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DIRITTI UMANI E TORTURA NEL XX SECOLO

SULLA TORTURA MODERNA

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, tra la fine del XVIII secolo e la metà del secolo successivo la tortura giudiziaria era stata abolita praticamente ovunque. L’evoluzione dei sistemi giuridici, della sensibilità ed empatia umane, degli Stati moderni, tutto ciò aveva portato ad eliminare la tortura “ufficiale”. Ci si aspetterebbe perciò che l’uso della tortura oggi sia residuale, soprattutto nella logica di coloro che interpretano la tortura come una pratica utilizzata da popoli arretrati. In realtà oggi è evidente il contrario: non solo la tortura viene praticata ancora oggi, ma nel XX secolo il suo uso è stato massiccio e continua ad esistere anche nel nuovo millennio. Perché è successo questo? E c’è un modo di invertire la tendenza?

Christopher J. Einolf tratta questo argomento in un suo saggio (2007), partendo dal presupposto che la tortura segua gli stessi schemi sia nel mondo contemporaneo che nei periodi precedenti, cioè che venga perpetrata comunemente verso persone che non fanno parte della società (noncitizens, come prigionieri di guerra e stranieri) o non ne fanno parte a pieno titolo, cioè i marginali (citizen who are not ful

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members of society, ad esempio minoranze etniche o religiose); più raramente, di

solito in caso di una grave minaccia o di crimini estremamente gravi e quando ci sono forti sospetti di colpevolezza, la tortura viene perpetrata anche nei confronti di cittadini a tutti gli effetti e pienamente integrati. L’aumento sulle norme riguardanti i diritti umani e del numero di Stati democratici, infatti, secondo l’autore hanno avuto un impatto significativo nella riduzione della tortura, che viene utilizzata solo quando viene percepita una grave minaccia per la nazione (come in caso di attacchi terroristici).60 Nonostante questo, come abbiamo appena accennato, l’uso della tortura che era andato diminuendo tra il XVIII e il XIX secolo è tornato in auge nel ‘900, ed Einolf individua alcune concause di questo nuovo aumento, legate alle modalità di perpetrazione che abbiamo brevemente descritto.

Il primo punto analizzato è relativo ai cambiamenti nella qualità, nella quantità e nella natura delle guerre nel corso del XX secolo che hanno portato ad un aumento delle torture su persone percepite come “altre”, completamente estranee alla propria società. I prigionieri di guerra hanno sofferto torture in moltissimi conflitti bellici del secolo scorso, sia che venissero catturati da potenze democratiche che da Stati illiberali: i soldati americani sono stati torturati dai giapponesi nella seconda guerra mondiale, dai cinesi e dai coreani durante la guerra di Corea, nonché dai vietnamiti che a loro volta hanno subìto le torture degli statunitensi come le hanno patite gli algerini dai francesi, tanto per fare qualche esempio.61 Quello che è importante, e che è cambiato nel corso del tempo, è il ruolo dei prigionieri di guerra: nelle guerre convenzionali i soldati semplici non erano a conoscenza di informazioni utili per il nemico, perciò solitamente non venivano interrogati (semmai, venivano massacrati). Al contrario, ad esempio in Vietnam, un nemico

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V. a tal proposito anche Lee, Lindström, More & Turan 2002. Lo studio mostra una relazione tra la forma politica dello Stato e l’aspettativa nelle violazioni dei diritti umani: gli Stati democratici sono più capaci di includere nel dibattito politico contestazioni anche violente, mentre uno Stato illiberale è più facile che risponda alle proteste (anche pacifiche) con la forza, se si sente minacciato. Spesso nelle fasi di democratizzazione, se presenti, sono le minoranze ampie che manifestano e protestano per i propri diritti, e la repressione viene perciò diretta contro di loro.

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catturato poteva rivelare sotto tortura le posizioni dei commilitoni o della propria base, informazioni preziosissime in un conflitto dove la conoscenza e lo sfruttamento del territorio furono uno dei punti di forza degli autoctoni.

Il secondo punto analizzato dall’autore, il quale avrebbe portato ad un aumento della tortura nel ‘900 sugli strati marginali della popolazione riguarda la formazione di nuovi Stati negli anni successivi alla seconda guerra mondiale (ma io direi soprattutto dopo la decolonizzazione e la fine dell’URSS) con governi deboli e forti divisioni etniche, razziali e religiose al loro interno. La semplice presenza di una pluralità di etnie non è certo causa di perpetrazioni di violenza, ma contingenze storiche e determinate scelte politiche possono causare guerre civili o comunque scontri interni in cui le minoranze etniche o religiose sono le prime a subire gravi soprusi: è successo così ad esempio in Rwanda tra hutu e tutsi e nello Sri Lanka tra cingalesi e tamil (Bowen 1996). Una componente fondamentale nei conflitti interni spesso è l’insorgere di nazionalismi estremi, come nel caso dell’ex-Jugoslavia dove i processi pratici di ricostruzione delle comunità serbe, croate e bosniache per creare degli Stati puri “immaginati” hanno trasformato questa immaginazione “in un processo che produce vittime reali”, nato dallo scontro tra quelli che Hayden in un suo saggio definisce “modelli prescrittivi di cultura” o “cultura come ideologia” e la “realtà storico-contestuale”, cioè la “cultura vivente”, arrivando infine a processi di pulizia etnica anche attraverso forme di tortura sessuale come gli stupri etnici di massa.62 Lo sviluppo di nazionalismi estremi porta infatti all’esclusione dalla cittadinanza di tutte quelle persone presenti nel territorio non facenti parte dell’etnia di maggioranza: prende avvio quella pratica di deumanizzazione propedeutica all’esplosione di violenza contro le minoranze.63 In ogni caso, Einolf

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V. Hayden 1996, Detkovid 2002, Richter Malabotta 2002. Sempre sul rapporto tra nazionalismi e comunità, v. Anderson 1991. Sulle origini e lo sviluppo del nazionalismo europeo v. Chabod 1961. Sugli stupri di massa in Jugoslavia, cfr. Doni & Valentini 1993. In particolare, è interessante la scelta dell’arma dello stupro proprio in relazione alla specifica cultura locale, dove la discendenza è determinata esclusivamente dal padre: stuprare le donne bosniache significa “far crescere il nemico dentro di loro”.

63 Sempre Hayden 1996 propone una bella analisi delle costituzioni redatte dai partiti nazionalisti

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propone questo punto come mera ipotesi, dato che la tortura e altre gravi violazioni dei diritti umani fondamentali sono state praticate anche in paesi con popolazione etnicamente omogenea (ad esempio, l’Argentina).

L’ultimo punto presentato da Einolf riguarda l’uso della tortura da parte dello Stato contro i propri cittadini, facilitato secondo l’autore da un’espansione del concetto di tradimento e dall’aumentata capacità degli Stati di combatterlo. Questo è un argomento che possiamo accettare, seppur con qualche riserva. Se è vero, come afferma Einolf, che nelle epoche premoderne la sovranità si esplicitava solamente nella figura del sovrano (oppure in oligarchie molto ristrette) e che erano poche le persone che avevano la possibilità di commettere tecnicamente il reato di tradimento, siamo sicuri che sia questo reato la causa principale che porta a perpetrare la tortura ai danni di cittadini della propria società? Lo possiamo accettare considerando l’accusa tecnica di tradimento, con la quale generalmente si persegue una grave minaccia alla sovranità nazionale, ma Einolf, mostrando l’espansione della categoria di tradimento nelle società totalitarie, vi include atti come comporre il genere sbagliato di musica o il non raggiungere una certa quota di lavoro. Su questa base, dobbiamo respingere le affermazioni precedenti sul ridotto numero di persone capaci di commettere tradimento nelle società di Ancien

Regime: Foucault (1975, p. 53) parla in Sorvegliare e punire di come “infrangendo la

legge, il trasgressore ha attentato alla stessa persona del principe”. Emanando direttamente dal sovrano, la legge era il sovrano e per tale motivo ogni trasgressione configurava in un certo senso un tradimento, tant’è vero che il supplizio comminato era “più che un’opera di giustizia una manifestazione di forza… la giustizia come ostentazione della forza fisica, materiale e temibile del sovrano”

narod, cioè della “nazione etnicamente definita”, escludendo quindi tutti i cittadini residenti nello

Stato territoriale non facenti parte dell’“etnia” di maggioranza. Proprio la questione della cittadinanza è di importanza fondamentale, in quanto stabilisce innanzitutto chi può vivere nello Stato, i diritti di base, la possibilità di lavorare nel paese. Con queste costituzioni (che “costituiscono” lo Stato, come dovrebbe essere ideologicamente), osserva intelligentemente Hayden, il governo serbo (e lo stesso ha fatto quello croato) ha tolto la cittadinanza a tutti gli abitanti non serbi, per consegnarla a tutti i serbi che vivevano in altri Stati. L’autore definisce questa pratica

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che ripristinava i rapporti di forza (Ib., p. 55). La differenza tra le società di Ancien

Regime e quelle totalitarie moderne credo si situi in un altro punto segnalato da

Einolf, seppure in maniera non molto centrale: la diversa capacità degli organismi di sicurezza di punire i crimini. In entrambe le società una vasta gamma di reati prevedeva la tortura, ma gli Stati totalitari moderni avevano (e oggi hanno ancor di più) a disposizione un numero e una qualità di strumenti per individuare e catturare i presunti colpevoli enormemente superiore alle società premoderne.

Einolf osserva poi correttamente come l’ampliamento della definizione di tradimento e la creazione di un network di spie e informatori abbiano avuto luogo anche in Stati non completamente totalitari come l’Argentina, il Brasile, l’Iran e diversi altri: del resto, quando si ha a che fare con le dittature, di qualunque colore siano, sappiamo che devono combattere contro qualunque minaccia di opposizione se non vogliono soccombere, ed espressioni di protesta pacifica vengono perciò criminalizzate e severamente punite. Vedremo nella seconda parte, ad esempio, come funziona la società eritrea, dove l’unica espressione di democrazia permessa sono state le elezioni che hanno mandato al governo l’attuale presidente Isaias Afewerki.

Dati i fattori appena analizzati e criticati, Einolf sostiene che la direzione da prendere per far diminuire l’uso della tortura e le violazioni dei diritti umani in generali è quella della democrazia, che sappia rispondere pacificamente alle richieste dei gruppi minoritari, scongiurare il rischio di guerre civili e stabilire dei sistemi di controllo sul trattamento dei detenuti. Meno conflitti significa meno tortura: è questa la sintesi della conclusione di Einolf, e si avranno meno conflitti incoraggiando la formazione di democrazie liberali.

Per quanto condivisibile, anche queste affermazioni sono soggette ad alcune critiche: ad esempio, cosa significa incoraggiare la democrazia? Abbiamo visto come gli Stati Uniti abbiano addirittura tentato di “esportarla” militarmente, con il risultato emblematico di Guantànamo ed Abu Ghraib: nonostante questo, l’autore del saggio prende proprio gli USA come esempio di democrazia in cui gli sforzi dei media, le organizzazioni umanitarie, azioni bipartisan del Congresso hanno portato

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a una riduzione delle torture facendo applicare le salvaguardie previste dalle Convenzioni di Ginevra riguardo i nemici catturati.

Il nocciolo del problema è individuato da Ignatieff, un altro liberale con una prospettiva simile a quella di Einolf (forse anche più obiettiva). Gli Stati Uniti, pur essendo una democrazia compiuta in politica interna, si comportano come un impero light all’estero, perseguendo i propri interessi pur, secondo Ignatieff (2003, p. 91), mirando a mantenere la pace nel mondo: “Di fatto, tutta la guerra statunitense al terrore è un esercizio di imperialismo. Per gli americani, che non pensano volentieri al proprio paese come a un impero, sarà pure uno shock, ma che altro nome si può dare alle legioni di soldati, spie e agenti delle Forze speciali USA disseminati in tutto il mondo? …In Afghanistan ristabilire l’ordine significa costruire una nazione, creare uno stato che sia tanto forte da potere impedire ad al Qaeda di farvi ritorno”. Le torture di Abu Ghraib rientrano nella risposta data dagli USA alle minacce terroristiche, vere o presunte che siano: come abbiamo già detto, anche le democrazie quando si sentono minacciate rispondono con la forza e perpetrano anche la tortura. Ma è accettabile?64 E, soprattutto, la tortura è un modo valido per rispondere alle eventuali minacce terroristiche?

In un suo saggio, Jean Maria Arrigo (2004) propone tre argomenti moderni utilizzati a favore dell’uso della tortura. Si tratta di tre modelli causali che dovrebbero dimostrare scientificamente come sia possibile, attraverso l’uso di diverse tecniche di tortura, estrapolare dagli interrogatori informazioni utili (actionable intelligence) e sicure: l’animal instinct model, il cognitive failure model of truth telling e il data

processing model of knowledge acquisition. Per ognuno di questi, Arrigo propone

dei controargomenti che mostrano gli “effetti collaterali” nell’uso delle tecniche proposte, i quali danneggerebbero gravemente le libertà civili e il processo democratico.

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The animal instinct model: questo modello prevede come scenario tipico quello

della ticking bomb, in cui si decide di interrogare un sospetto a conoscenza della posizione dell’ordigno facendo uso della tortura in modo da riuscire ad evitare che vengano uccisi degli innocenti. Arrivati ad un certo livello di sofferenza, il terrorista sarà disposto a fornire le informazioni richieste per porre fine alle proprie sofferenze ed evitare la morte. Questo significa che la tortura deve essere brutale, e visto che se il soggetto perde conoscenza (o muore) diventa inservibile, occorre la collaborazione di personale medico. Questo è il primo difetto del modello analizzato: la partecipazione dei medici alle torture è testimoniata ovunque nel mondo, essendo a loro delegata la scelta di quali tecniche utilizzare e per quanto tempo la vittima possa sopportarle, di rianimarla se necessario, di somministrare droghe, ma anche di coprire le tracce del carnefice elaborando falsi certificati di morte e altri orpelli burocratici. Questa necessaria collaborazione può portare, come in Turchia e in Messico, alla generazione di gravi conflitti tra la comunità medica e il governo, dato che il fondamento logico della tortura (in questo caso il suo utilizzo per salvare delle vite di innocenti) non cancella i codici deontologici, morali e personali dei medici coinvolti. Inoltre, c’è da considerare che fanatici, aspiranti martiri o aspiranti eroi possono riuscire a sviluppare una resistenza mentale molto alta alle torture fisiche: nel loro modello cognitivo ogni sofferenza provata viene reinterpretata e posta in relazione di necessità con la propria missione. Non è quindi per niente sicuro che parlino o che forniscano informazioni attendibili.

Una maniera di ovviare a questo problema può essere individuata nel secondo modello proposto, il cognitive failure model of truth telling, il quale prevede che il torturatore disorienti e diminuisca la resistenza della vittima tramite tecniche specifiche indirizzate prevalentemente sulla sua mente. A sostegno di questo modello, sono presentati i risultati di tali tecniche utilizzate dai cinesi verso i PoWs americani durante la guerra di Corea, tra i quali solo il 5% riuscì a resistere al “lavaggio del cervello” che includeva detenzione in isolamento, privazione del sonno, ridicolizzazione, pressioni per farli ammettere crimini, minacce, lunghissimi discorsi di propaganda marxista. Questa strategia necessita di due propedeuticità

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per funzionare: ricerche mediche all’avanguardia e un corpo di torturatori professionisti ben addestrati. Arrigo si chiede come potrebbe funzionare un programma di ricerca di tale genere negli Stati Uniti, rifacendosi anche al progetto MKULTRA della CIA e al più recente DARPA (U.S. Defence Advanced Research

Projects Agency). Anche in questo caso la collaborazione di alcuni scienziati è

necessaria per portare avanti le ricerche, che devono essere sempre un passo avanti a quelle (di resistenza) dei nemici e anche di quelle degli attivisti per i diritti umani: anche se non vengono lasciati segni evidenti o permanenti, le tecniche e gli strumenti per rivelare se una persona ha subìto o meno tecniche di tortura progrediscono sempre di più.65 Secondo Arrigo, perciò, si instaurerebbe una sorta di “gara” tra la ricerca di tecniche di tortura sempre meno visibili ma ugualmente efficaci da un lato, e lo sviluppo di tecniche di resistenza (da parte dei terroristi)e di strumenti di identificazione (da parte dei gruppi umanitari) dall’altro.

Questo d’altronde può essere un punto più o meno caratteristico della tortura moderna, una tortura che punta alla mente ma per farlo colpisce comunque il corpo, seppur solitamente in maniera meno cruenta di come accadeva in passato, quando il supplizio doveva invece essere ostentato a dimostrazione del potere del sovrano (Rejali 1994).

Un pericolo ulteriore è insito nella possibilità che lo sviluppo di un apparato di ricerca sui metodi di tortura faciliti l’opportunità di ricerche segrete e illegali sugli esseri umani per scopi laterali.66 Anche la creazione di una sorta di team di torturatori pone alcune problematiche: innanzitutto devono essere ben addestrati, devono essere coordinate numerose agenzie statali e parastatali, che devono essere

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La Turchia ha visto posporre la sua entrata nell’Unione Europea, tra le altre cose, anche per il flusso di vittime di tortura dal paese. Per questo hanno cominciato ad attuare pratiche di tortura che non lasciano segni visibili, ma grazie ad innovativi strumenti esperti avvocati europei sono riusciti a individuare ugualmente le vittime. V. Arrigo 2004, p. 10.

66 V. U.S. Senate 1977, pp. 7, 12-13, 123, 148, 149. In queste pagine si parla anche della

collaborazione di 80 enti tra istituti di ricerca, università, ospedali con la CIA, di come evitare che I nomi di tali aziende uscisse allo scoperto, oltre che di esperimenti su soggetti non volontari come criminali, psicopatici ed altri marginali.

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tutte affidabili e responsabili. Inoltre, sono stati rilevati numerosi problemi psicologici tra i torturatori, i quali sperimentano una forte tensione tra il nuovo ruolo e i valori fondamentali che rispettavano precedentemente, portandoli frequentemente a problemi di dissociazione psicologica e/o a far uso di alcool e droghe. Per dar loro un minimo di sostegno i carnefici vengono “preparati” attraverso istruzioni e discorsi che deumanizzano la vittima: questa shame tactic è però così efficace che induce i torturatori a praticare torture sessuali, le quali contribuiscono ancora di più ad alienare e isolare il carnefice dalla società.67 Infine, c’è sempre il pericolo di infiltrazioni da parte di terroristi, come accadde per il Progetto Manhattan, e soprattutto il problema che il cognitive failure model provvede informazioni, non verità.

Per ovviare a questo, la “soluzione” proposta è il data processing model for

knowledge acqusition, che prevede una sorta di interrogatori di massa (dragnet interrogation), includendo ovviamente anche persone innocenti, in modo da

comparare e distinguere le informazioni valide da quelle false, corrotte o inutili. Questo è il metodo utilizzato ad Abu Ghraib, dove venivano portate tutte le persone catturate durante i rastrellamenti che venivano effettuati solitamente dopo attentati o esplosioni innescate da presunti terroristi.68

Certo, questo sistema porta con sé gravi ed evidenti effetti collaterali: innanzitutto, verranno sottoposte a duri interrogatori molte persone innocenti, necessarie perché vengano individuati i terroristi sulla base di molti comportamenti non verbali, anche involontari. Il problema è che tale individuazione non è semplice: secondo alcuni esperimenti il tasso di successo di professionisti in questo campo varia tra il 45 e il 60%. Dato che semplicemente lanciando una moneta per decidere

67 Il criminologo Ronald Crelinsten, afferma che la morale convenzionale e l’umana decenza dei

torturatori vengono sostituiti da nuovi valori, tra i quali l’obbedienza è di primaria importanza. Disubbidire significa andare incontro a punizioni, umiliazioni o perfino alla morte. Cit. in M. Arrigo 2004.

68 Questo è un metodo molto diffuso: è stato utilizzato anche dai francesi durante la battaglia di

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se una persona sta mentendo o meno la possibilità di avere ragione è del 50%, affidarsi a degli esperti non serve ad aumentare di molto tale probabilità. È possibile aumentare il tasso di successo impiegando strumenti di alta tecnologia che analizzano microespressioni facciali ed altri fattori, arrivando a fornire la risposta corretta nel 70-85% dei casi, ma ancora siamo piuttosto lontani dalla certezza matematica. Scegliere i sospetti a cui far subire delle torture sapendo che almeno 15 persone su 100 (se non molte di più, visto che molti terroristi sono addestrati a far fronte agli interrogatori) sono innocenti pone un grosso interrogativo morale su questo genere di operazioni. Inoltre, visto l’alto numero di persone da fermare, arrestare, interrogare, è necessaria una forte collaborazione di tutto il sistema, dalla polizia alla magistratura e all’esercito, oltre ovviamente all’appoggio del governo.

Operare in una maniera simile comporta l’aggiramento di importanti salvaguardie legali, necessario per poter arrestare persone su cui non si ha alcuna prova: ad Abu Ghraib delle stime al di sopra di ogni sospetto (fonti dell’esercito) hanno affermato che almeno il 60%, e più probabilmente tra il 70 e il 90% delle persone detenute