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LA RIFLESSIONE SETTECENTESCA SUI DIRITTI UMANI – LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA AMERICANA (1776)

LE GRANDI DICHIARAZIONI DEL ‘

LA RIFLESSIONE SETTECENTESCA SUI DIRITTI UMANI – LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA AMERICANA (1776)

Nel XVIII secolo vengono elaborate le prime grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo, in particolare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Già 23 anni prima era stata ratificata la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, redatta per la maggior parte dal futuro presidente Thomas Jefferson, la quale influenzò la Dichiarazione francese. A sua volta, la Dichiarazione d’indipendenza prese le sue forme a partire dai Bills of Rights dei vari stati americani, almeno per quanto riguarda il linguaggio politico. Osserviamo quindi le relazioni tra questi vari documenti, soprattutto cercando di capire quali sono i diritti attribuiti ‘agli uomini e ai cittadini’, a quali radici filosofico-politiche fanno riferimento e la valenza pratica delle parole scritte in essi. Per questa analisi cercherò di seguire principalmente il sentiero tracciato da Gerhard Oestrich, che mette bene in evidenza “la storicità dei diritti riconducendoli costantemente al contesto costituzionale-materiale in cui essi si dispiegarono”, come osserva Gustavo Gozzi (2001, p. VII). Questo sarà fondamentale per capire come impulsi universali nelle dichiarazioni rientrino in realtà nella risposta a problemi circoscrivibili storicamente e geograficamente, ponendo un veto “preventivo” sulla loro attuazione pratica.

Per quanto riguarda le Costituzioni dei singoli stati americani, Oestreich si mette in contrapposizione alle tesi di Jellinek secondo cui i diritti naturali elencati derivano da un processo di secolarizzazione delle originarie richieste di libertà religiosa (Gozzi 2001, pp. XXI-XXIII). In realtà, l’analisi dei Bill of Rights dei singoli Stati non conferma questa tesi, anzi: in Virginia la libertà religiosa compare soltanto nel sedicesimo

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articolo della Dichiarazione15, apposto successivamente rispetto ai primi quindici che trattano delle libertà politiche, mentre nel Bill del Massachussets era riconosciuta libertà di culto solo ai protestanti. In generale, non ci fu mai completa libertà di culto nelle colonie, le quali erano anche diversificate tra loro come confessioni religiose maggioritarie. Cosa sta allora all’origine dei Bills of Rights americani? Oestreich (1978, p. 64) spiega:

“È dunque il caso di affermare che, all’origine delle dichiarazioni americane, ci fossero piuttosto intendimenti profani. Nelle loro versioni definitive, esse furono un portato della vicenda rivoluzionaria. Vennero infatti formulate come strumenti di lotta, in una prospettiva tattico-propagandistica, e concepite anche al fine di giustificare, in senso umanitario, la secessione armata dall’Inghilterra, nonché di prescrivere una finalità morale agli Stati di nuova costituzione. La rivolta era esplosa per motivi economici e politici”.

Dopo la fine della guerra dei sette anni la Gran Bretagna cambiò la propria politica fiscale nel tentativo di rimpinguare le casse, svuotate dalla lunghissima anche se vittoriosa guerra. Nonostante fossero “le genti meno tassate del mondo” (Testi 2003, p. 59) e fossero coloro che avevano guadagnato di più dalla sconfitta francese (tra l’altro continuando per tutto il tempo a commerciare con loro di contrabbando), gli americani lessero le nuove tasse imperiali come un nuovo modo di infilare le mani nel proprio portafogli, soprattutto per quanto riguardava il commercio con i francesi. La reazione fu forte, sia contro la nuova legge anti- contrabbando (il Revenue Act, 1764) che contro lo Stamp Act (1765, una tassa del bollo su giornali, documenti commerciali, atti legali e ogni sorta di documento a stampa): il nuovo motto divenne il famoso “No taxation without representation”. Da quel momento “fra i fautori della libertà economica e di quella politica venne

15 Utilizzo come sinonimi Bill e “Dichiarazione”, in quanto la traduzione comunemente accettata di

“Bill of Rights” è “Dichiarazione dei diritti”, anche se “Bill”, tecnicamente significa “progetto di legge”.

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instaurandosi uno stretto rapporto. La resistenza ai soprusi si tramutò in attacco contro l’ordinamento sociale e politico della madrepatria. In una quantità di scritti, le rivendicazioni dei coloni furono notificate e poste in relazione con le leggi eterne della libertà” (Oestreich 1978, pp. 64-5). Il diritto che stava più a cuore ai coloni americani era la libertà economica: una volta minacciata questa, l’insurrezione fu inevitabile. Durante la Rivoluzione ebbe luogo il passaggio dalle antiche civil liberties inglesi ai nuovi human rights. Questo fu possibile dapprima per la concezione armonica del rapporto tra diritto positivo e diritto naturale: sia in Inghilterra che nelle colonie americane era forte la convinzione che l’uomo avesse dei diritti di

natura (e quindi assoluti) e che il diritto positivo dovesse semplicemente andare

nella stessa direzione, e cioè proteggere e garantire proprio tali diritti naturali. Questa connessione favorì l’elaborazione di diritti assoluti: come osserva ancora Oestreich, “decisiva al riguardo fu l’assimilazione di diritti positivi di libertà e di diritti rivendicati su base giusnaturalistica all’ethos di diritti eterni e inerenti a tutti gli uomini. Con le dichiarazioni, anche il fine dello Stato, ossia la tutela dei diritti dell’uomo, divenne immediatamente esplicito” (Oestreich 1978, p. 66). Tali dichiarazioni infatti riaffermano le libertà precedentemente garantite dalla Gran Bretagna come derivanti non da “concessioni” da parte di un potere sovrano ma da diritti naturali comuni a tutti gli uomini.

Tutti gli uomini “sono creati uguali”?

Una tale concezione in apparenza sembra abbia un carattere universale: tutti gli uomini hanno dei diritti naturali, cioè in quanto esseri umani. Come poteva accordarsi questo con, ad esempio, l’enorme e costante utilizzo degli schiavi nelle piantagioni di cotone degli Stati meridionali? Senza analizzare il grande dibattito del secolo successivo, è interessante notare come anche in questo caso si sia cercato di mantenere in linea il diritto positivo con quello di natura. La cultura e le concezioni del tempo identificavano i neri come esseri inferiori, possiamo dire non completamente umani: più simili per diversi aspetti a degli “animali da reddito” che a degli uomini. Questa concezione era riportata nelle costituzioni degli Stati, almeno

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in quelli dove gli schiavi erano numerosi. Ad esempio, lo stesso Locke, nelle

Costituzioni fondamentali della Carolina (1669) scrisse: “Ogni uomo libero della

Carolina avrà potere e autorità assoluta sugli schiavi negri di qualunque opinione o religione”.16 Qui abbiamo una netta contrapposizione tra “uomo libero” e “schiavo negro”: i diritti naturali non appartengono universalmente a tutti gli uomini, ma ad una comunità ristretta e ben delineata: nel caso della Carolina, gli “uomini liberi”, cioè i bianchi.17 Come giustifica Locke la schiavitù? Chris Harman (1999, p. 254), dirigente del Socialist Worker Party e caporedattore della rivista International Socialism, scrive:

“I primi mercanti e i primi proprietari di schiavi non facevano affidamento sulle differenze razziali per giustificare le proprie azioni. Risalivano piuttosto ai testi degli antichi Greci e Romani, che giustificavano la riduzione in schiavitù dei prigionieri di guerra, o perlomeno delle “guerre giuste”. Purché i proprietari avessero acquistato i loro schiavi con mezzi leciti gli schiavi erano proprietà privata e si sarebbe potuto disporre di loro a piacimento. Fu con questi argomenti che John Locke, il filosofo inglese tanto ammirato da Voltaire, poté giustificare negli anni ’90 del XVII secolo la schiavitù - e tramite la proprietà di azioni nella Royal Africa Company essere un beneficiario della tratta degli schiavi - ma respingere l’idea che gli africani fossero intrinsecamente diversi dagli europei.”

In effetti, come scrive Locke nel quarto capitolo del Secondo trattato sul governo, egli considera la schiavitù come una guerra perenne tra padrone e schiavo. Potrebbe essere una sorta di “dissonanza cognitiva” in Locke che lo porta a

16 Cit. in Testi 2003, p. 32.

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Esistevano anche dei servi a contratto europei, che vennero utilizzati soprattutto nei primi tempi. Questi comunque acquisivano la propria libertà al termine del loro contratto. Uno dei motivi che portò all’ampio utilizzo di schiavi africani fu proprio il fatto che molti di questi europei una volta liberi erano nullatenenti e causavano problemi sociali: molti di questi, ad esempio, parteciparono nel 1676 alla Ribellione di Bacon. Gli schiavi negri che presero il loro posto invece rimanevano nella loro condizione a vita.

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giustificare la schiavitù, nonostante egli stesso avesse elencato la libertà come uno dei tre diritti fondamentali (insieme alla vita e alla proprietà). Provocatoriamente, potremmo dire che tra i diritti fondamentali del filosofo inglese il diritto alla proprietà è più importante di quello alla libertà… Bisogna comunque tenere conto che trecento anni fa la schiavitù era comunemente accettata, il “modello cognitivo” (l’episteme, direbbe Foucault) imperante considerava la schiavitù come una cosa normale: semmai, è la nostra sensibilità moderna e “umanitaria” che ci fa scandalizzare pensando al black holocaust, come è stata definita la tratta dei negri.18 Anche negli Stati settentrionali la debole presenza di manodopera schiavile non era motivata da un rifiuto morale, ma semplicemente dalla sua scarsa utilità nell’economia locale.

Un altro punto interessante riguardo al rapporto tra diritto e schiavitù lo possiamo notare in quello che successe in Virginia e in Maryland, due Stati in cui gli schiavi entrarono tanto gradualmente quanto inesorabilmente. Mentre nel caso della Carolina non è possibile affermare che si tratti di un primo esempio di come si nasconda la violenza tra le pieghe di documenti che dovrebbero garantire alcuni diritti fondamentali (come abbiamo già detto, nelle Costituzioni fondamentali il diritto di possedere schiavi è espresso chiaramente) in questi due Stati abbiamo un caso di evoluzione degli strumenti giuridici che rendono legale qualcosa che non avrebbe dovuto esserlo. Ripeto che, trattandosi di dichiarazioni di più di trecento anni fa, c’è ben poco da scandalizzarsi, ma valga come “primordiale” esempio lampante di qualcosa che troveremo spesso successivamente in argomenti più centrali. Tenendo conto di ciò, leggiamo quello che scrive Testi (2003, pp. 33, 34):

“L’introduzione della schiavitù di massa cambiò non solo il sistema economico ma anche quello sociale e legale. La schiavitù non era prevista dal diritto comune, e i

18 Anche per quanto riguarda la Guerra di Secessione, la questione della schiavitù non fu tanto

morale quanto economica: l’economia degli stati secessionisti necessitava degli schiavi come manodopera gratuita nelle proprie piantagioni. Nel nord-est, dove si era sviluppato il settore manifatturiero, gli schiavi erano praticamente inutili (e infatti erano pochissimi).

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coloni ne inventarono le basi legali seguendo il modello delle Indie Occidentali. In Virginia e Maryland i tribunali iniziarono a trattare diversamente gli africani fin dal 1640. I servi neri ebbero contratti più lunghi di quelli dei bianchi, e infine la servitù a vita ed ereditaria. Quelli che fuggivano ebbero pene più pesanti. Le violenza dei padroni nei loro confronti furono dichiarate non punibili. Ai neri fu vietato di portare armi, poi di sposarsi con i bianchi, poi di avere proprietà. Dopo il 1680, quando l’importazione di schiavi divenne massiccia, fu tolto loro ogni diritto residuo, compreso quello di contrarre matrimonio.”

Nel caso del rapporto tra i Bills of rights degli Stati coloniali e la schiavitù, abbiamo visto come sono entrate in gioco questioni di tipo diverso che si intrecciano tra loro: questioni politico-economiche (l’utilità degli schiavi come manodopera, diversa a seconda del tipo di economia locale), questioni che potremmo chiamare umanitario-morali (la divisione sociale su basi razziali, anche se “primordiali”) e questioni giuridiche, ovvero la sintesi delle varie forze (o la risoluzione della tensione tra di esse) in strumenti giuridici indicanti la strada che lo Stato intende seguire. Nel caso del rapporto tra le dichiarazioni dei diritti negli Stati coloniali e la schiavitù la sintesi giuridica ha seguito la sensibilità dell’epoca, legalizzandola dovunque, compresi quegli Stati dove gli schiavi erano pochi e poco importanti per l’economia locale. D’altronde, anche in queste regioni il nero era considerato diverso, inferiore. Il fatto che, come abbiamo letto prima nella citazione di Harman, Locke non giustifichi la schiavitù con elaborazioni teoriche razziste, è anche dovuto al fatto che il razzismo biologico di derivazione positivista doveva attendere ancora più o meno un paio di secoli prima di essere sviluppato.19 Nell’attesa che antropologi e altri scienziati stabilissero dei criteri pseudo-scientifici per sostenere giudizi soggettivi ma estremamente diffusi sull’inferiorità dei neri, la loro innata

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Ad esempio, l’Origine delle specie di Darwin, con i suoi concetti di “selezione naturale” e “sopravvivenza del più adatto”, sarà pubblicato solo nel 1858. Francis Galton, fondatore

dell’eugenetica, scriverà il suo libro più importante (Il genio ereditario) nel 1869. Un “precursore” di questa corrente (o comunque uno di coloro che ne gettarono le basi) può essere Camper,

anatomista olandese che aveva studiato da pittore e inventò l’“angolo facciale”: scrisse i testi più importanti tra il 1792 e il 1793. V. Mosse 1978.

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“bestialità” era, all’epoca, talmente evidente da tradursi in leggi che stabilivano la

naturale condizione di schiavi senza che praticamente nessuno alzasse un dito.20 La

legislazione era coerente con lo spirito dell’epoca: la schiavitù era accettata da (quasi) tutti, ed era perfettamente legale: dove non lo era inizialmente (vedi Virginia e Maryland, ad esempio) vennero presi i necessari provvedimenti per legalizzarla, riallineando il diritto positivo con quello (presunto) naturale.

La questione della “sensibilità dell’epoca” la possiamo ritrovare anche nel lavoro di Lynn Hunt (2007) che sostiene, come premessa necessaria all’elaborazione delle dichiarazioni, quella che chiama “affermazione dell’ovvietà”: Jefferson stesso nella Dichiarazione di indipendenza scrisse che “Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti”. Frasi simili ricorrono anche nelle dichiarazioni del 1789 e del 1948, seppur con toni diversi. Perché i diritti umani risultassero “evidenti di per sé” era necessario un “sentimento interiore largamente condiviso”, possibile, secondo la Hunt, soltanto quando le persone si percepissero l’un l’altra come individui e come

fondamentalmente uguali:

“La mia argomentazione darà grande importanza all’influenza esercitata da nuovi tipi di esperienze, dall’ammirare quadri esposti in mostre d’arte a leggere i popolarissimi elias epistolari sull’amore e sul matrimonio. Tali esperienze contribuirono a diffondere le pratiche dell’autonomia e dell’empatia. Secondo il politologo Benedict Anderson, i quotidiani e i romanzi crearono la “comunità immaginata” di cui il nazionalismo ha bisogno per prosperare. Quella che si potrebbe chiamare “empatia immaginata” serve invece da fondamento per i diritti umani, più che per il nazionalismo. È immaginata non nel senso di artefatta, ma nel senso che l’empatia richiede fiducia, bisogna immaginare che l’altro è simile a sé. Le descrizioni delle torture crearono questa empatia immaginata tramite una nuova visione del dolore. I romanzi la generarono

20 Anche se non erano ancora comparse le suddivisioni gerarchiche dell’uomo su basi razziali in cui

spesso il nero era accomunato alla scimmia, già dai primi incontri ai neri era attribuito un carattere “bestiale”, o comunque incivile.

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suscitando nuove sensazioni riguardo alla vita interiore. Ciascuno a suo modo, essi rafforzarono la nozione di una comunità basata su individui autonomi ed empatici, che potevano rapportarsi con valori universali superiori, al di là dei legami familiari più stretti, delle affiliazioni religiose o persino delle nazioni… La mia argomentazione si basa sull’idea che… nuove forme di lettura (e di osservazione, di ascolto) crearono nuove esperienze individuali (empatia), che a loro volta favorirono la nascita di nuovi concetti sociali e politici (diritti umani).”21

Personalmente, sono in perfetto accordo sul fatto che senza empatia e una coscienza comune per la quale riusciamo a riconoscerci negli altri i diritti umani rimangono lettera morta. Ed è evidente, e la Hunt lo riconosce, che un cambiamento di sensibilità di tale portata richiede un tempo notevolmente lungo.

Questo processo è stato ben studiato da Elias (1969), il quale mostra come nel passaggio dal Medioevo alla modernità si abbiano dei grandi cambiamenti nel comportamento sociale, e venga acquista una “raffinatezza” sempre maggiore: nei luoghi pubblici come il teatro ad esempio, si comincia ad assistere agli spettacoli in silenzio, sobri, senza emettere flautolenze, a sedere. Alcuni cambiamenti risultano evidenti dalla nascita (o, diciamo, dalla radicale modifica…) delle “buone maniere” a tavola: si evita di quindi di gettare gli avanzi in terra, di sputare, ecc. Lo stesso cambiamento avviene anche nelle case private, dove si modificano le abitudini delle famiglie, i coniugi cominciano a dormire da soli, i figli altrettanto.

In parole povere, la società europea si civilizza, e questi cambiamenti in un tempo non molto lungo vengono considerati naturali. Gli individui interiorizzano i nuovi comportamenti che diventano la norma. È evidente che la naturalizzazione di questi comportamenti nella sociabilità richiedono e producono nello stesso tempo delle modifiche psicologiche.

Al tempo dei Bill of Rights e della Dichiarazione di indipendenza, la sensibilità comune era ben diversa. Nella tensione del linguaggio tra diritti universali e diritti

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specifici di un popolo, secondo la Hunt gli americani utilizzarono gli uni o gli altri a seconda della convenienza politica: si basarono sui propri diritti di coloni britannici nelle lotte contro lo Stamp Act, ma scelsero un linguaggio universalista per prendere le distanze dalla madrepatria nella Dichiarazione di indipendenza. Però, anche i discorsi universalisti riguardavano comunque un soggetto particolare, cioè l’uomo bianco libero: la necessità economica dell’utilizzo degli schiavi nelle piantagioni e un’empatia non ancora sufficientemente matura fecero sì che con la Dichiarazione del 1776 piuttosto che garantire determinati diritti fondamentali per tutti, si difendessero dei privilegi di alcuni. Anche il Bill of Rights del 1791, con la ratifica dei primi dieci emendamenti alla Costituzione del 1787, è un documento i cui principi espressi non sono tanto i diritti naturali e universali dell’uomo, quanto alcune garanzie che erano state violate dagli inglesi nel periodo della rivoluzione, come il divieto di acquartieramento di soldati in case private. Soltanto il primo, famoso emendamento difende l’importante diritto di espressione, mentre gli altri sono orientati a garantire una certa uniformità nella garanzia di diritti a livello federale.

Oestreich propone anche l’interessante tesi di G. Ritter sulla influenza della Dichiarazione americana (e del modello americano in genere) in Europa: mentre in America è stato relativamente semplice liberarsi dal controllo del precedente potere sovrano (in ogni caso, tra le colonie e la madrepatria c’era pur sempre un oceano…) e la società, essendo “scarsamente differenziata” rispondeva con una certa facilità anche ai richiami all’uguaglianza (ad esempio, di fronte alla legge), nel Vecchio Mondo la situazione era completamente diversa: vi erano classi con privilegi secolari ed il sovrano era fisicamente presente (Oestreich 1978, pp. 70-1). Soltanto uno spirito rivoluzionario estremamente resistente avrebbe potuto portare, come avvenne, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

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