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Studierò qui gli angeli limitandomi al caso testuale della To- rah, nel senso ristretto di Pentateuco, e ad alcune delle sue in-

terpretazioni. uel che ne consegue nella tradizione ebraica, e in altre culture religiose in gran parte dipendenti da quest’ulti- ma, è una storia molto interessante, ma troppo ricca e compli- cata per poter essere qui discussa.

Nel testo biblico la semantica degli angeli è complessa. Spesso, seguendo i commenti classici, che costituiscono l’au- to-interpretazione della stessa tradizione, o badando al con- testo, dobbiamo intendere come angeli entità che non sono chiamate malàkh bensì ish, cioè uomini. Così accade ad esem-

pio in Genesi XVIII,2, dove Abramo vede tre uomini “davanti

alla sua tenda”. Ma presto (v.4) essi sono assai insolitamente chiamati con un nome particolarissimo, “adonai”, che può sì

significare “mio signore” (pur con qualche complicazione lin- guistica, perché la traduzione ebraica normale di questa locu- zione è adonì), ma che è anche, e ancor più, il consueto modo

di pronunciare ritualmente il Nome ineffabile di Dio. Succes- sivamente (XIX,1) due di loro sono finalmente chiamati “an-

geli”, malakhìm.

Un labirinto semantico molto simile viene successiva- mente attraversato da Giacobbe. Dopo aver lasciato suo suo- cero Labano “Giacobbe continuò il suo cammino, e gli si fe- cero incontro degli angeli di Dio (malakhé Elo-hìm)”: Genesi XXXII,2. Immediatamente (v.4) egli invia alcuni suoi messag-

geri (malakhìm), che nel testo ebraico è dunque la stessa paro-

la, a Esaù. Dopo alcuni preparativi per il temuto incontro con il fratello, “Giacobbe rimase solo, e un uomo (ish) lottò con lui

fino all’apparir dell’alba “(v 23). Al sorgere del sole, l’“uomo” cambia il nome di Ya‘aqòv in Israel, con la spiegazione para-

divini”). Sono anche conosciuti come kedoshìm (“esseri san-

ti”, come in Salmi LXXXIX,8 e Giobbe V,1). Spesso l’angelo è

chiamato semplicemente ish, “uomo”. L’essere misterioso che

ha lottato con Giacobbe viene prima definito ‘un uomo’, poi

elohìm (Genesi XXXII,24-31), ma Osea si riferisce a lui anche

come un malàkh (Osea XII,5). Come risultato di questa diver-

sità, ci sono alcuni passaggi in cui è incerto se si intenda un mes- saggero umano o sovrumano. La Bibbia parla anche di creature

alate di carattere angelico chiamate cherubini e serafini, che servono a una varietà di funzioni: (http://www.jewishvirtualli- brary.org/jsource/Judaism/angels.html).

La parola “angelo” proviene anch’essa da una radice in- doeuropea che significa “messaggero” ed è probabilmente cor- relata alla parola iranica angaros, ovvero “corriere montato”.

Watkins (1985) lo paragona al sanscrito ajira o “rapido” ed è

stato scelto dagli autori della LXX come traduzione dell’ebrai- co biblico malàkh, che, come si è detto, è anche spesso usato

per chiamare normali messaggeri o ambasciatori. “Nella Bib- bia ci sono 215 occorrenze della parola malàkh in varie forme,

giustapposizioni e contesti. 91 di queste istanze denotano un messaggero normale, come è chiaramente indicato dal quadro narrativo “(Wojciech Kosior 2013).

Gli angeli sono un argomento interessante per riflet- tere sulla mediazione, perché sono un genere metafisico, con molte specie. Sono spesso rappresentati come quasi-umani per forma, linguaggio, azione, ma spesso anche come quasi-divi- ni. Così sono metafisicamente “in mezzo” fra Dio e l’umanità. Sovente è inoltre detto che riferiscano la volontà divina agli umani, come pure le preghiere umane a Dio. Sono un tipo molto speciale di “media viventi” con condizioni peculiari di esistenza.

Giacobbe esclama: “il Signore era qui e non lo sapevo”; rico- nosce, dunque, la presenza di Dio e non quella angelica in quel posto. Ma ciò accade nel mondo “reale”, per essere precisi nel mondo diegetico di primo livello nel Libro della Genesi, men-

tre nel sogno, che possiamo considerare come un mondo die- getico di secondo livello, ci sono gli angeli e il Signore appare separatamente. Naturalmente i due livelli di manifestazione soprannaturale sono connessi, l’uno spiega l’altro, ma non c’è sovrapposizione.

In altri casi possiamo leggere di angeli che parlano in nome di Dio. Capita nel caso celeberrimo della legatura di Isacco (Genesi XXII,15-17). “E l’angelo del Signore (malàkh HaShem) chiamò Abramo una seconda volta dal cielo, e disse:

‘Per Me stesso ho giurato – dice il Signore –, perché tu hai fat- to questa cosa, e non Mi hai negato il tuo unico figlio, che in benedizione ti benedirò”. O così sembra, perché questa volta l’angelo parla “dal cielo” (Genesi XXII,11 e seguenti), che è ov-

viamente la posizione di Dio; e alla fine dell’episodio, Abramo nomina il luogo “Adonai-jireh”, cioè il monte dove “il Signore

provvede” (ma si può tradurre anche “è visto” – ma ciò che fu visto da Abramo, seguendo questa narrazione, o comunque provvide a lui, era un angelo, non Dio –. Una simile sovrap- posizione di identità è percepita da Agar e Ismaele nel deserto (Genesi XVI,7 e segg.):

7 La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel

deserto, la sorgente sulla strada di Sur […] 10 Le disse ancora l’angelo del Signore: «Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla per la sua moltitudine». 11 Soggiunse poi l’angelo del Signore: «Ecco, sei incinta: partorirai un figlio […] poiché il Signore ha ascoltato le manifestazioni della tua affli- zione13 Agar chiamò il Signore, che le aveva parlato: «Tu sei il

etimologica “Perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini (anashìm)” (v. 29). Finalmente Giacobbe “chiamò il nome del

luogo Peniel, perché ho visto Dio (Elo-hìm) faccia a faccia e

la mia vita è preservata” (v. 31), visione che, di norma, non è assolutamente concessa, come Dio stesso dirà a Mosè (Esodo XXXIII,20): “non puoi vedere la Mia faccia, perché nessuno

può vederMi e vivere”.

La stessa difficoltà di definizione è incontrata da Mosè al roveto ardente: “L’angelo del Signore (malàkh HaShem) ap-

parve” (Esodo III,2), ma è il Signore stesso (HaShem), non il

Suo angelo, che “vide che si era girato da parte per vedere”; e, di nuovo, è “Dio” (Elo-hìm), e non l’angelo che “lo chiama a

Lui” (v. 4) e gli parla (v. 5). Ancora una volta, quando Mosè fa una domanda, la risposta viene dal Signore (HaShem) (v.7)

e Mosè risponde “a Dio” (Elo-hìm (v. 11). Per un’analisi di

questa alternanza di nomi cfr. sopra. Se si ritiene che i signi- ficanti non siano importanti e che la sinonimia sia solo un di- spositivo letterario per evitare le ripetizioni, o il frutto della sovrapposizione fra versioni diverse del testo, come sostiene la teoria dell’“ipotesi documentaria”, tutta questa complicata rete di nomi e riferimenti può sembrare insignificante, come l’alternanza fra divinità e angeli. Tale è infatti la più diffusa posizione dell’ermeneutica cristiana. Ma questo non è affatto il modo di pensare nell’auto-interpretazione della tradizione ebraica, ove la complessità lessicale è oggetto di interpretazio- ni, discussioni e implicazioni teologiche.

In altre occorrenze, nella narrazione biblica, troviamo solo angeli. uesto è il caso del sogno di Giacobbe (Genesi XX- VIII,12): “sognò, e vide una scala montata sulla terra, e la cima

raggiungeva il Cielo; e tramite essa gli angeli di Dio (malakhé Elo-hìm) salivano e scendevano”. Dopo il sogno e il risveglio,

lattia. 26 Non vi sarà nel tuo paese donna che abortisca o che sia sterile. Ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni.

27 Manderò il Mio terrore davanti a te e metterò in rotta ogni

popolo in mezzo al quale entrerai; farò voltar le spalle a tutti i tuoi nemici davanti a te.

Si tratta di un discorso che gode della più alta auto- rità, perché è attribuito dalla Torah direttamente a Dio. Da

esso possiamo capire alcune idee generali sugli angeli, che, se- guendo la tradizionale esegesi biblica ebraica, sono implicite in tutte le narrazioni sugli angeli nella Torah, anche se quasi

sempre non vengono formulate esplicitamente, ma date per presupposte. Il primo punto è che gli angeli appartengono a Dio, sono “i suoi angeli”: il testo parla di malakhì (il mio an- gelo), dove l’ultima vocale in ebraico è una particella posses-

siva. Gli angeli non sono indipendenti, non hanno una vo- lontà personale, bensì sono solo al servizio di Dio. Pertanto, ogni volta che appaiono, vengono inviati da Lui: il testo usa il verbo sholéach, che proviene dalla stessa radice usata nella lin-

gua post-biblica (anziché malàkh) per indicare il messaggero,

l’inviato (shalìah). Ciò ci dà conferma della correttezza della

tradizionale traduzione greca con la parola άγγελος (angelos),

il cui significato originale, come si è detto, vale per “messag- gero, inviato”. Inoltre, come ben sapeva Rilke, gli angeli non sono affatto figure così “angeliche”, nel senso stereotipato di banalmente buone e rassicuranti; al contrario, sono “terribili”, come il “Il mio terrore” (amatì). Rilke affermava nella seconda

Duinese: “Jede Engel ist schreklich”, tutti gli angeli sono terri-

bili. uesto accade perché “Il Mio Nome è in loro” e il Nome di Dio deve essere sempre “benedetto e lodato, glorificato ed esaltato, celebrato e onorato, adorato e lodato”, come dice il

Dio della visione», perché diceva: «ui dunque sono riuscita ancora a vedere, dopo la mia visione?».[…] 21:17 Ma Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova”.

È difficile chiarire chi sia il parlante nei versi appena citati. Vi è una sovrapposizione fra discorso divino e discorso angelico, come se si trattasse della stessa fonte Difficilmente un angelo potrebbe fare promesse come quella di XVI,10. Dal significato capiamo che chi parla deve essere Dio stesso. Ma il riferimento anaforico è chiarissimo: il discorso è attribuito a un angelo. uali sono i rapporti di identità qui? L’angelo è Dio? O sono uguali? Prima di provare e capire questi proble- mi, dobbiamo prendere in considerazione la presentazione più “teorica” degli angeli che si trova nella Torah. Essa è collocata

in una posizione strategica (Esodo XXIII), tra le leggi imme-

diatamente successive al Decalogo (Esodo XX,1-17) e suggeri-

sce una sorta di angelologia biblica.

20 Ecco, Io mando un angelo davanti a te per custodirti sul

cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato. 21 Abbi rispetto della sua presenza, ascolta la sua voce e non ribel- larti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il Mio Nome è in lui. 22 Se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, Io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari. 23 uando il Mio angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l’Amorreo, l’Hittita, il Perizzita, il Cananeo, l’Eveo e il Gebuseo e Io li distruggerò, 24 tu non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti compor- terai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e dovrai frantu- mare le loro stele. 25 Voi servirete al Signore, vostro Dio. Egli benedirà il tuo pane e la tua acqua. Terrò lontana da te la ma-

be solo a modificare narrazioni alquanto problematiche per soddisfare gli standard di quella che viene chiamata dai suoi autori, secondo una concezione storicistica simile all’“Ipotesi Documentaria”, la “Nuova” teologia ebraica del Dio singolo e

trascendente. La forma “originale” sarebbe invece quella degli antichi standard letterari del Vicino Oriente che presentano le divinità (al plurale) che si manifestano agli umani direttamen- te senza alcun intermediario.

Ma, come al solito, nelle teorie bibliche “filologiche”, questa non è una spiegazione di ciò che effettivamente è con-

tenuto in un testo tanto significativo da meritare rispetto e attenzione come certamente è la Torah, ma una speculazione teorica sulle origini, gli usi politico/teologici, le forme e i tempi

di composizione che si suppongono per questo testo, sulla base di indizi molto controversi, Si attua così un evidente circolo vizioso in esso: si usa come spiegazione delle anomalie di un testo quel che nel testo non c’è e che si è solo presupposto a partire da esse. Nella Torah vi sono occasioni in cui si dice che

Dio parla e agisce, come pure altre in cui gli angeli sono inviati a parlare o ad agire nel Suo Nome. Ad esempio, Dio comanda direttamente ad Abramo di sacrificare Isacco, e poi un ange- lo lo ferma; Dio dice ad Abramo di ascoltare Sarah e cacciare via Agar e Ismaele, ma poi manda un angelo per mostrare loro l’acqua di cui hanno bisogno nel deserto. Nella lettera del te- sto, c’è una chiara differenza tra la presenza divina e la media- zione da parte degli angeli. uesto è chiaramente visibile, per

esempio in Esodo XXXIII:

1 Il Signore parlò a Mosè: «Su, esci di qui tu e il popolo che hai

fatto uscire dal paese d’Egitto, verso la terra che ho promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, dicendo:

brano più ripetuto e probabilmente più importante della litur- gia ebraica, il adìsh. A causa di queste condizioni di proprietà

divina, terrore e presenza del Nome, gli angeli devono essere obbediti e “non perdoneranno la tua trasgressione” né “si può essere ribelli contro” di loro. Ma questo potere e maestà sono per il bene, perché conducono a una vita buona.

Siamo ora in condizione di porre il problema principa- le: che cos’è un angelo? Nelle citazioni precedenti, troviamo due relazioni funzionali di forte somiglianza che definiscono le attività dell’angelo. La prima – e più debole – collega gli angeli e gli uomini: lo stesso aspetto, a volte stesso persino lo nome comune “ish”. Nella Bibbia gli angeli parlano, danno or-

dini, guidano, fanno previsioni per gli uomini, molto spesso interagendo con loro. Il secondo, e più forte, collegamento è tra gli angeli e Dio: appare un angelo e si dice che Dio parli; un angelo parla e dice “Io” in questioni riservate a Dio; il luogo dell’apparizione dell’angelo prende il nome di Dio.

Nella Torah gli angeli non mostrano mai individualità:

nessun angelo è chiamato per nome nell’intera Torah e nell’in-

tero Tanakh fin quasi alla fine. L’unica volta in cui viene dato

un nome personale agli angeli è nel Libro di Daniele, uno degli

ultimi della Bibbia ebraica, dove si nominano solo Michael e Gavriel. Non esprimono mai sentimenti o contenuti persona-

li, eccezion fatta per il misterioso “uomo” che lotta con Ya‘a- qòv, e parlano solo in nome di Dio. Come ho riportato, hanno il Nome di Dio “in loro”. Dunque sono solo un altro modo di chiamare Dio? uesto è quanto sostiene la “Teoria dell’in- terpolazione” di S.A. Meyer (Meyer 1992, Kosior 2013), ma tale ipotesi non è soddisfacente dal punto di vista testuale. Se seguissimo questa teoria, la parola malàkh sarebbe una sem-

si saprà dunque che ho trovato grazia ai Tuoi occhi, io e il Tuo popolo, se non nel fatto che Tu cammini con noi? Così saremo distinti, io e il Tuo popolo, da tutti i popoli che sono sulla ter- ra». 17 Disse il Signore a Mosè: «Anche quanto hai detto Io farò, perché hai trovato grazia ai Miei occhi e ti ho conosciuto per nome».

Ciò che è molto chiaro qui è una differenza, perfino un’opposizione argomentativa tra la prima persona divina, che è descritta in modo molto concreto come “La Mia faccia” (panài), e l’angelo che Dio incarica di guidare il viaggio da quel

punto in poi, volendo punire il popolo col togliergli la Sua pre- senza. L’opposizione, e anche tutto il brano, avrebbe poco sen-

so se l’angelo fosse solo un nome per la presenza divina, come sostiene Meyer. Il punto condivisibile della sua teoria è che gli angeli sono visti senza realtà individuale, come proiezioni

o “protesi” di Dio, seguendo la terminologia di McLuhan. Essi sono solo mezzi.

uesto punto può essere inoltre tematizzato conside- rando l’uso ebraico della radice del loro nome, anche ignoran- do le affinità con le altre lingue che sono state discusse prima. La relazione fra i diversi lessemi provenienti dalla stessa radice è molto importante nelle lingue semitiche, dove il significato delle parole è sempre determinato dalle radici, che quindi de- limitano un campo semantico. L’unica altra parola nella To- rah costruita con la stessa radice l -’-kh di malàkh è in effetti melàkhah, di solito tradotta come “azione”. uesta parola è

usata per:

a. le azioni di Dio nella Creazione;

b. i lavori per la costruzione del Tabernacolo;

c. le attività vietate durante lo Shabbat; Alla tua discendenza la darò. 2 Manderò davanti a te un angelo

e scaccerò il Cananeo, l’Amorreo, l’Hittita, il Perizzita, l’Eveo e il Gebuseo. 3 Va’ pure verso la terra dove scorre latte e mie- le… Ma Io non verrò in mezzo a te, per non doverti sterminare lungo il cammino, perché tu sei un popolo di dura cervice». 4 Il popolo udì questa triste notizia e tutti fecero lutto: nessuno più indossò i suoi ornamenti. 5 Il Signore disse a Mosè: «Ri- ferisci agli Israeliti: Voi siete un popolo di dura cervice; se per un momento Io venissi in mezzo a te, Io ti sterminerei. Ora togliti i tuoi ornamenti e poi saprò che cosa dovrò farti». 6 Gli Israeliti si spogliarono dei loro ornamenti dal monte Oreb in poi. 7 Mosè a ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, ad una certa distanza dall’accampamen- to, e l’aveva chiamata tenda del convegno; appunto a questa tenda del convegno, posta fuori dell’accampamento, si recava chiunque volesse consultare il Signore. 8 uando Mosè usciva per recarsi alla tenda, tutto il popolo si alzava in piedi, stando ciascuno all’ingresso della sua tenda: guardavano passare Mosè, finché fosse entrato nella tenda. 9 uando Mosè entrava nella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè. 10 Tutto il popo- lo vedeva la colonna di nube, che stava all’ingresso della tenda e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della propria tenda. 11 Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro. Poi questi tornava nell’accampamento, mentre il suo inserviente, il giovane Gio- suè figlio di Nun, non si allontanava dall’interno della tenda.

12 Mosè disse al Signore: «Vedi, tu mi ordini: Fa’ salire questo

popolo, ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto: Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai Miei occhi. 13 Ora, se davvero ho trovato grazia ai Tuoi occhi, indicami la Tua via, così che io Ti conosca, e trovi grazia ai Tuoi occhi; considera che questa gente è il Tuo popolo». 14 Rispo- se: «Io camminerò con voi e ti darò riposo». 15 Riprese: «Se Tu non camminerai con noi, non farci salire di qui. 16 Come

L’angelo la rappresenta come un medium vivente, ma non è la

stessa cosa. uesta è la ragione per cui nella citazione di Esodo XXXIII vediamo Mosè e il popolo rattristati e spaventati per-

ché la presenza divina deve essere sostituita da un angelo. Talvolta invece Dio è presentato nella Torah in situa-

zioni, principalmente nei casi più critici, in cui sceglie non di distanziarsi attraverso l’interfaccia di un angelo, bensì di pren- derne la responsabilità diretta. Per esempio, non vi sono angeli

presenti e attivi nella prescrizione del “sacrificio” di Isacco, ma

nella sua salvezza sì; né nella dispersione di Babele, né nella

morte dei primogeniti degli egizi (Esodo XII,23):

Il Signore passerà per colpire l’Egitto, vedrà il sangue sull’ar- chitrave e sugli stipiti; allora il Signore passerà oltre la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nella vostra casa per colpire.

uesta responsabilità diretta è ricordata con molta en-

fasi nel noto passaggio della Haggadah (il racconto liturgico,

molto più tardo, che fa da filo conduttore per la cena rituale della festa di Pésach), in cui il verso è commentato con una

citazione attribuita a Dio stesso:

Anì ve-lo malàkh, Ani ve-lo saràf, Ani ve-lo shalìach, “Io, e non

un angelo; Io, e non un serafino; Io, e non un inviato “, Io stesso