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SULLA TORTURA GIUDIZIARIA: L’ABBANDONO

DALLA TORTURA GIUDIZIARIA ALLA SUA ABOLIZIONE

SULLA TORTURA GIUDIZIARIA: L’ABBANDONO

Michel Foucault, nelle prime pagine del suo celebre Sorvegliare e punire (1975, p.10), ammonisce a fare attenzione a non cedere alla tentazione di spiegare la sparizione dei supplizi pubblici ad una non meglio specificata “umanizzazione”. Noi abbiamo già accennato al problema della “sensibilità” parlando del rapporto tra schiavitù e diritti umani: perché venissero garantiti era necessaria una premessa “empatica”, psicologica che permettesse agli uomini di percepirsi l’un altro come

individui e come fondamentalmente eguali.

Questa sorta di evoluzione sarebbe poi divenuta culturale, generalizzata, ed avrebbe quindi spinto al cambiamento della giustizia penale, eliminando il carattere cruento delle pene. Per non cadere nel semplicismo indicato da Foucault, la Hunt analizza le pratiche materiali che avrebbero portato a questa trasformazione, entrando anche in quell’economia politica del corpo analizzata dallo stesso filosofo francese.

Se allo sviluppo di una maggiore empatia tra gli individui avrebbe contribuito in maniera significativa la diffusione dei romanzi epistolari (in particolar modo Pamela e Clarissa di Richardson, oltre alla Giulia di Rousseau), questa non sarebbe stata sufficiente di per sé a portare alla fine della tortura statale o ai supplizi pubblici. “La scoperta di emozioni condivise con i propri simili [ottenute tramite la lettura dei romanzi+ contribuì a questo cambiamento” (Hunt 2007, p. 61), ma è evidente che c’è dell’altro. Innanzitutto, la Hunt pone la sua attenzione sul corpo umano, o più precisamente sulla sua percezione individuale e comune.

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I cambiamenti nella sociabilità e nella vita privata durante l’età moderna e soprattutto del XVIII secolo erano riflessi dei nuovi atteggiamenti e delle nuove sensibilità che si andavano sviluppando: a teatro non si andava più per parlare con gli amici e fare baldoria, bensì si cominciano a seguire gli spettacoli a sedere. Com’è ovvio, tale genere di cambiamenti non poteva essere universalmente accettato, e così quando nel 1782 vennero installate delle panche alla Comédie Franҫaise la stampa protestò, ma l’avvenimento è un importante segnale di cambiamento. Lo stesso si può dire per gli spettacoli musicali, altro fattore che portò a una “comunanza di esperienze”. Si stava avvicinando quindi una maniera più individuale di vivere i rapporti sociali, il tempo libero, ma anche la vita privata: nelle case le cui dimensioni lo permettevano i coniugi dormivano in una stanza propria, non più con i figli. Nel campo dell’arte, tra XVII e XVIII secolo si moltiplicano i ritratti di persone comuni, e la somiglianza con l’“originale” era un importante criterio di giudizio: si stava sviluppando la consapevolezza dell’individualità e della particolarità di ogni persona, simile per natura agli altri esseri umani ma diversa nei particolari, che erano quelli che facevano la differenza tra un ritratto brutto e uno ben riuscito: a tale scopo venne addirittura inventato il physionotrace, uno strumento in grado di riprodurre con movimenti meccanici i lineamenti del viso di una persona, e con il quale venne anche eseguito un ritratto di Jefferson45.

Il discorso della Hunt è molto interessante nel suo rapporto con la sparizione del supplizio pubblico: dovendo questo fungere da deterrente, una maggiore empatia con il condannato non avrebbe dovuto renderlo ancora più efficace nel prevenire i crimini? Questa, del resto, era più o meno l’obiezione che aveva mosso il giurista Pierre-Franҫois Muyart de Vouglans a Beccaria, uno dei primi e più influenti illuministi a lottare contro la tortura giudiziaria, con il suo pamphlet Dei delitti e

delle pene, passato alla storia come uno dei primi e più conosciuti documenti

d’accusa contro la pena di morte: pubblicato in forma anonima nel 1764 a Livorno ebbe un notevole successo tra gli illuministi europei, anche se in Italia subì diverse

45 Per una trattazione più particolareggiata di questi cambiamenti, v. Hunt 2007, pp. 63-70. Cfr.

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critiche. Il principio base espresso da Beccaria nella riforma del diritto penale espressa in Dei delitti e delle pene è quello della proporzionalità tra crimine e punizione.46 Ancora di più che contro la pena di morte (ammessa solo se il condannato ha messo in pericolo tutta la nazione) l’opera di Beccaria si batte contro la tortura, che non è ammessa in nessun caso e che egli considera “il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti” (Beccaria 1764, p. 49). Beccaria oltre ad opporsi alla tortura per un’indignazione morale, offre anche una serie di ragionamenti per dimostrare come la tortura sia un mezzo completamente inefficace di accertare la verità, in quanto se un criminale è robusto riuscirà ad evitare la pena definitiva, mentre se un innocente è debole confesserà ciò che non ha fatto e verrà condannato. Inoltre, se anche riuscisse a resistere, avrebbe comunque ricevuto dei tormenti ingiustificati. Per Muyart, che pure si vantava di avere una forte sensibilità, pochi innocenti condannati valgono bene le miriadi di colpevoli puniti grazie alle confessioni estirpate con la tortura. Ma torniamo alla questione del rapporto tra la percezione del corpo umano, lo sviluppo dell’empatia e la fine dei supplizi pubblici.

Il supplizio pubblico aveva ereditato dall’Inquisizione il carattere rituale dell’esecuzione. Se nell’autodafé gli eretici venivano bruciati sul rogo e le fiamme portavano all’inferno i condannati, viceversa le stesse fiamme purificavano la comunità, asportando il male che si annidava tra di essa. Per molto tempo tale concezione era stata incentivata anche dalle autorità ecclesiastiche e secolari, sempre pronte a dare la colpa a minoranze religiose per qualsiasi disgrazia si fosse abbattuta sulla comunità. Inoltre, la sofferenza nella concezione religiosa spesso era collegata in qualche modo a una certa purificazione, e nel rogo la sofferenza degli eretici era straordinariamente tangibile e considerata, appunto, purificatrice della società. A queste “cerimonie di guarigione” la folla era spesso festante, almeno fino

46 Infatti, nella sua conclusione Beccaria riassume le caratteristiche che deve avere la giustizia:

“perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’delitti, dettata dalle leggi”.

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all’ultimo quarto del XVIII secolo, più o meno, periodo in cui si cominciano a segnalare, anche sulla stampa, diversi casi di gruppi che provavano compassione per i condannati, oppure di una moltitudine di persone che trattengono il fiato tutte assieme mentre il boia comincia il suo lavoro. Insomma, le cose stavano cambiando, o almeno cominciavano a cambiare:

Poiché il dolore e il corpo stesso ormai appartenevano soltanto all’individuo, anziché alla comunità, l’individuo non poteva più essere sacrificato per il bene comune o per un fine superiore. Come affermò il riformatore inglese Henry Dagge, «il miglior modo di promuovere il bene della società è avere riguardo per l’individuo». Più che come rito di espiazione del peccato, la pena andava vista come il pagamento di un «debito» contratto con la società, e da un corpo mutilato ovviamente non si poteva ottenere alcun risarcimento. Se nel vecchio regime il dolore era servito come simbolo di riparazione, ora appariva come ostacolo a qualsiasi forma significativa di riscatto. Si trova esempio di questo mutamento di opinioni nelle colonie britanniche del Nord America, dove per i reati contro la proprietà molti giudici cominciarono a comminare ammende al posto delle frustate. Di conseguenza, nella nuova mentalità la pena crudele inflitta in pubblico costituiva un attacco alla società, più che una sua riaffermazione. Il dolore brutalizzava l’individuo – e per immedesimazione lo spettatore – più che aprire la porta della salvezza attraverso il pentimento.

Come si nota direttamente dal testo appena citato della Hunt (2007, pp. 74-5), si fa strada la concezione moderna sullo scopo delle punizioni dei crimini: non purificare chi li ha commessi, ma fargli pagare il debito che ha contratto con la società delinquendo. La diffusione di questo concetto tra gli intellettuali e i giuristi, uniti a quelle “nuove” emozioni di disgusto che affioravano sempre più spesso tra gli spettatori dei supplizi rendevano questi sempre più anacronistici (o più correttamente, con il passare degli anni li avrebbero resi anacronistici: non si tratta certo di una trasformazione avvenuta nel giro di un mese…). Siamo al punto in cui si sta capovolgendo anche la visione dell’uomo: per Muyart bisognava scegliere la pena più dolorosa per soffocare la malvagità umana che portava le persone, ad esempio, a desiderare di possedere ciò che non hanno; per gli “illuminati”, invece,

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aveva più importanza il lato positivo dell’uomo, che andava ricercato e salvato, non brutalizzato. Non era necessario punire il criminale ma il crimine, l’azione sbagliata commessa da una persona che poteva essere rieducata e fare del bene alla società: si riconosceva che anche i delinquenti provavano passioni e sentimenti del tutto simili ai propri, e non era più possibile accettare i supplizi pubblici.

Questa interpretazione sembra la versione recente, riveduta e corretta, di quella esposta dallo storico inglese George Riley Scott, già citato più volte, sull’abolizione della tortura. Avendo pubblicato il libro nel 1940 ed essendo uno dei primi (se non il primo) a parlare di certi argomenti, la sua posizione è avanguardistica e arretrata nello stesso tempo. Il problema principale, secondo Scott, è l’istinto di vendetta che tutti gli uomini possiedono. Anzi, sostiene che forse il desiderio di vendetta è l’unica cosa che unisce tutti gli uomini. È proprio la “naturalità” di questo desiderio che rende così arduo estirpare la tortura dalla società. I primi due sottotitoli del libro, presumibilmente scritti nel 1939, sono risultati profetici: il primo dice “Oggi non può

accadere”, affermazione con cui molte persone (non solo oggi ma anche

settant’anni fa) liquidavano il problema della tortura e delle punizioni corporali, probabilmente andando con la mente agli orrori dell’Inquisizione e della caccia alle streghe. Scott aveva già intuito quale pericolo si nascondeva dietro tale affermazione, e il secondo sottotitolo lanciava un monito: Un punto di vista

pericoloso. Ci sarebbe da riflettere abbondantemente sul fatto che l’affermazione

utilizzata come incipit del libro viene pensata o ripetuta da molte persone oggi ricordando la Shoah, lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, cominciata proprio il 1° settembre 1939 con l’invasione della Polonia da parte di Hitler. Scott aveva avvisato (almeno i suoi lettori…) di quanto fosse pericoloso snobbare il problema della violenza e della tortura: secondo alcune stime, l’Inquisizione mandò al rogo circa 30.000 persone nello spazio di qualche secolo, e tralasciamo tutti gli altri condannati a pene diverse. Cinque anni dopo la pubblicazione del libro di Scott, erano stati sterminati circa 6 milioni di ebrei, e tralasciamo tutte le altre persone morte nei campi di concentramento e gli orrori che vi si sono verificati, i soldati e i civili ammazzati in guerra. Per sterminare 30.000 persone sono bastati pochi giorni di bombardamenti inglesi su Dresda, oppure pochi

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attimi a Hiroshima. Sin troppo evidente che l’appello di Scott non era stato neanche minimamente considerato…

Queste osservazioni rafforzano la tesi di Scott secondo cui l’uomo ha tendenze sadiche, prova piacere nell’infliggere sofferenze al prossimo, e anche se la tortura è propria dei popoli selvaggi, è presente anche tra i popoli civilizzati e difficilmente sarà eliminate del tutto dalla faccia della Terra. È compito del processo di civilizzazione, potremmo dire, eliminarla. D’altro canto, lo stesso Scott, come interpreta anche Talal Asad in un suo saggio sulla tortura, il progresso della modernità è proprio nei confronti dell’eliminazione dei comportamenti e “trattamenti crudeli, inumani e degradanti” “che suscitano indignazione morale” nel genere umano (Asad 1997). Infatti, parlando del periodo tra XVIII e XIX secolo che ci interessa, l’autore collega il clima illuministico e il declino della tortura, anche se in maniera parziale. Presenta infatti l’abolizione della tortura in Prussia come un effetto dell’influenza sul sovrano illuminato di Voltaire, che proprio in quell’anno cominciò la difesa (postuma) di Marc-Antoine Calas; parla anche degli sforzi di Beccaria e dell’importanza del suo pamphlet contro la tortura e la pena di morte, che portarono all’abolizione della tortura in Italia nel 1786; e continua con l’abolizione della tortura in Francia (1789) e successivamente in altri paesi. Riprende però il discorso sullo scarto tra teoria e pratica, e giustamente direi, facendo notare come alcuni tipi di tortura continuarono ad essere utilizzati: ad esempio la marchiatura a fuoco in Inghilterra rimase in vigore fino al 1834 e in Francia fino al 1832, mentre in Russia fino al 1863.

Una critica su Scott deve essere fatta: probabilmente anche per la data di pubblicazione, ma nel suo testo la massa, la folla ha quasi sempre le caratteristiche attribuite al “selvaggio”: incapacità di pensiero di un certo livello, desiderio di vendetta, di sangue. Sembra che la civilizzazione avvenga solo per i singoli individui, e neanche per tutti: solo per alcuni illuminati che, infatti, protestano contro la tortura e altre forme di violenza pubblica e che lottano contro la massa del popolo che invece vorrebbe sempre vedere qualcuno bruciato sul rogo o impiccato. Non che una folla non abbia un comportamento particolare, ma è comunque composta

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da individui, che nel tempo e nelle generazioni cambiano il modo di pensare, la sensibilità, la cultura. Lo stesso “spettacolo” può avere quindi effetti diversi su folle diverse, ed è quello che è avvenuto per gli spettatori dei supplizi pubblici che gradualmente hanno mutato i propri sentimenti verso i condannati e verso la crudeltà inflitta su di loro.

È innegabile che oggi la tortura sia stata abolita a livello istituzionale nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo, e quindi un progresso è evidente. Ma anche qui Scott mette in guardia dal confondere la teoria con la pratica, un problema sempre vivo quando si parla di tortura. Infatti, nonostante si siano sempre levate delle voci contro la tortura, voci che sono diventate sempre più forti, a livello pratico non sono stati operati gli stessi sforzi, con il risultato che la tortura è ancora presente. L’esempio lampante è proprio quell’Inghilterra che l’autore conosce bene:

gli inglesi… hanno proibito la tortura in via teorica, e… in pratica hanno continuato ad applicarla. Dalle norme contenute nella Magna Charta, la tortura risulta contraria al principio inglese di libertà. La legge sui diritti stabiliva che la tortura era una forma punitiva crudele, che non doveva essere inflitta in alcun caso. Le principali autorità legali e i giudici più importanti proclamarono ripetutamente che l’uso della tortura era contrario alla Common Law inglese e che, quindi, non poteva essere tollerato. Ma, per almeno quattrocento anni, dal tempo degli anglosassoni in poi, la tortura legale ha continuato a essere applicata come misura punitiva.47

Questo scarto tra teoria e pratica è la buia intercapedine dove rimane la tortura anche oggi? Potrebbe essere, ed in ogni caso occorre fare molta attenzione: abbiamo già accennato a cosa succede quando si dice: “Oggi non può accadere”…

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L’economia del potere

Le argomentazioni che abbiamo preso in esame sinora sono assolutamente interessanti, anche se forse ancora parziali: oltre a questi cambiamenti culturali e psicologici, indubbiamente fondamentali, ce ne sono stati altri che hanno portato le autorità stesse, i sovrani più o meno illuminati, a trasformare la giustizia penale. È molto interessante lo studio di John Langbein (1976) sulla tortura giudiziaria, dal quale si deduce un altro ordine di motivi per la sua abolizione.

La tortura giudiziaria, come ricostruisce lo studioso, divenne necessaria al sistema penale per garantire la condanna di tutti quei reati in cui non erano presenti due testimoni oculari a inchiodare il criminale. Con l’abbandono dell’ordalia come prova di colpevolezza, venne meno anche la certezza della bontà del giudizio. Il sistema dell’ordalia, infatti, essendo un giudizio divino, era considerato assolutamente infallibile. Questa infallibilità doveva essere mantenuta anche con l’evoluzione del sistema penale: per questo tornò in vigore la legge canonica romana della prova (law of proof), secondo la quale per condannare un uomo erano necessari almeno due testimoni oculari, oppure l’ammissione di colpa. Non erano considerate valide le prove circostanziali, gli indizi: come esemplifica Langbein (1978), anche se indagando su un omicidio a scopo di rapina si fosse trovato un indiziato con il coltello insanguinato e la refurtiva in casa, senza testimoni non lo si poteva condannare.

Per risolvere una questione di tali proporzioni, la legge stabiliva che si potesse porre sotto tortura un indiziato in presenza di almeno mezza prova contro di lui. Fiorirono a questo punto tabelle indiziarie che stabilivano cosa costituisse un quarto di prova, mezza prova, ecc., poiché le frazioni di prova erano cumulabili. Sempre nell’esempio di Langbein, il coltello e la refurtiva avrebbero costituito un quarto di prova ciascuno, raggiungendo il fatidico totale di mezza prova necessario perché l’indiziato potesse essere condotto davanti al carnefice (Langbein 1978, p. 5).

Questo sistema, almeno nell’ideazione secondo Langbein, voleva essere il più garantista possibile ed evitare di condannare un innocente basandosi solo su prove incerte. Il problema era che si trattava di un sistema troppo garantista, e per il suo

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funzionamento fu necessario utilizzare ugualmente le prove circostanziali; solo che, anziché usarle per stabilire con ragionevole certezza la colpevolezza dell’indiziato, venivano impiegate per decidere se era possibile o meno usare la tortura per strappargli la confessione. Avrebbe idealmente dovuto essere adoperata solo nei confronti di persone con pesanti prove a carico che però si rifiutassero di confessare.

Un altro punto in questione è che, come abbiamo già accennato, l’ammissione di colpa doveva essere ripetuta fuori dalla camera della tortura, perché quella davanti al carnefice non aveva valore legale. Succedeva quindi che qualcuno si rifiutasse di confermare la confessione una volta in libertà, e in tal caso veniva riportato sotto i ferri… questa procedura faceva sì che in pratica confessassero tutti, prima o poi. Anzi, spesso era sufficiente solo la minaccia della tortura per far confessare il presunto colpevole. E, altro lato della medaglia, confessavano anche gli innocenti. Teoricamente questi avrebbero dovuto essere protetti dalle norme che regolavano l’esercizio della tortura: durata massima un’ora, impedimento di torturare la stessa persona più volte, soprattutto fare domande relative al reato a cui poteva rispondere solo il colpevole (es. dove era stato nascosto il bottino del furto). In realtà, queste norme avevano dei punti deboli: innanzitutto, se una persona era a conoscenza di qualcosa ma non era colpevole del reato attribuitole, se le informazioni fornite venivano verificate e risultavano vere rischiava di essere condannata. Ma soprattutto, e qui Langbein forse non è abbastanza esplicito, le norme erano sistematicamente dribblate con dei sotterfugi: ad esempio, il limite di un’ora era tranquillamente oltrepassato interrompendo la “seduta” e riprendendola dopo non molto tempo. E utilizzando il metodo contrario si svicolava dalla problematica di non poter torturare più volte per lo stesso motivo la medesima persona: si torturava, infatti, più volte, ma considerando ogni periodo una continuazione della stessa tortura, anche a distanza di tempo.

Se idealmente l’onere della prova era stato sviluppato per ottenere il massimo del garantismo, nella realtà era l’opposto, perché attenendosi alle regole un sistema di questo genere non avrebbe praticamente mai condannato nessuno. Se il sistema

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degli indizi fosse stato utilizzato in maniera appropriata, sarebbe stato comunque pericoloso per eventuali innocenti “informati dei fatti”, ma utilizzandolo arbitrariamente (come avveniva nella pratica) il risultato fu un sistema penale infernale da cui era difficile essere al sicuro. Credo che a livello sistemico questo si possa anche spiegare con il fatto che lo scopo reale del sistema penale nell’Ancien

Regime non era tanto di proteggere la comunità punendo chi commetteva dei reati,

quanto proteggere il potere stesso incutendo più timore possibile nei sudditi sfoggiando la propria terribile forza. I “criminali” catturati erano una piccola frazione di quelli che invece riuscivano a farla franca, però venivano puniti esemplarmente in pubblico. A tale scopo, non era molto importante che si