fra le braccia di un altro cowboy. Ci sarebbe stato di che riempire di brutti sogni le notti del presidente Reagan. La mitologia western è salva; è il ritratto dell’eroe che al contrario subisce una smitizzazione, o almeno una metamorfosi definitiva.

Nel West maschilista e misogino di Brokeback Mountain, i “buoni” sono due cowboy omosessuali che reprimono il proprio piacere e se stessi abbando- nandosi alle norme imperanti e trovando infine il fallimento. L’immagine del gay come sad young man è mantenuta ma controbilanciata da una mitologia eroica che prevede l’omosessuale non più soltanto come martire, ma anche e soprattutto come uomo virile, maschio e capace di sopravvivere finanche a una natura rigidissima. «[…] the hero is up against foreignness, its treacher- ous terrain and inhabitants, animal and human. The latter are quite often his adversaries»15: non la sconfiggeranno, la società, però contro di essa Jack ed

Ennis si battono virilmente, seppure di nascosto. L’eroe (bianco), quello col cinturone e gli stivali, è dunque contemporaneamente sminuito – nella sua sacralità classica e dominante – e valorizzato. Jack ed Ennis appartengono al West ma non vi appartengono, ne vestono i panni però ne negano altresì le ri-

13 Ivi, p. 75. 14 Ivi, p. 52.

chieste e le aspettative. «Muscle heroes are not indigenous»16, sostiene Dyer in

una nota analisi della whiteness e, nello specifico, del corpo tornito e musco- loso come rappresentazione ideale («The built body presents itself not as typi- cal but as ideal»17) della superiorità bianca. Gli eroi di Brokeback Mountain

non sono muscolosi, e all’anagrafe risultano nati in queste treacherous terre, però sono stranieri in quanto non ne condividono le regole, sebbene ne siano comunque vittime. Sad young men, allora, e destinati alla morte (Jack) e al rimpianto (Ennis), eppure così uomini, così eroi, così cowboy. Come se il film di Ang Lee fosse la riproposizione hollywoodiana di un porno di John Travis: non sorprende che la community queer ne sia rimasta generalmente entusiasta. Lo stato delle cose ha la meglio sull’amore fra i due protagonisti, ma la loro virilità (oltre che la loro prestanza) non è vinta. Niente più sissies all’orizzonte, nessuna spalla comica col compito di alleggerire il dramma o far sorridere lo spettatore (rassicurandolo sulle sue certezze egemoni, riflesso condizionato della realtà). Il mondo sta a guardare, rifiuta, usa ancora violen- za ma è costretto suo malgrado ad alzare le braccia, proprio come il padre che, in chiusura di Hsi yen (Il banchetto di nozze, Ang Lee, 1993) alza le braccia per la perquisizione aeroportuale, segno simbolico di una resa e dell’accettazione travagliata di un pensiero altro, l’identità del figlio gay con la paura di fare con lui coming out. È il tradizionalismo ad alzare le braccia, il West egemone di John Wayne come modello autoritario di Montgomery Clift, il mito we- stern come terra di uomini breadwinner e rigorosamente eterosessuali. Come nella sua commedia del 1993, Ang Lee propone alla storia un’alternativa; il Wyoming, da par suo, pensa a fare il resto, ovvero a rielaborare una mitologia secolare e finora inamovibile (se non nel genere underground per eccellenza, il porno, il genere fuori vista e fuori portata, il genere bastardo che il circuito

mainstream rinnega, tranne qualche caso ancora oggi rarissimo). In questo

caso, è anche il paesaggio a fare la differenza.

16 Ibidem. 17 Ivi, p. 151.