• Non ci sono risultati.

Lincoln, ovvero: “Now he belongs to the ages”

Nell’articolo citato all’inizio, Scott nota come negli anni della presidenza Obama la figura di Lincoln sia divenuta ricorrente:

Our current bout of LINCOLNMANIA may have begun that frigid day in 2007 when Mr. Obama announced in front of the Old State Capitol in Springfield, Ill., that he was running for president. Since then Lincoln books have continued to pour in; the Ford Motor Company has taken Honest Abe out of cold storage for its rebranded Lincoln; and he has be- come an unexpected box-office draw with Steven Spielberg’s political pro-

29 Ibidem.

30 Da Ford a Citizen Kane (Quarto potere, Orson Welles, 1941), richiamato esplicitamente

da J. Edgar, film ossessivo, ambiguo, costruito su opposizioni non risolte e sul filtro me- moriale come unico possibile strumento di avvicinamento alla verità.

31 Alain Badiou, Logiques des mondes: l’être et l’événement, 2, Éditions du Seuil, Paris,

cedural, Lincoln. That Daniel Day-Lewis’s grave and wily interpretation of the mature president outperformed a younger, ax-wielding Abe in the gonzo Abraham Lincoln: Vampire Hunter wasn’t just a surprise, including at the box office, it was also one of the biggest film stories of 201232.

È ovvio che di questo neonato interesse per la figura del sedicesimo presidente degli Stati Uniti Lincoln rappresenti il testo più significativo, oltre a essere magnum

opus dell’era Obama, nel suo equilibro tra trattato storico, recupero in chiave sim-

bolica e metafora del presente. Un film importante, in quanto parlare di Abraham Lincoln vuol dire inevitabilmente confrontarsi con l’intera storia del cinema ame- ricano fin dalla sua nascita. Spielberg non rimuove il peso delle precedenti incar- nazioni cinematografiche del presidente, bensì le tiene ben presenti, senza però citarle direttamente. Attraverso il Lincoln di Daniel Day-Lewis passano il Francis Ford dei molti film realizzati tra il 1912 e il 1915, frammenti di una biografia ci- nematografica primitiva che confluirà poi nel Joseph Henabery di Nascita di una

nazione; Benjamin Chapin (quattordici volte Lincoln tra il 1916 e il 1918); Walter

Huston (Two Americans [Joseph Santley, 1929] e soprattutto Abraham Lincoln [Il

cavaliere della libertà, D. W. Griffith, 1930]); il Frank McGlynn Sr. della lunga

serie di pellicole biografiche degli anni Trenta, Henry Fonda (Young Mr. Lincoln [Alba di gloria, John Ford, 1939]) ecc. Ma significativa è anche la scelta di Spielberg di affidare alcuni ruoli di rilievo nel film ad attori che hanno interpretato Lincoln in passato, come Hal Holbrook, che nel corso della sua carriera ha prestato il volto

32 Anthony Oliver O. Scott, Movies in the Age of Obama, cit. Agli esempi citati da Scott

se ne potrebbero aggiungere molti altri: vanno citati almeno The Conspirator (id., Robert Redford, 2010), Saving Lincoln (id., Salvador Litvak, 2013) e il film televisivo Killing

Lincoln (id., Bill O’Reilly, 2013). Va però detto che un certo interesse per la figura di

Lincoln è rinato a partire dalla metà del decennio, grazie allo scalpore che hanno su- scitato due biografie pubblicata nel 2005: C. A. Tripp, The Intimate World of Abraham

Lincoln, Free Press, New York, 2005; Doris Kearns Goodwin, Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln, Simon & Schuster, New York, 2005. Due altre apparizioni in

chiave parodica del presidente sono quelle di figuranti vestiti da Lincoln in Bad Teacher (Bad Teacher – Una cattiva maestra, Jake Kasdan, 2011) e The Weather Man (id., Gore Verbinski), che esce nel 2005 e in cui a travestirsi, in occasione di una celebrazione, è lo stesso protagonista Nicolas Cage. Il trucco di Cage sarà poi parodiato da Simon Helberg al Conan O’Brian Show attraverso un finto provino per il ruolo principale del film di Spielberg: http://teamcoco.com/video/nic-cage-lincoln-lost-audition-reel). Va inoltre ri- cordato che nel 2009 è caduto il duecentesimo anniversario della nascita del presidente.

a Lincoln a teatro e in televisione33 e David Strathairn, che nel 2008 è protagonista

di The Rivalry di Norman Corwin per l’L.A. Theatre Works.

In virtù di queste premesse, Lincoln è un film biografico paradossale. Da un lato, infatti, Lincoln è figura quasi astratta, scopertamente simbolica: è quella silhouette che va incontro al tribunale della Storia in Alba di gloria di Ford che però abita il film per tutti i suoi centocinquanta minuti. Al contem- po, lo sforzo mimetico richiesto da Spielberg agli attori assomiglia a quello di un genere che negli anni Duemila ha riscontrato molta fortuna, quello del biopic, da A Beautiful Mind (id., 2001) e Cinderella Man (id., 2005), en- trambi di Ron Howard, fino a Walk the Line (Quando l’amore brucia l’anima, James Mangold, 2005), Capote (Truman Capote – A sangue freddo, Bennett Miller, 2005) o Infamous (id., Douglas McGrath, 2006). L’assurdità di questo mimetismo, che pure si riscontra senza difficoltà nel lavoro meticoloso degli interpreti, si scontra con un problema ovvio: quello di non avere la possibilità di studiare i personaggi se non attraverso qualche fotografia e testimonianze d’epoca. Eppure, il lavoro di Spielberg su Day-Lewis in particolare, lo preser- va dal pericolo che, in Amistad, trasformava, per La Polla, «tutti i personaggi [in] macchiette, talune divertenti e risibili, altre serie e detestabili»34.

Va inoltre sottolineato come il progetto di un film su Abraham Lincoln risalga a molti anni prima (Spielberg lo accarezza fin dal 1999, acquisendo poi i diritti del saggio Doris Kearns Goodwin prima ancora della pubblicazione), e come lo stesso Kushner inizi a lavorarvi poco dopo l’incontro con Spielberg per Munich. È solo a causa della lunga indagine di Kushner intorno alla figura di Lincoln (che va molto oltre il saggio della Goodwin a cui il film risulta, stando ai titoli, ispirato) che la lavorazione comincia nel 2009, in corrispon- denza con l’avvio del primo mandato di Obama.

Se quindi è limitativo ricondurre un’opera che fin dalle premesse appare estremamente complessa a un semplice prodotto dell’era Obama35, è però

33 Nelle serie TV Lincoln (NBC, 1974) e North and South (ABC, 1985-1986). 34 Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, cit., p. 152.

35 A mettere direttamente in relazione Lincoln con l’attuale presidente degli Stati Uniti

è anche un filmato realizzato da Spielberg in occasione della cena annuale della White House Correspondents’ Association (WHCA), in cui il regista parla di un film dedicato a Obama, interpretato da Daniel Day-Lewis. È però Obama stesso a presentarsi come un Day-Lewis che mostra al pubblico lo straordinario risultato nell’aderire perfettamente al ruolo che è chiamato a interpretare. La clip è stata poi caricata su YouTube attraverso il canale ufficiale della Casa Bianca: http://www.youtube.com/watch?v=ZyU213nhrh0.

legittimo riscontrare come la scissione tra Invictus e J. Edgar precedentemente accennata funzioni in questo caso tra Munich e Lincoln, l’uno film-chiave dell’era Bush, l’altro opera sintomatica di quella Obama. Ciò appare evidente da più punti di vista, a partire da un’interpretazione tematica generale: uno stato vendicatore che agisce sotterraneamente nel film del 2005, l’edificazione di una Nazione attraverso l’approvazione del tredicesimo emendamento da parte della Camera dei rappresentanti in quello del 2012. In Munich

la monotonia della serie di esecuzioni (le cui modalità non possono essere variate più di tanto) che si succedono nel film, è perfettamente funzionale: il loro stesso protrarsi nella realtà lungo un tempo misurabile in anni, il monopolio che esercitano di conseguenza sulla struttura narrativa, ne evi- denziano l’insostenibilità. […] Avner impazzisce – o impazzirebbe, se non arrivasse […] a una qualche forma di dubbio, se non di ribellione36.

Ciò che accade ai personaggi di questo film, come a quelli di molte altre opere dominate dal fantasma dell’11 settembre – da 25th Hour (La 25ª ora, Spike Lee, 2002) alla serie televisiva 24 (id., Fox, 2001-2010) – è la constatazione diretta del crollo di molte certezze. In questo senso, la reiterazione eterodiretta degli omicidi della squadra di Avner è metafora lampante di una nazione che procede alla cieca, salvata solo dal dubbio, così come il protagonista ripensa se stesso e il senso della propria missione fino al capovolgimento delle proprie posizioni e alla decisione di non proseguire. Munich è evidentemente un film sull’America frastornata dei pri- mi anni Duemila, ma è anche un film su un cinema che deve guardare alle proprie consuetudini per scoprirle se non ambigue, per lo meno inadatte a raccontare il presente. Il parallelo Avner/Spielberg è ulteriormente rafforzato dalla dimensione soggettiva del personaggio nell’immaginare la sequenza che sta al centro teorico dell’opera, ovvero l’azione terrorista di Settembre Nero nel corso delle Olimpiadi di Monaco. La scelta è stata rimproverata a Spielberg da molti critici, soprattutto in quanto le fasi più drammatiche del massacro vengono “immaginate” dal pro- tagonista mentre è a letto con la moglie. Da questo esempio di un «dispositivo retorico all’insegna della ridondanza e della saturazione»37, Alberto Pezzotta – tra i

36 Alessandro Cappabianca, La morte interminabile, «Filmcritica», LVI, 563, marzo 2006,

p. 135.

37 Alberto Pezzotta, Munich (Perché No), «Segnocinema», XXV, 138, marzo-aprile 2006,

più severi, in Italia, nel suo giudizio sul film – denuncia una «spettacolarizzazione quasi sempre indebita o non richiesta»38 (al contrario, quindi, di ciò che succede

in Hereafter), concludendo che «forse l’inadeguatezza non è tanto di Spielberg, quanto di un intero sistema di rappresentazione, quello del cinema americano, che davvero pochissimi […] riescono a forzare o ignorare»39. Nonostante lo scetticismo

di Pezzotta nei confronti del film, le sue osservazioni non sembrano fuori luogo:

Munich denuncia un’impasse prima di tutto del proprio sistema di rappresentazio-

ne. Il film, aderendo allo stordimento e all’incompletezza delle informazioni di Av- ner, non può che affidarsi alla sola logica spettacolare, costruita su pretesti che solo strumentalmente rimandano a una tragedia che nel film è mostrata (dunque esi- ste), in larga parte attraverso l’immaginazione del protagonista. Il tanto celebrato (soprattutto a partire da Saving Private Ryan [Salvate il soldato Ryan, 1998] e dalla celebre macrosequenza iniziale) realismo spielberghiano qui si arresta di fronte alla parzialità degli strumenti d’informazione e poi dei servizi segreti. L’evidenza delle scene di guerra di Salvate il soldato Ryan o delle immagini dedicate alle condizioni dei prigionieri del campo di sterminio di Schindler’s List sono un lontano ricordo: la giustapposizione delle sequenze degli omicidi della squadra di Avner funziona come una lunga serie, priva di progressione perché priva di un fine, di momenti di suspense talvolta (come nel caso dell’attentato parigino) dilatati e virtuosistici. Più che ai film “d’impegno” dello Spielberg anni Novanta, con Munich sembra di essere vicini a un modernismo di stampo hitchcockiano (Hitchcock è un punto di riferimento, secondo Menarini, anche dell’ultimo Tarantino)40, a un racconto che

«nega al protagonista l’accesso alla verità»41, un film costruito come una spirale po-

tenzialmente infinita, in cui «la parte d’ombra continua ad aumentare, seguendo il gioco regolato-sregolato che guida il film dall’inizio alla sua conclusione»42, fino a

quando Avner non sceglie di sottrarsi alla reiterazione con la sola forza del proprio dubitare. Ecco dunque il parallelo esplicito con il cineasta hollywoodiano43, sia

38 Ibidem. 39 Ibidem.

40 Roy Menarini, Bastardi senza gloria. Historia magistra cinemae, in Luca Malavasi (a

cura di), Dieci film. Esercizi di lettura, Le Mani, Recco, 2010, pp. 77-83.

41 Raymond Bellour, Psychose, névrose, perversion, in L’analyse du film, Calmann-Lévy,

Paris, 1995 (tr. it. Psicosi, nevrosi, perversione, in L’analisi del film, Kaplan, Torino, 2005, p. 245).

42 Ivi, p. 244.

43 «Spielberg, sempre controcorrente anche quando pochi se ne accorgono (Terminal) da

esso Spielberg, Tarantino o Eastwood (o Clooney; o Spike Lee; o Scorsese; o addi- rittura Oliver Stone): sottrarsi al vortice e all’ombra, al maelström delle menzogne di stato e alle opacità dell’era Bush, quell’oscurità che prevale anche nella fotografia di Tom Stern per J. Edgar. Ciò che accomuna questi cineasti è appunto l’aver ri- messo in discussione, più o meno felicemente, il proprio modo di fare cinema. E di averlo fatto, spesso, guardando ai grandi punti fermi del passato, alle certezze che per un regista sono le figure di autori come Griffith, Ford, Welles, Hitchcock…

Nel finale di Lincoln, altro film profondamente oscuro (la fotografia è di Janusz Kaminski), il presidente, ormai ucciso, viene riportato in vita da un flashback che si sovrappone all’immagine di una fiammella attraverso una dissolvenza incrociata. Il presidente porta trasparenza, illumina. Restituisce luminosità non solo al film stesso, ma anche a tutto il cinema di Spielberg degli anni Duemila, segnato da una «condivisibile e pessimista visione poli- tica del mondo […] dopo l’11 settembre»44. In virtù di ciò, anche il film deve

essere costruito secondo principi di linearità e trasparenza, lontano dall’ispi- razione hitchcockiana45 di Munich, al cui movimento a spirale si sostituisce

qui – come in Django Unchained – una riflessione sul montaggio alternato attraverso la quale Spielberg sembra guardare direttamente a Griffith. Lin-

coln è infatti congegnato come una violazione macroscopica del montaggio

alternato griffithiano: le due azioni simultanee che il presidente ha generato (la discussione sull’abolizione ufficiale della schiavitù e la trattativa di pace affidata a Francis Preston Blair) e che sta tentando di controllare sembrano infatti andare naturalmente a confluire come l’epilogo di una sequenza di last

minute rescue. Con la differenza, però, che l’incontro (o anche solo l’appros-

simarsi) delle due vicende comprometterebbe l’approvazione del Tredicesimo emendamento e quindi vanificherebbe gran parte della politica di Lincoln. Fin da questo elemento, il più macroscopico e significativo perché riguarda la struttura stessa del film, si può notare come Lincoln sia un’opera caratterizzata da più serie di opposizioni, tutte molto marcate dalla sceneggiatura (meno

te, costosi e popolari, che collegano lo «spettacolo della ricerca» (della bellezza, della ve- rità, della giustizia) alla teoria critica della civiltà imperante», Roberto Silvestri, Munich, «Il Manifesto», 27 gennaio 2006.

44 Vincenzo Buccheri, Il mondo sperduto: Spielberg dopo l’11 settembre, «La valle dell’Eden»,

IX, 18, gennaio-giugno 2007, p. 83.

45 Ciò non vuol dire che nel film manchi la suspense: tutto il film è, in fondo, un enorme

congegno che genera apprensione e attesa, che scaturisce poi con forza nella votazione del 31 gennaio 1864.

apertamente simbolica di Munich ma non meno allusiva) come dalla regia: vi è il conflitto tra Stati Uniti e Stati Confederati d’America; tra Repubblicani e Democratici; tra i Radical Republicans capeggiati da Thaddeus Stevens e le altre frange moderate e conservatrici del Partito Repubblicano; tra caucasici e afroamericani; tra la dimensione pubblica e quella privata; tra interni ed esterni; dovere e morale; verità e finzione; vita e morte, infine. Tutti questi dissensi sono orchestrati da Spielberg in modo da mescolarsi continuamente, relativizzarsi: il mondo separato in good guys e bad guys non solo appartiene a un cinema che frequenta sempre più raramente (l’ultima volta con Indiana

Jones and the Kingdom of the Crystal Skull [Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, 2008]), ma anche al mondo in cui l’Avner di Munich crede di

muoversi all’inizio del film.

Da un punto di vista strettamente narratologico e formale, un’altra se- quenza significativa è quella che rimuove completamente l’uccisione del pre- sidente, innestando false attese nello spettatore che, testimone di uno spet- tacolo teatrale a cui assiste il figlio del presidente, si aspetta che la macchina da presa raggiunga, magari in un altro palco, la figura di Daniel Day-Lewis. Inaspettatamente, l’attentato viene annunciato e comprendiamo allora che è successo altrove. Spielberg non depista fino in fondo lo spettatore come l’Ea- stwood che segue il bambino impegnato a recuperare il berretto in Hereafter, ma siamo comunque lontani da ciò che Pezzotta rimproverava a Munich: se quel film funzionava come puro accumulo, incedere cieco sotto la guida di un’interpretazione fallace, Lincoln, pur con la sua lunga serie di dissonanze che rendono meno fluido l’avanzare degli eventi e tentano (riuscendoci) di restituire la complessità di quei giorni, è un’opera che procede sulla spinta di una visione: come il Mandela di Invictus che guarda il proprio volto allo spec- chio con la schiuma da barba che ne divide una parte bianca e una nera, e sul- la base di quel volto costruisce il suo paese, così dai propri sogni Lincoln por- ta a termine il compito che ritiene di dover assolvere e costruisce una Nazione a sua immagine e somiglianza. Fondata però su un principio che è una “self evident truth”, un assioma (il presidente cita appunto Euclide: «Cose che sono uguali a una stessa cosa sono anche uguali fra loro»). Certamente, la Golda Meir che vediamo all’inizio di Munich, che sentiamo dire “Every civilization finds it necessary to negotiate compromises with its own values”, non è molto lontana (né vuole esserlo) dal Lincoln che utilizza ogni tipo di sotterfugio per raggiungere i propri scopi. La differenza sostanziale sta nel fatto che la Meir

stato47 Steven Spielberg, il quale vede in Lincoln un omologo di se stesso pri-

ma che di Obama: un uomo capace di dare forma ai propri sogni.

In conclusione, come Lincoln guarda in maniera non scontata e contraddit- toria a un grande padre della Nazione, così molto cinema americano d’autore, più o meno esplicitamente politico, oggi sembra guardare ai propri padri (Grif- fith, Ford, Welles, Hitchcock), li interroga, li rilegge in maniera critica e lontana dal manierismo strumentale e dall’ammiccamento cinefilo del postmoderno.

Non si tratta di calligrafia classica: è cinema al calor bianco, inteso come condivisione di una tradizione formale e di un linguaggio da utilizzare al presente [...] nella radicalità politica attraverso la quale il regista assume l’intero apparato poietico e linguistico del cinema da lui amato non come esperimento linguistico, ma come snodo attraverso il quale continuare a stare nel mondo48.

Se Obama rappresenta, anche al di là delle sue stesse intenzioni, il simbolo di un paese in procinto di emanciparsi da lunghi anni di menzogne e vendette e di rimettersi in piedi dopo il colpo frastornante della Crisi, così una parte minoritaria ma autorevole degli autori di Hollywood sembra interrogarsi in profondità sui nodi fondanti del cinema americano per rinnovarli, senza tra- dirli, ancora una volta.

46 Nell’asprezza complessiva del film c’è ovviamente anche la consapevolezza che Lincoln

sia stato «uno dei presidenti più odiati e controversi d’America, non a caso vittima di un attentato» (Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, cit., p. 152).

47 Ed è ancora, quando realizza opere come The Adventures of Tintin: The Secret of the

Unicorn (Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno, 2011), in cui il protagonista si

muove in un mondo che è quello di Indiana Jones, ovvero che «rievoca il cinema degli anni Quaranta come un’immersione paramnestica in un mondo che non è mai esistito – ossia ripensare Gunga Din esclusivamente sulla base dei propri ricordi, come se l’espe- rienza dei primi film fosse una sorta di edenica sinestesia». Giona A. Nazzaro, War Horse, «filmidee», 3, marzo 2012, http://www.filmidee.it/article/271/article.aspx.