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DALLA TORTURA GIUDIZIARIA ALLA SUA ABOLIZIONE

SCENOGRAFIA E PRATICA DEL POTERE

Tutta la vicenda della persecuzione inquisitoria avveniva con una precisa ritualità, una scenografia del potere che doveva sottomettere il prigioniero, evidenziando tutta la disparità di forza tipica di ogni situazione in cui troviamo un carnefice e una vittima. A partire dai sontuosi palazzi dei tribunali, in contrapposizione alla povertà dell’inquisito a cui erano appena stati sequestrati tutti i beni, per arrivare nella camera della tortura dove il possibile eretico veniva denudato brutalmente, legato ad un palo e ridotto all’immobilità. Poi giungeva “il carnefice… un’apparizione straordinaria e spaventosa. Vestito da capo a piedi di un abito nero, con la testa e il

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volto coperti da un cappuccio dello stesso colore, fatta eccezione per gli occhi… una figura davvero satanica” (Scott 1940, p. 88) All’imputato venivano mostrati lentamente tutti i vari strumenti del torturatore, con calma, lasciandogli tutto il tempo di pensare all’effetto che avrebbero avuto sulle sue carni. Che durante la tortura, non solo il proprio corpo diventa un nemico e uno strumento del carnefice, che infligge sempre dei tormenti calcolati, ma anche la mente: “la tortura e l’imprigionamento prolungato nelle carceri peggiori, provocavano indubbiamente una parziale alienazione mentale, che induceva il recluso a credere di aver commesso gli atti di cui era tanto insistentemente accusato”.41

Possibile che qualche innocente abbia infine creduto di aver fatto qualcosa di sbagliato? Può benissimo essere. In più, la mente diventa un nemico perché l’imputato poteva essere innocente, ma dopo essere stato torturato con metodi atroci, la confessione (anche se falsa) gli avrebbe alleviato le sofferenze, e quindi la vittima si auto-tormenta anche psicologicamente, fino ad autoviolentarsi confermando le accuse (false) che gli erano state mosse contro. Anche in questo senso si può riprendere l’affermazione di Sofsky secondo cui la tortura è violenza assoluta: tutto ciò che viene fatto procura sofferenza alla vittima, una sofferenza poliedrica che colpisce il corpo, facendolo scientemente soffrire fino a ridurlo a brandelli, colpendolo nelle sue parti più sensibili (genitali, articolazioni, occhi…); il dolore fisico si trasmette inevitabilmente ai pensieri e diviene dolore psichico, nei pochi momenti di riposo concessi per non far svenire o morire il torturato, quando questi si scervella arrovellandosi su chi potrebbe aver detto cosa nei suoi confronti, se fra le proprie conoscenze si trovi qualche “amico” sospetto, se gli conviene inventarsi di aver bestemmiato per avere almeno la speranza di salvare la pelle… E nel caso di un imputato realmente colpevole, di un vero eretico, perciò ben conscio dei motivi per cui si trova nella camera della tortura, anche per lui i pensieri non saranno meno strazianti delle fustigate: dovrebbe abiurare la propria fede per salvarsi la vita? Avrebbe potuto farlo, barattando la propria dignità con la vita ma

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sapendo che poi lo avrebbero torturato nuovamente per sapere chi fossero i suoi compagni di fede… li avrebbe traditi? La mente cerca sempre una scappatoia, ma davanti al carnefice l’impotenza è totale.

Come sottolinea la Scarry (1985), il cui discorso riprenderemo più tardi, la sofferenza distrugge non solo il corpo, ma anche il linguaggio. Porta la vittima a regredire ad uno stato pre-linguistico: urla, gemiti, mugugni… quando il dolore arriva ad una certa soglia non si è più in grado di articolare delle parole, una frase: il dolore è inesprimibile attraverso un linguaggio “compiuto”. E tutto ciò che usciva dalla bocca di un inquisito veniva accuratamente registrato da appositi notai, che poi interpretavano sibili e borbottii a modo loro, ovviamente sempre a sfavore dell’imputato.

Il potere assoluto del carnefice era rappresentato dai suoi strumenti, e se alcuni erano utensili nati con ben altri scopi (coltelli e lame in genere, corde, bastoni), la visione di congegni inventati con il preciso scopo di procurare dolore faceva sicuramente più impressione all’imputato. E sebbene Sofsky affermi che la professionalità di un torturatore è data dalla sua disponibilità a fare certe cose, un buon carnefice sapeva ben dosare l’inflizione del dolore e utilizzare dei veri e propri strumenti del mestiere. Le tecniche di tortura più diffuse durante i primi periodi dell’Inquisizione erano lo squassamento, il cavalletto, la corda e il fuoco.

Il primo metodo consisteva “nel legare le mani della vittima dietro il dorso, sospendendolo poi con i polsi a una corda fissata a una carrucola mediante la quale egli poteva essere sollevato dal pavimento” (Di Bella 1961, p. 128). Al malcapitato potevano anche essere legati dei pesi da 100-150 kg ai piedi, in modo da facilitare lo slogamento degli arti superiori. Il tempo in cui il prigioniero avrebbe dovuto rimanere sollevato era arbitrario, solitamente compreso tra quindici minuti e un’ora, e dipendeva dalla combattività dell’imputato, dalla gravità degli indizi ma soprattutto dalla volontà del giudice. Successivamente, la vittima veniva lasciata cadere liberamente mollando la corda della carrucola, che veniva però bloccata prima che il corpo toccasse terra, con il risultato che le spalle o le gambe (se erano stati applicati i pesi) si slogavano brutalmente.

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Il cavalletto, chiamato anche “caprone”, “era costituito da assi di legno inchiodate insieme in modo da formare un angolo acuto (somigliante al dorso di un cavallo) oppure da un blocco di legno sagomato a V rovesciata con la costa tagliente, sollevato da terra da quattro gambe fissate a un supporto quanto bastava per permettere che il condannato… potesse starci a cavalcioni”(Laterra 2007, p. 87). Il dolore della vittima poteva essere aumentato con l’applicazione di pesi alle caviglie oppure utilizzando dei cavalletti cosparsi di spunzoni che si conficcavano nel corpo di chi vi si sedeva sopra… spesso però il cavalletto veniva utilizzato come base d’appoggio in combinazione con altre tecniche di tortura, tra le quali una è particolarmente interessante perché verrà ripresa nei prossimi capitoli, cioè la tortura dell’acqua.

Anche la corda poteva essere usata mentre la vittima si trovava sul cavalletto per la fustigazione: si trattava infatti di una grossa fune indurita tramite l’immersione nelle pece bollente, procedimento grazie al quale ogni colpo portava via brandelli di pelle e, dopo, muscoli dalla schiena nuda dell’imputato.

Il fuoco era la scelta preferita come pena di morte, in quanto il rogo rientrava pienamente nella scenografia della tortura, come simbolo di purificazione dello spirito. Nel caso che l’eretico non confessasse o non abiurasse la sua fede, la condanna a morte era sicura e caratterizzata da una forte ritualità anche simbolica. Il primo inquisitore dell’Inquisizione spagnola, fondata nel 1479 da Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, fu il famoso frate domenicano Tommaso de Torquemada (1483-98). Nei suoi quindici anni di attività fece bruciare sul rogo circa duemila persone.

L’autodafé

La cerimonia coreografica con cui venivano eseguite le condanne comminate dai tribunali dell’Inquisizione di una certa regione è il famoso autodafé. Questi si tenevano a intervalli di uno, due o quattro anni in giorni di festa, in modo che partecipasse più gente possibile.

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L’imputato ritenuto responsabile delle accuse mossegli contro non necessariamente era condannato a morte: questo dipendeva ovviamente dalla gravità dei suoi “crimini”. Una pena frequente era la fustigazione, in cui ritroviamo le più importanti caratteristiche del supplizio pubblico: su una mitria che veniva portata dal condannato durante la pena (a cavallo di un asino che camminava per le strade del paese) veniva scritto brevemente il crimine commesso, un araldo proclamava che la punizione era stata inflitta dal Santo Uffizio, mentre un notaio teneva il conto dei colpi inferti dal carnefice. Abbiamo quindi il carattere assolutamente pubblico del supplizio, il carattere istituzionale della tortura (il notaio), l’ostentazione del potere (l’araldo) e il suo “braccio armato” (il carnefice)42.

Tornando alla cerimonia dell’autodafé, Scott riporta una descrizione e una testimonianza che vale la pena di citare integralmente per comprendere bene come si svolgeva l’avvenimento. La prima descrizione della cerimonia è del pastore protestante John Dowling, che nel 1845 pubblicò un’opera intitolata History of the

Romanism, in cui parlava diffusamente sia delle dottrine e delle cerimonie

antiscritturali della Chiesa cattolica, e di tutti i massacri di cui si era resa responsabile. Non poteva perciò mancare una descrizione della processione dell’autodafé:

Le vittime che partecipano alla processione indossano il san benito, la coroza, la corda intorno al collo e portano in mano una candela di cera gialla. Il san benito è un abito o tunica penitenziale di tela gialla lunga fino alle ginocchia, sulla quale è dipinto il ritratto della persona che la indossa in mezzo alle fiamme, tra le figure di draghi e di diavoli che attizzano il fuoco. Questo costume sta a indicare che chi lo indossa sarà bruciato vivo in quanto eretico incorreggibile. Se La persona deve solo scontare una penitenza, allora il san benito non ha il disegno delle fiamme, ma una croce. Se un impenitente si converte appena prima di essere condotto al patibolo, allora sul san benito vengono dipinte delle fiamme rivolte verso il basso; questo abito viene chiamato fuego resuelto

42 Per altri tipi di condanne, come il murus strictus, la condanna alle galee, il porto della croce o il

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e indica che chi lo indossa non deve essere bruciato vivo, poiché gli è stato concesso di venire strangolato prima che sia appiccato ii fuoco alla pira. Un tempo, questi abiti venivano appesi nelle chiese come monumenti di eterna disgrazia per chi li aveva indossati e come trofei dell’Inquisizione. La coroza è invece un copricapo di cartone, a punta, alto tre piedi. Anche sullo stesso sono dipinte croci, fiamme e diavoli. Nell’America spagnola si aggiungevano alla coroza lunghe code attorcigliate. Alcune vittime hanno poi la bocca imbavagliata. e un certo numero di bavagli viene tenuto di riserva nel caso che, durante la loro marcia pubblica, diventino violente, insultino il tribunale o cerchino di rivelare segreti. I prigionieri che devono essere arsi vivi hanno da entrambi i lati un gesuita, che predica loro di abiurare le eresie e, se qualcuno tenta di proferire una sola parola in difesa delle dottrine per le quali va incontro alla morte, gli viene immediatamente imbavagliata la bocca.43

La seconda descrizione riportata da Scott è invece una testimonianza diretta di un autodafé del 1682 da parte del dottor Michael Geddes, un pastore anglicano. Egli ci racconta l’esecuzione della condanna nella “grande piazza” a Madrid, alla quale assiste anche la famiglia reale di Spagna, a significare l’importanza dell’evento:

Il 30 di marzo gli ufficiali dell’Inquisizione, introdotti dal suono delle trombe, dei timpani e dal loro vessillo, marciarono a Cavallo sino al palazzo della grande piazza, dove proclamarono che il 30 di giugno i prigionieri sarebbero stati giustiziati. Da molti anni a Madrid non si teneva uno spettacolo di questo genere , perciò, gli abitanti lo attendevano con molta impazienza, come un giorno di grande festa e di grande trionfo. Quando giunse il giorno stabilito, si presentò un numero sorprendente di persone, vestite quanto più splendidamente, in misura proporzionale alle effettive possibilità di ognuno. Nella piazza grande fu eretta un’alta impalcatura; e qui, dalle sette del mattino sino alla sera, vennero condotti i criminali di entrambi i sessi, perché tutte le Inquisizioni dei regno avevano mandato a Madrid i loro prigionieri.

Si ordinò il rogo per venti uomini e donne e per un apostata maomettano; si sentenziò che cinquanta ebrei ed ebree, che non erano mai stati imprigionati prima di allora e che si erano pentiti dei loro crimini, venissero rinchiusi a lungo in carcere e

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indossassero un copricapo giallo; e altri dieci, accusati di bigamia, stregoneria e altri crimini, furono condannati alla fustigazione e mandati alle galee: questi ultimi indossavano dei grandi copricapo di cartone con delle iscrizioni, un capestro al collo e tenevano delle torce in mano. L’intera corte di Spagna era presente in questa solenne occasione. Il seggio dei grande Inquisitore era collocato in una sorta di tribunale assai più in alto di quello dei re. I nobili svolgevano qui il ruolo che in Inghilterra era affidato agli ufficiali dello sceriffo: conducevano i criminali al rogo e li tenevano quando venivano legati stretti con corde spesse; il resto dei criminali veniva condotto dai famigli dell’Inquisizione.

Nel luogo dell’esecuzione vi sono tanti roghi quanti sono i prigionieri che devono essere bruciati, e intorno ai pali una gran quantità di ginestrone secco. I roghi dei protestanti, o dei professi, come li chiamano gli inquisitori, sono alti circa quattro iarde, ciascuno con una piccola tavola su cui viene fatto sedere il prigioniero alla distanza di mezza iarda dalla cima. I professi salgono quindi una scala tra due sacerdoti che li assistono per l’intera giornata dell’esecuzione. Quando raggiungono la tavola citata in precedenza, si girano verso il pubblico e i sacerdoti li esortano per circa un quarto d’ora a riconciliarsi con la Santa Sede. Se questi rifiutano, i sacerdoti scendono e al posto loro sale il boia, che fa voltare i professi sulla tavola con la schiena verso la scala e li incatena al paio. Poi salgono una seconda volta i sacerdoti per rinnovare le loro esortazioni; e se queste si rivelano inutili, allontanandosi dai prigionieri solennemente proclamano «li lasciamo al diavolo, che sta al loro fianco per riceverne l’anima e portarla con sé nelle fiamme dei fuoco infernale, non appena sarà uscita dal corpo». Allora si alza un grido generale e, quando i sacerdoti sono scesi dalle scale, tutti urlano: «Che si faccia la barba ai cani»(che significa «bruciate loro la barba»). Si incendiano quindi alcuni ginestroni e per mezzo di lunghi pali si passano sui volti dei prigionieri. Questo atto barbarico, accompagnato da alte acclamazioni, viene ripetuto fino a quando i criminali hanno i volti completamente bruciati. Infine si applica il fuoco ai restanti ginestroni e i condannati vengono arsi.

L’intrepidezza dei ventuno, uomini e donne, nel sopportare questa morte orrenda fu davvero sorprendente; alcuni infilarono le mani e i piedi nelle fiamme con impavida forza d’animo; tutti si abbandonarono al proprio destino con una tale risolutezza che alcuni degli spettatori, meravigliati, si dispiacquero del fatto che simili anime eroiche non fossero più illuminate. Il re, che si trovava molto vicino ai criminali udì molto bene i loro gemiti di morte; non poteva, del resto, non presenziare a questo spaventoso

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spettacolo, ritenuto religioso, dal momento che il suo giuramento dell’incoronazione lo obbliga a ratificare, con la propria presenza, tutti gli atti del tribunale.44

Il carattere cerimoniale risulta evidentissimo in questi due racconti: i penitenti che vestivano il san benito con disegnate sopra delle fiamme avvolgenti, come monito per gli spettatori sul destino inevitabile che i condannati avevano; l’ultima esortazione a ripudiare la “falsa” religione e tornare all’ovile di Santa Romana Chiesa, azione volta non tanto a salvare l’anima del morituro quanto a dimostrare pubblicamente come egli sia davvero impenitente e degno di morire sul rogo; la partecipazione del pubblico, che incita a bruciare i volti dei condannati dopo quella specie di epigrafe pronunciata dai sacerdoti, in cui lasciano al diavolo le anime dei peccatori; la presenza della famiglie reale, in rappresentanza del potere secolare alleato con quello religioso: era infatti il primo che comminava la pena di morte, non l’Inquisizione! Sarebbe stato in qualche modo inappropriato che dei religiosi condannassero a morte delle persone, e inoltre l’Inquisizione stessa come la questione religiosa vennero ampiamente utilizzate per scopi politici, senza tenere conto del fatto che la Chiesa stessa era detentrice di potere temporale e alleata, perciò, con i paesi cattolici. Gli inquisitori evitavano di esser loro ad emettere la condanna a morte tramite un’astuzia giuridica: dopo aver provato con le buone e le cattive a “riportare la pecorella smarrita all’ovile, era costretta ad espellerla dal proprio seno, ciò faceva ritirando la sua protezione nei confronti di essa. Il colpevole era consegnato alle autorità secolari… La formula era: “Debita animadversione puniendum”. Ma in realtà questa consegna significava una vera e propria condanna a morte. Le autorità secolari, difatti, non desideravano avere affatto tra i propri sudditi dei nemici della Chiesa e pertanto li eliminavano in vari modi” (Di Bella 1961, p. 122).

44 Cit. in Scott 1940, pp. 93-6, il quale non indica precisamente la fonte, che risulta essere M. Geddes, A View of the Court of the Inquisition in Portugal with a List of the Prisoners that came forth in an Act of the Faith Celebrated at Lisbon, in the Year 1682, in Miscellaneous Tracts, vol. I, stampato per A. e J.

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Dalla testimonianza di Geddes possiamo anche fare qualche osservazione sul modo in cui venivano percepiti gli autodafé verso la fine del XVII secolo. In apertura viene dichiarato esplicitamente che c’era molta attesa per la cerimonia, che non si teneva a Madrid da diversi anni. L’annuncio dell’autodafé viene proclamato a suon di trombe ben tre mesi prima, quasi ci fosse la prevendita dei biglietti… e la folla che vi assiste si dimostra anche partecipativa: l’avvio dell’esecuzione vera e propria viene richiesto ad alta voce dal pubblico (“Si faccia la barba ai cani!”), come oggi gli spettatori di un concerto chiamano a gran voce il gruppo musicale sul palco. Geddes sottolinea come la famiglia reale sia praticamente obbligata a partecipare a tale “spaventoso spettacolo” essendo questo una specie di “impegno istituzionale” che il sovrano ha assunto al momento dell’incoronazione. L’autore trasferisce la propria repulsione per quello che aveva visto al re: dal suo punto di vista, il volgo poteva sollazzarsi con l’uccisione di venti “criminali”, ma non il sovrano spagnolo. Non sappiamo quali fossero davvero i suoi sentimenti, ma ci interessano due aspetti:

1) la gente comune ancora nel 1682 non solo non vedeva niente di male nei supplizi pubblici, ma anzi li viveva in un’atmosfera piuttosto festosa e anche partecipativa; 2) Geddes, che narra la vicenda, prova invece repulsione per ciò che sta descrivendo, tanto da sottolineare l’“intrepidezza dei ventuno, uomini e donne, nel sopportare questa morte orrenda”. Non dobbiamo stupircene, essendo egli un pastore protestante che stava descrivendo una delle cerimonie più violente radicate nella Chiesa cattolica. Per giustificare la sua visione delle cose, spende delle buone parole per i condannati, che diventano appunto “intrepidi”, mostrano una “impavida forza d’animo”, affrontano la morte con una risolutezza tale che anche una parte del pubblico si dispiacque che “simili anime eroiche non fossero più illuminate”. Non possiamo sapere quanto tale ricostruzione degli animi dei presenti sia scevra da interpretazioni personali, ma a noi interessa la narrazione in sé: essendo rivolta al lettore, e volendo che egli si associ al suo modo di pensare (in un tempo in cui non era affatto scontato biasimare un rogo pubblico di venti persone) Geddes compie una sorta di “operazione simpatia”, o meglio, “operazione empatia”. Deve far risultare i condannati a morte come persone buone, che

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subiscono una crudeltà, e non anime dannate destinate alle fiamme dell’inferno come vengono etichettate dai sacerdoti.

Nella nostra analisi sulle motivazioni del passaggio dal supplizio pubblico alla “dolcezza delle pene” moderne e sull’abolizione della tortura giudiziaria, l’empatia ha una parte centrale nel pensiero di Lynn Hunt, già citata, e con la quale introduciamo l’argomento.