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Consideriamo ora il luogo testuale in cui avviene la “rivelazio- ne” dei Nomi divini, così la valuta la tradizione ebraica, anche se, come vedremo, nell’idea di rivelazione come atto inaugu- rale di una conoscenza e in questo caso della conoscenza dei Nomi divini, si cela un problema. È il celebre episodio del ro- veto ardente, all’inizio dell’Esodo. Ci interessa, in particolare,

buona parte del capitolo III e l’inizio del capitolo VI, con la “coda” dei due versetti del capitolo XXXIV, in cui sono enun- ciati gli “attributi” di Dio17:

3. 1. E Mosè fu pastore con il gregge di Itrò suo suocero, sacer-

dote di Midiàn. E guidò il gregge oltre il deserto [achàr ha-mi- dbàr] e venne al monte di Elo-hìm, al Horev [Sinai]. E appar-

ve un angelo [malàkh] di Y-H-W-H a lui in fiamma di fuoco

in mezzo al roveto. E vide ed ecco il roveto brucia nel fuoco e il roveto non è lui stesso consumato. E disse Mosè: “Mi spo- sterò e vedrò questa grande apparizione. Perché non brucerà il roveto?” 2. E vide Y-H-W-H che egli si spostava per vede-

re. E chiamò verso di lui Elo-hìm in mezzo al roveto e disse:

“Mosè, Mosè,” e disse: “Eccomi”. 3. E disse: “Non avvicinarti qui. Cava i tuoi sandali dai tuoi piedi perché il luogo sopra il quale stai, suolo sacro è esso”. 4. E disse: “Io sono Elo-hìm di

tuo padre, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm

di Giacobbe”. E ascose Mosè il suo volto, perché ebbe timore di

17 Utilizzo qui la traduzione di Erri De Luca (1994), per la sua estrema fe-

deltà alla lettera del testo, che mi permetterà di semplificare la mia analisi. Mi sono solo permesso di applicare il trattino di separazione a Elo-hìm e

nel sostituire la resa di De Luca del Tetragramma con le quattro lettere

latine, secondo quanto già statuito in una nota precedente. Sono state in- serite anche alcune traslitterazioni di parole fra lettere quadre, mentre le brevi spiegazioni testuali di De Luca sono in corsivo fra parentesi tonde.

Isacco. Si allude a strati e potenzialità diverse di tale persona, ad aspetti diversi della sua personalità16. Come vedremo, que-

sto aspetto è particolarmente significativo per i Nomi divini. Anche in questo caso, chiamare Dio in un modo o nell’altro, e perfino descrivere le Sue azioni sotto un Nome o un altro, ha per i commentatori ebrei un significato differenziale.

Se si confronta questo atteggiamento con le teorie dei nomi contenuti nel testo fondatore della filosofia del lin- guaggio occidentale, il Cratilo di Platone, è facile constatare

che nella tradizione ebraica i nomi sono, allo stesso tempo, arbitrari e naturali, nomoi e fysei; questo significa che la loro

arbitrarietà, l’essere frutto di un atto storico di nominazione, non impedisce che essi colgano un’essenza reale della cosa, o che siano pensati in questo modo. Certamente si tratta di una concezione più naturalistica che convenzionalista: l’ebraico è pensato come làshon ha-kòdesh, lingua santa o ‘della santità’.

Ma l’azione dell’uomo è essenziale per determinarla.

16 Ciò può sembrare un po’ strano dal punto di vista logico, ma si spiega

perfettamente pensando che i nomi biblici sono anche descrizioni defini-

te. ualcosa del genere del resto avviene in certi “nomi motivati” anche nella nostra pratica. Se si dice che la Gran Bretagna venne chiamata Regno Unito dopo la fusione fra le corone di Inghilterra e Scozia e che però, allo stesso tempo, il suo nome fa riferimento alla provincia francese da cui partì l’invasione normanna, ci si trova in un contesto problematico simile. “In the Scriptures there is the closest possible relationship between a per- son and his name, the two being practically equivalent, so that to remove the name is to extinguish the person (Numeri XXVII,4; Deuteronomio VII,24) To forget God’s name is to depart from Him”. Zondervan Picto- rical Bible Dictionary, p. 571 (1964).

34. 6. E traversò Y-H-W-H davanti al Suo volto e chiamò:

Y-H-W-H è Y-H-W-H, El misericordioso e prodigo di favore.

Lento all’ira e abbondante di grazia e verità. 7. Custodisce gra- zia per migliaia, solleva colpa e torto e peccato. E assolvere non assolverà, persegue una colpa di padri su figli e su figli di figli” fino ai terzi e ai quarti”.

Per cercare di capire questi testi bisogna iniziare dipa- nandone il tessuto metaforico e studiarne da vicino le scelte significanti, anche inseguendo la sua ermeneutica etimologi- ca tradizionale. La scena si apre in un luogo “oltre il deserto”; ma questo deserto o steppa suona in ebraico ha-midbàr, che

è stato letto talvolta come “il” (ha), “dal” (mi), davar, che in

ebraico significa “parola” ed, eventualmente, anche “cosa”. Al- cuni autori della tradizione si sono sentiti dunque autorizzati a pensare che Mosè dunque vada in questa circostanza al di là di ciò che viene dalla parola, dal dicibile18.

uale che sia la natura del suo viaggio, egli si trova così presso l’har ha-Elo-hìm, sul “monte di Elo-hìm”, nominato

qui come Hòrev, che è identificato dalla tradizione con il mon-

te Sinài19. Elo-hìm è il primo Nome divino che incontriamo in

questo passo (ma anche nella Torah in generale); qui è in posi-

zione enunciazionale, in bocca al narratore, non a un personag- gio e dunque è inteso essere referenziale, come accade spessissimo nel testo biblico, a partire dal suo primo versetto (Bereshìt barà

18 Devo questa lettura a Haim Baharier. Per una riflessione sul regime er-

meneutico di una simile spiegazione, si veda il cap. V delle mie Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2008.

19 Come vedremo in seguito, quest’identificazione non è priva di proble-

mi. Per un’interpretazione diversa del senso di questo nome si vedano le osservazioni di Joel M. Hoffman (2004) già riportate.

guardare verso Elo-hìm. 5.E disse Y-H-W-H: “Vedere ho visto

l’afflizione del Mio popolo che è in Egitto. E il loro grido ho udito a causa dei suoi oppressori, perché ho conosciuto i suoi dolori. […] 10. E adesso va, e ti manderò presso Faraone. E fai uscire il Mio popolo, i Figli d’Israele, dall’Egitto”. 11. E disse Mosè a Elo-hìm: “Chi sono io che andrò presso Faraone? E che

farò uscire i Figli d’Israele dall’Egitto?” 12. E disse: “Poiché sarò con te e questo è per te il segno che Io ti ho mandato: quando farai uscire il popolo dall’Egitto servirete Elo-hìm sopra questo

monte”. 13 E disse Mosè a Elo-hìm: “Ecco io vado verso i Figli

d’Israele e dirò loro: ‘Elo-hìm dei vostri padri mi ha mandato a

voi. E diranno a me: qual è il Suo Nome; cosa dirò loro?’ 14. E disse Elo-hìm a Mosè: “Sarò ciò che sarò”. E disse: “Così dirai

ai Figli d’Israele: Sarò mi ha mandato a voi”. 15. E disse ancora

Elo-hìm a Mosè: “Così dirai ai Figli d’Israele: Y-H-W-H Elo- hìm dei vostri padri, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco

ed Elo-hìm di Giacobbe mi ha mandato a voi. uesto è il Mio

Nome per sempre: e questo il ricordo di Me di generazione in generazione. 16.Vai e radunerai gli anziani di Israele e dirai loro: Y-H-W-H Elo-hìm dei vostri padri è apparso a me, Elo- hìm di Abramo, Isacco e Giacobbe per dire: visitare ho visitato

voi e ciò che vi è stato fatto in Egitto. […] 18. E ascolteranno la tua voce. E verrai tu e gli anziani di Israele al re d’Egitto e direte a lui: Y-H-W-H Elo-hìm degli ebrei è venuto incontro a noi e

adesso lascia che noi si vada per un cammino di tre giorni nel deserto e sacrificheremo a Y-H-W-H nostro Elo-hìm.

6. […]2. E parlò Elo-hìm a Mosè. E disse a lui: “Io sono Y-H- W-H” 3. E Mi rivelai ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe in

Nome di El Shad-dai. E il Mio Nome Y-H-W-H non l’ho fatto

conoscere a loro. […] 6. Perciò dì ai Figli d’Israele: Io sono Y-H- W-H e vi farò uscire da sotto i fardelli d’Egitto e vi libererò dal

loro servizio. E vi riscatterò con braccio disteso e con grandi

giudizi. 7. E prenderò voi per Me come popolo e sarò per voi come Elo-hìm. E saprete che Io sono Y-H-W-H vostro Elo- hìm, Colui che vi fa uscire da sotto i fardelli d’Egitto.

apparentemente più semplice di quelli che incontreremo in se- guito, segnala un’anomalia: un plurale che non è plurale, una derivazione grammaticale che non funziona, uno scarto non

solo rispetto alla grammatica ma anche alla semantica stabilita. È interessante però che subito dopo, al versetto 2, il soggetto dell’apparizione che si prepara non sia descritto come Dio, ma come un angelo (malàkh). Gli angeli nella tradizione

biblica sono espressioni della volontà divina assai poco sostan- ziali, che fanno quel che devono e poi spariscono senza lasciar traccia, tanto che, come abbiamo appena visto in riferimento alla lotta di Ya‘aqòv, non possono dire il proprio nome, forse perché semplicemente non ne hanno uno fisso, tanto esso è di- pendente dalle loro fugaci missioni, come suggerisce Rashì ad loc.21. Ya‘aqòv, tuttavia, avendo combattuto contro un angelo,

ricevette poi un nome che significa ‘colui che lotta con Dio’ (El), non contro l’angelo. E così Mosè, nel seguito dell’episo-

dio, parlerà con Dio, non con l’angelo. Abituati come siamo a un’idea quasi-politeistica degli angeli come creature sostanzia- li, siamo in difficoltà a capire una concezione per cui l’angelo è anche etimologicamente legato a un “lavoro” o un’opera, e tut- to sommato andrebbe tradotto al meglio come “apparizione”.

Bisogna ancora notare che l’angelo è qualificato come

malàch Y-H-W-H, che si usa tradurre con “angelo del Signore”.

Incontriamo così il secondo Nome (non per importanza, ma per ordine di apparizione) del nostro episodio e anche della Torah

(dove non appare prima del versetto Genesi II,4), quello che vie-

ne chiamato Tetragramma, con un’espressione descrittiva greca

che è in realtà il nome di un nome. È un’espressione che non si

usa per altri scopi in ebraico se non per nominare Dio, e che non

21 Approfondirò questo tema in un capitolo successivo di questo libro.

Elo-hìm…, “in principio creò Dio…”). A partire dalla traduzione

dei LXX si usa rendere questo Nome nelle lingue occidentali con “Dio”, “God”, ecc. È abbastanza chiaro che la parola derivi da un nome comune El, spesso usato pure nel testo biblico come nome

divino ma che indica anche genericamente autorità ed eccellenza. Per esempio, esso viene impiegato anche per nominare giudici, potenti, Patriarchi… Lo ritroveremo oltre nel testo e lo analizze- remo allora vari parenti di questo Nome sono disponibili nelle lingue semitiche, fra cui naturalmente l’arabo Allah.

La peculiarità più evidente di Elo-hìm è di sembrare

un plurale: la desinenza -ìm è standard in ebraico per il plu-

rale dei nomi maschili, anche se non indica necessariamente plurali semantici, come per esempio accade nel caso, in realtà originariamente duale, di shamàim, “cielo”, e màim, “acqua”.

Grammaticalmente, però, Elo-hìm non può essere il plurale di El, che in effetti fa regolarmente Elìm, testimoniato abbastan-

za spesso nelle pagine della Torah, nel senso già ricordato di

personalità di rilievo, ma anche di dei o idoli. ualche volta

Elo-hìm viene usato come soggetto dell’enunciazione in frasi

con il verbo al plurale, che però può essere benissimo un plura- le maiestatico; assai più spesso, però, questo parla al singolare e, comunque, i verbi diegetici che gli si riferiscono sono quasi sempre coniugati al singolare, come per esempio ai versetti 4 e 6 del cap. III appena citati20. Ogni lettura che pretenda di

dedurre qualche aspetto politeistico dalla forma di questo nome è dunque certamente discutibile. Anche questo Nome,

20 Un’eccezione interessante è in Esodo XXXII,4, quando gli ebrei attri-

buiscono al vitello d’oro costruito da Aronne il titolo di Elo-hìm, ma ido-

latrandolo gli attribuiscono un verbo al plurale “che ti hanno fatto uscire d’Egitto” heelùha me-èretz Mizràim.

La vocalizzazione del Nome che si legge da millecin- quecento anni nei testi ebraici viene fatta risalire a quella della parola con cui il Tetragramma è sostituito nel contesto litur-

gico, Adonài, vale a dire “mio Signore”: il “Nome del Nome”,

come lo chiama Lévinas23. Le consonanti di Adonai non hanno

alcun rapporto con quelle del Tetragramma. Il suggerimento della diversa lettura sarebbe però reso esplicito dal fatto che il Tetragramma è vocalizzato24 (quando lo è) con gli stessi segni

diacritici usati per Adonai. E però, a guardar bene, la punteg-

giatura non è esattamente la stessa di questa parola, ma solo piuttosto simile25; e del resto Adonai non è il modo normale

23 Emmanuel Levinas (1982, p. 150). La vocalizzazione del Tetragramma

secondo le vocali di “Adonai” viene attribuita ai Masoreti, con l’intenzio-

ne di ricordare la doppia pronuncia. Da questa vocalizzazione pedagogica, presa alla lettera da un traduttore cristiano del XVI secolo deriverebbe la scrittura scorretta “Jehovah” che in italiano diventa ancor più incon- gruamente “Geova”. L’altra vocalizzazione corrente “Javeh” deriva invece dall’idea che si tratti di una voce del verbo essere, come abbiamo già accen- nato. Se si trattasse di una terza persona singolare della radice corrispon- dente, le vocali dovrebbero essere queste; meno diffusa è la vocalizzazione “Yahuh” o “Yehu”, forma quest’ultima che compare qualche volta nella

Bibbia, soprattutto all’interno di altri nomi. Secondo chi sostiene que-

sta ipotesi si tratterebbe di una sorta di “Grido primitivo”, che vorrebbe dire “Yah è Lui” oppure “Yah esiste”, essendo Yah un altro Nome divino,

considerato comunemente una contrazione del Tetragramma e usato in

molti nomi e locuzione come Halleluyah (l’imperativo plurale di Allel:

“lodate il Signore!”).

24 Usando i segni diacritici delle vocali, “punti” sistemati sopra, sotto e

all’interno delle consonanti. Essi non sono presenti nel testo liturgico del- la Torah, ma sono inseriti nei testi di studio.

25 Nel Tetragramma vi è, nell’ordine, uno shèva un kamàz e un chòlem,

mentre in Adonài troviamo un kamàz, un chòlem e un altro kamàz.

ha significati espliciti, anche se il commento su quelli impliciti è sterminato. È il “Nome proprio di Dio”22. Lo si può associare

etimologicamente al verbo essere, haià, come vedremo in segui-

to, ma non corrisponde a nessuna voce verbale identificabile. La questione del suo senso è resa più difficile per il fatto che il Tetragramma è impiegato nella tradizione ebraica come pura scrittura e non ha una resa fonetica stabilita, dato che, almeno

dai tempi del Secondo Santuario, è stato proibito (e per gli ebrei

resta ancora oggi proibito) pronunciarlo, cosa che era possibile, fin che il Tempio esisteva, ma solo nel Giorno dell’Espiazione (Yòm Kippùr), quando il Sommo Sacerdote pronunciava que-

sto Nome nell’isolamento del òdesh ha-odashìm, il sancta sanctorum del Santuario. Dalla distruzione del Santuario, tale

Nome non è più stato pronunciato in forma rituale e non esiste una tradizione che ne abbia serbato il suono esatto. Per chiarire questo punto, bisogna ricordare che la scrittura originale ebrai- ca della Bibbia, fino almeno al sesto secolo della nostra epoca

circa, non comprendeva i segni vocalici (mancanti ancora oggi in libri e giornali israeliani), e in primo luogo nel rotolo – sèfer –

usato nella lettura liturgica della Torah. Conseguentemente, la

pronuncia esatta che il Sommo Sacerdote usava non può essere stata precisata né trasmessa per iscritto e a questo proposito oggi possiamo solo fare congetture.

22 Così il Rambàn, la cui citazione è tratta da (1973, vol II p. 585). uesta

definizione di nome proprio si può convalidare anche notando un uso linguistico importante: mentre è normale e comunissimo che il nome Elo- hìm sia sottoposto a suffissi possessivi (Eloè-kha), “il tuo E.”; Eloh-ènu, “il

nostro E.” ecc., quest’uso non si applica mai al Tetragramma. Per affer-

mare un possessivo – attivo o passivo che sia – nei suoi confronti si usa invece la formula, tipica delle benedizioni, “Y-H-W-H Elo-hènu”, come

affatto – come sarebbe logico aspettarsi – un angelo dello stesso

Elo-hìm, ma invece uno di Y-H-W-H (versetto 2), cioè riferito

a un diverso Nome divino. Appare dunque normale che il suo atto successivo di scostarsi dal roveto per contemplare meglio e con più rispetto l’apparizione venga dunque descritto dal testo come “visto” dallo stesso Y-H-W-H (versetto 4), ma molto più

strano che egli, una volta visto da Y-H-W-H, Mosè venga “chia-

mato” invece di nuovo da Elo-hìm (sempre nel verso 4), che gli

Si presenta ancora con questo stesso Nome Elo-hìm nel discorso

diretto del versetto 6, e in quel versetto coerentemente Mosè si copre il volto “per non vedere” la divinità nominata ancora

Elo-hìm. Ma, nel verso 7, il soggetto dell’enunciazione che gli

viene rivolta diventa di nuovo il Tetragramma. In risposta alle sue parole però, al versetto 13, Mosè non parla al Tetragram- ma ma a Elo-hìm… Certamente una tale vertiginosa alternanza

sarebbe poco degna di nota in una teologia dove l’uso dei due Nomi fosse indifferente e in una stilistica, come quella italiana contemporanea, per cui la ripetizione riesca sempre sgradevole. Le cose però non stanno così nel nostro testo. Lo stile biblico, infatti, non solo non rifiuta, ma predilige le ripetizioni e non cer-

ca affatto di evitarle. Sul piano teologico o storico-religioso poi i due Nomi non sono affatto intercambiabili. Vediamo perché.

Si usa chiamare “Ipotesi Documentaria” la teoria testua-

le prevalente ormai da più di cent’anni sulla struttura e sulla composizione della Bibbia ebraica, dovuta al filologo tedesco

Julius Wellhausen. Secondo questa ipotesi, si distinguerebbero nella Torah quattro strati: uno “sacerdotale” P, che compren-

de soprattutto le disposizioni sul culto; uno deuteronomico D, che riguarda soprattutto la composizione dell’ultimo libro della Torah e dei testi biblici successivi; ma, soprattutto, i due

più antichi, indicati proprio con le iniziali del due Nomi divi- di dire “mio Signore”, che si direbbe piuttosto Adonì26. Anche

questa anomalia è un altro indizio del sistematico scarto lin- guistico che si ritrova nei Nomi divini.

Per aggiungere un altro tocco alla complessità dell’ar- gomento, occorre ricordare che vi è un terzo modo di leggere, o piuttosto di nominare queste lettere, nei contesti non liturgici, che ci mette meno in difficoltà, dato che si tratta dell’espres- sione HaShèm, che significa per antonomasia il Nome – secon-

do una “suppositio materialis”, per dirla con gli scolastici, ana- loga a “Tetragramma”. HaShèm viene talvolta ulteriormente

parafrasato in Adoshèm, che significherebbe il Nome che inizia

con Ado, cioè Adonai. Per nominare il Tetragramma – che, a

sua volta, come ho accennato, è una nominazione descrittiva (suppositio materialis) greca, significando “quattro lettere” –,

si dice in sostanza “il Nome”. uesto Nome del ‘Nome del Nome’ però non nomina l’espressione Y-H-W-H, bensì la di-

vinità stessa. Dio, quand’è definito dal Tetragramma, si dice “il Nome”: “benedetto il Nome”, “se il Nome vorrà”, “grazie al Nome”… Testimonianza straordinaria dell’importanza della dimensione linguistica nell’ebraismo e, al contempo, espres- sione estrema del paradosso che ci interessa.

Ritornando al nostro testo, dobbiamo ripartire dal fatto che Mosè, appena arrivato al “monte di Elo-hìm” (versetto 1)

e messo di fronte a un angelo (o a un’apparizione), non veda

26 Infatti, dal punto di vista grammaticale, la parola sembra formata come

un plurale, piuttosto che come un possessivo. Si noti che Adonài non è

solo un sostituto, ma anche un Nome divino usato con il Tetragramma (per esempio in Genesi XV,2 e 8) o da solo (Genesi XVIII, XXX, XXXI).

Da notare anche che la Vulgata non distingue fra Tetragramma e Adonài,

traducendo sempre Dominus. La LXX tende a usare Despotes per Adonài

distinzione si sono sviluppate poi numerose teorie qabbalisti- che, interpretazioni rabbiniche, sviluppi vertiginosi nella spe- culazione sulla struttura interna del divino che non è il caso di neppure di iniziare ad accennare qui.