• Non ci sono risultati.

L’interpretazione, anche e soprattutto quella che agli occhi di una moderna analisi filologica o semiotica potrebbe apparire anomala, mero “uso” del testo, costituisce dunque un elemento essenziale per assicurare la dinamicità del sistema di senso della Torah, ed è perciò

valorizzata in senso fortemente positivo dalla tradizione ebraica. uesta logica non riguarda solo i testi normativi, ma anche quelli che genericamente possiamo indicare come narrativi, i quali richiedono

comprensione invece che applicazione e stabiliscono principi etici inve-

ce che norme. In ogni caso interpretare i testi è necessario, e si tratta di sollecitarli – questo, usato spesso da Lévinas, è uno dei significati

possibili di deràsh, il livello più frequentato del commento –, o ad-

dirittura di “accarezzarli” (Ouaknine). L’operazione interpretativa è pensata dalla tradizione ebraica in termini assai complessi, ben più ricchi di una “decodifica” o della gadameriana “fusione degli orizzon- ti di senso”. Scrive, per esempio, Elie Wiesel (2006, pp. 15-16):

Commentare un testo significa prima di tutto stabilire fra se stes- si e il testo una relazione di intimità: io esploro le sue profondità in modo da cogliere il suo significato trascendente. In altri termi- ni, nel commentare un testo, abolisco le distanze. Leggo una frase che venne formulata al di là degli oceani e dei secoli […] e per comprenderne l’intento originale la faccio passare attraverso al- tre frasi, fino a emergere nella mia mente. Commentare un testo

uesta relazione intima e progressiva con la sapienza, per cui la possono enunciare formalmente non solo i maestri del passato, ma anche i rabbini accreditati (forse questo nel brano appena citato vuol dire “discepolo sagace”70, “talmìd

vatìk” del futuro), implica la possibilità di aggiornare il testo

antico senza modificarlo, interpretandolo rispetto alle nuove

esigenze. Il che è particolarmente importante trattandosi di un sistema di testi qualificati come essenzialmente normativi (halakhah), che codificano obblighi religiosi, costumi liturgi-

ci, sistemi alimentari, relazioni economiche e perfino il diritto penale, ancor prima di contenere materia di fede e di storia (haggadah).

Dunque si tratta di testi che, nel pensiero di chi li pro- duce e li conserva, sono per loro natura destinati a “rotolare” per il mondo, in mezzo alle mille variabili e novità della vita reale, e che, proprio per poter essere applicati restando se stes- si, non devono restare più immobili “in cielo”, cioè nelle “in-

tenzioni dell’autore”, per usare una terminologia più vicina a noi, e neppure chiusi in un’“intenzione del testo” atemporale e fissata una volta per tutte. Al contrario, queste intenzioni sono pensate come “segreti” del testo che si disvelano quando è il caso, quando la comunità interpretante cerca indicazioni nel testo di fronte ai nuovi problemi71; o, piuttosto, come po-

tenzialità di senso in cui sono previste implicitamente anche le situazioni che non si erano sviluppate e non erano perfino

70 Non bisogna prendere questa dichiarazione come troppo liberale. Non

basta frequentare una scuola talmudica per essere talmìd vatìk. Così nel

gergo talmudico è definito un maestro.

71 È a partire da questa condizione di continua reinterpretabilità e di aper-

tura alle esigenze del tempo che Baharier definisce la Torah “testo deittico”,

testo o di un segno: al contrario, è un lavoro attivo che sele- ziona caratteristiche non ovvie del significante del testo e ne estrae sensi non banali. La semiotica non può non cercare di comprendere questo tipo di attività, una tale forma di lavoro sul senso, dato che essa non riguarda solo l’ermeneutica di una specifica e sia pur imponente tradizione religiosa, ma investe anche in diversa misura la scrittura critica, la cura psicoanaliti- ca75, l’interpretazione giuridica e così via.

Lo studio dell’ermeneutica ebraica costituisce una sfida significativa in questa direzione, soprattutto perché questa moda- lità anomala dell’interpretazione vi è ben definita, canonica e for-

malmente autoconsapevole: ben altro da quella catena progres- siva di inconsapevoli misinterpretazioni con cui Harold Bloom

cerca di modellizzare e di spiegare le caratteristiche delle letture

trasgressive di testi canonici76. Non siamo affatto di fronte, qui, a

libere variazioni sul tema di testi precedenti, a quelle derive prive di responsabilità nei confronti del testo che Eco stigmatizza nei

75 La somiglianza fra lavoro analitico e metodi talmudici è stata spesso

notata; non la discuto qui, ma noto chemolte delle caratteristiche che ho evidenziato nelle interpretazioni del versetto biblico si potrebbero ritro- vare facilmente nelle opere di Freud e dei suoi discepoli. Ci sono anche relazioni molto dirette, che fanno penare che a Freud sia arrivato qualcosa di questa tradizione, forse attraverso insegnamenti in famiglia, dato che il padre era un ebreo osservante. Il lungo brando del trattato Berakhot

(53a-57b) dedicato all’interpretazione dei sogni per esempio, è ricco di suggerimenti simili ad alcune tecniche interpretative della psicoanalisi.

76 La valorizzazione della “mislettura” è caratteristica di tutta la scuola cri-

tica di Yale e investe anche la teoria decostruzionista originale di Derrida. Di Bloom si vedano a questo proposito (2002) e (1992). Non intendiamo affatto richiamare qui le sue letture del testo biblico, piuttosto estetizzan- te e letterarie, anche se da esse Bloom ritiene di poter trarre impegnative conseguenze teologiche.

[…] è sapere che, anche se non sono sempre capace di raggiungere la verità, posso avvicinarmi alla sua fonte. È ritornare alle origini di una parola o di un nome che è radicato nella Rivelazione […]. Commentare in ebraico si dice perùsh. Il verbo p-r-sh72 significa

anche separare, distinguere, isolare: cioè separare l’apparenza dalla realtà, il semplice dal complesso, la verità dalla contraffazione. Sco- prire la sostanza, sempre. Scoprire la scintilla, eliminare il superfluo, allontanare l’oscurità. Commentare significa richiamare dall’esilio una parola o un concetto rimasti pazientemente ad aspettare fuori dal regno del tempo e dentro le porte della memoria.

Il tema da sottolineare qui è quello dell’interpretazione come trarre alla luce, così analogo all’insistenza heideggeria-

na73 sulla verità come a-letheia – tradotta come “non nascon-

dimento” –, ma che significa certamente anche “non oblio”, se non altro per il legame con il fiume d’oltretomba, il Lete, che distruggeva la memoria e che risuona anche con un tema fondamentale della mistica ebraica, quello delle “scintille” del divino che si sono perse nell’oscurità della Creazione e devono essere recuperate74. Si tratta dunque di un’operazione molto

più complessa e impegnativa della semplice ricezione di un

72 Da questa radice viene anche la parola farisei, “perushìm”, che significa

“separati”, prima che “interpreti” (Rav Somekh in www.morasha.it): se-

parati dai costumi ellenizzanti della società del loro tempo, dunque osser- vanti; si usa accostare questa radice anche a p-r-s, stendere, nel senso in cui

si stende la pasta, ma non vanno confuse.

73 Che questa convergenza non sia un puro caso, ma un esempio di un’in-

fluenza più generale lo sostiene Zarader (1990).

74 Per una spiegazione chiara di questo punto, si veda per esempio Busi

(1998, p. 22); vi è qui un’evidente assonanza con temi gnostici, su cui han- no molto discusso gli specialisti storici, in particolare Gershom Scholem e Moshè Idel: evito di entrare qui in un tema così complesso e controverso.

della Ghemarah, dal lato interno della pagina il commento ca-

nonico di Rashì, dall’altro quello dei suoi immediati successori (tosafòt), e, ancora più all’esterno, alcuni commenti successivi

particolarmente autorevoli, che si rimandano fra loro e ad al- tre pagine del testo: un sistema assai più sofisticato di quello testo-note cui si è abituata la tradizione degli studi occidentali. In questo apparato peritestuale domina evidentemente la de- riva controllata delle interpretazioni. Allo stesso modo pre-i-

pertestuale sono pubblicate da secoli nella cultura ebraica le edizioni di studio della Torah.

Ma, in secondo luogo, anche l’organizzazione stessa del testo in senso stretto del Talmùd va in questa stessa direzione

di apertura all’interpretazione: come ho già detto, le diverse opinioni, anche quelle di minoranza, sono conservate – e non solo a scopo dialettico –, ben più di quanto accada nelle di- sputationes cristiane medievali di cui sono esempio canonico le Summae tomistiche, dato che tutte le posizioni soccombenti

riportate non sono presentate come errori da confutare, ma, piuttosto, come “parole del Dio vivente”, sia pure inapplicabili oggi dal punto di vista pratico-giuridico, come abbiamo visto sopra; opinioni che però potrebbero essere usate come prece- denti e autorità in discussioni successive e perfino, in circostan- ze mutate, diventare, a loro volta, norme vincolanti. E infine, nella stessa direzione, va anche l’apprendimento e la pratica dei talmudisti, fatta sempre per via di discussione a coppie e a gruppi (pilpùl, chavrùta) in cui le opinioni ermeneutiche sono

espresse e difese citando brani testuali senza soluzione di con- tinuità fra interno ed esterno con la compilazione dell’opera.

Ancor più interessante è il fatto che vi sono segni con- sistenti di autointerpretazione nel testo della stessa Torah, che

funzionano in modo coerente con le tecniche di spiazzamen- suoi lavori, ma a procedimenti regolati e molto sofisticati, che si

sforzano di estrarre un senso pensato come già implicito nei passi

interpretati e tale che potrebbe essere approvato dai loro autori, pur essendo ben lontano dal loro significato ovvio ed esplicito77.

È importante sottolineare ancora che non solo questa linea estensiva dell’interpretazione non è vista come anomala nella tradizione culturale cui appartiene78, ma anzi è perfet-

tamente canonica ed enormemente diffusa nella tradizione, ma è anche prevista e anticipata, in maggiore o minor misura, all’interno dei testi destinati a essere interpretati. Testi di in-

terpretazione – o meglio, di compilazione di interpretazioni – come la Mishnah e il Talmùd sono naturalmente aperti a

interpretazioni successive, purché esse rispettino i canoni fon- damentali cui la discussione stessa si attiene. In primo luogo, da molti secoli, il Talmùd è pubblicato in una forma sostan-

zialmente ipertestuale: la pagina standard comprende, in un formato codificato e ormai caratteristico del testo, al centro un breve brano della Mishnah, intorno a esso la discussione

77 Una discussione particolarmente significativa si trova in un saggio di Em-

manuel Lévinas che ho potuto consultare solo in traduzione inglese, “The Jewish Understanding of Scripture”, in Cross Currents, Vol. 44, n. 4, p. 488;

l’originale è apparso in francese nella rivista Lumiére et Vie 144, 1977.

78 uesta libertà di interpretazione, con i limiti che vedremo, è stata og-

getto di importanti battaglie politico-teologico-culturali nella tradizione ebraica. Vi sono almeno due notevoli movimenti nella storia dell’ebrai- smo che rifiutano la “Torah orale” e predicano l’osservanza pura e sempli-

ce delle norme scritte. Uno è il movimento sadduceo, attivo dal secondo secolo a.C. e fino alla caduta del Secondo Santuario circa; il secondo è il

movimento caraita, originatosi in Mesopotamia verso l’VIII secolo, che ancora sopravvive oggi in qualche gruppo molto isolato. Su questo punto, vedi Halbertal, (1997) e Stemberger (2000, pp. 164-185).

semplicemente una fiducia nella presa significante dei nomi propri, ma l’idea che la superficie verbale possa e debba essere manipolata e perfino forzata, sia nella dimensione scritta che

in quella fonetica, in modo da trarne quel sovrappiù di senso che vi si trova sempre nascosto. Il che è, in sostanza, il principio

tecnico di moltissime fra le interpretazioni più tarde che stia- mo discutendo, le quali naturalmente vengono legittimate da tali auto-interpretazioni.

In un contesto del genere il problema è certamente come tenere sotto controllo il processo ermeneutico, per im- pedire che esso si moltiplichi e dilaghi in maniera insensata, generando una confusione tale che qualunque cosa possa esse- re affermata come interpretazione di qualsiasi altra e dunque nessuna conti più, secondo la preoccupazione teorica di Um- berto Eco. La storia mostra che la pratica interpretativa ebraica è stata di fatto sufficientemente moderata, tanto da consentire l’eccezionale durata della cultura che anima, pur mancando sia del controllo autoriale in senso platonico, sia del primato del significato letterale che, salvo necessarie reinterpretazioni allegoriche in casi critici, per esempio nel caso di immoralità attribuite agli dei dai poemi omerici o di versetti biblici “im- barazzanti” nelle letture cristiane, è la tacita teoria dell’inter- pretazione dominante in Occidente, sia infine in assenza di autorità centrali in grado di autorizzare o proibire particolari

derive ermeneutiche.

È evidente che, in questa conservazione della cultura e delle pratiche testuali che ne sono il cuore, agiscono fattori storico-sociali che non possono essere discussi qui, al di là degli accenni che ne ho dato. Ma è importante notare che vi sono anche alcuni principi testuali che presiedono alla catena delle

interpretazioni. Anzitutto, la presenza di un certo numero di to testuale basato sullo stesso primato del significante che ho

esemplificato sopra79. Un esempio molto caratteristico e dif-

fuso sono le paraetimologie dei nomi propri e dei toponimi, diffusissime nel testo della Torah. Per fare un solo esempio, Esodo I,10 scrive che la figlia del faraone, avendo trovato la

cesta galleggiante dov’era stato abbandonato un bambino e avendolo adottato, “lo chiamò Mosheh, dicendo ‘Io l’ho trat- to dalle acque.’”, “min ha-màim meshitìhu”. Abbiamo qui una

spiegazione fonetica che investe la somiglianza di due parole etimologicamente non legate: il procedimento è perfettamen- te analogo di quello con cui abbiamo visto lo Zòhar trarre le

parole “rosh” e “bet” dal significante “bereshìt”80. Ovviamente

a chi scrisse la Torah era chiaro che la figlia del Faraone non parlava in ebraico e che la somiglianza fonetica non poteva spiegare il nome. Si tratta in realtà di una sorta di commento indiretto che attribuisce alla figura di Mosè una proprietà im- portante. Sotto alle numerose paraetimologie bibliche non c’è

79 Una discussione interessante e alcuni esempi si trovano in Stemberger

(2000. pp. 15-25).

80 Altri esempi di “interpretazione basata su una debole assonanza” senza

alcuna base grammaticale, che produce un “midràsh [nel senso generico

di commento] intrabiblico”, riferiti specificamente a nomi propri come Nòah [= Noè] che “yenachamènnu [= ci consolerà]” (Genesi V, 29) o

Shemùel [= Samuele], che sarebbe così così chiamato “perché shaàlti [l’ho

chiesto] al Signore” a quanto dice la madre in1 Samuele I, 20, si trovano

in Milka Ventura Avanzinelli, Fare le orecchie alla Torah, Giuntina, Fi-

renze, 2004, insieme a un’interessante discussione del tema. Vi si trovano illustrati anche altri esempi di “interpretazione intrabiblica”, come l’uso di Ghemàtriah (Genesi XLI-LI) e le seconde narrazioni interpretative di

certi episodi, o l’uso di Salmi come il LXXVIII che parafrasano e amplia-

L’innovazione normativa in questa tradizione inter- pretativa è veramente rarissima, mentre più frequentemente sono proposte estensioni delle norme e applicazioni ai casi dubbi, che fanno giurisprudenza però solo se sono in grado di raccogliere il consenso dei rabbini. Un caso tipico è la proi- bizione della poligamia – che nella Bibbia compare spesso –,

introdotta verso l’anno 1000 da un decreto di Rabbènu Gher- shon di Mainz. In generale prevale un principio di prudenza (“fare siepi intorno alla Torah”), per cui nel dubbio è probabi-

le che siano adottate interpretazioni restrittive piuttosto che estensive81.

In generale, però, un certo principio d’autorità vale an- che per le interpretazioni aggadiche, non normative, e ne mo-

dera lo sviluppo: non nel senso che a un certo punto compaia una pronuncia interpretativa autorevole – un dogma – tron-

cando e falsificando tutte le altre possibilità ermeneutiche, ma in quello meno radicale per cui ogni nuovo passo ermeneutico deve cercare di basarsi su linee di interpretazione già presen- ti nella letteratura rabbinica e, dunque, che vi è un frequente uso di interpretazioni di interpretazioni del testo originario – e

anche di interpretazioni di interpretazioni di interpretazioni e

così via –, che gradualmente estendono, secondo una sorta di lenta deriva, le possibilità di innovazione rispetto al testo senza tradirlo o compiere brusche rotture. Anche oggi, come duemi- la anni fa per Rabbì Hillèl, il richiamo ai maestri da cui si sia imparato un certo approccio è un principio fondamentale di legittimazione.

81 Almeno se si tratta di norme direttamente tratte dalla Torah. Se si tratta

di norme rabbiniche il principio è opposto: nel dubbio si applica l’inter- pretazione più permissiva.

regole formali di interpretazione (baràita de-Rabbì Ishmaèl),

i tredici principi di interpretazione della Torah di Rabbì Ish-

maél, nell’introduzione all’importante midràsh giuridico Sifrà,

e quelle di altri maestri che ho citato sopra in nota e che non è possibile analizzare in questa sede neppure superficialmente.

Agisce nello stesso senso, inoltre, la distinzione fra te- sti normativi (Halakhah) e testi storico-narrativi e teologici

(Haggadah). Gli ultimi sono di più libera interpretazione e

non richiedono una decisione univoca, mentre i primi devo- no servire di guida all’azione, e dunque richiedono soluzioni interpretative univoche sicché sono soggetti a un processo più rigoroso di argomentazione, basata prevalentemente sull’auto- rità della fonte, la quale per lo più dipende dalla sua antichità.

uesto è un principio così importante che ricorre an- che nel testo di Pesachìm 33a, ovvero nel luogo fondativo del-

le regole interpretative. Racconta il Talmùd che Hillèl, uno

dei grandi maestri di questa tradizione, venne chiamato dagli ebrei della città siriana di Bathyra a pronunciarsi su un difficile problema interpretativo, ossia su come dovesse essere fatto il sacrificio pasquale, su cui esistono prescrizioni diverse e in ap- parenza contraddittorie nella Torah. Hillèl argomentò a lungo

per una certa soluzione usando diversi principi ermeneutici – come il ragionamento a fortiori e il confronto con altri passi,

che diventeranno poi le sue sette Middòt (principi ermeneuti-

ci) –, senza però mai riuscire a convincere i suoi interlocutori. Vinse, infine, quando affermò di aver imparato la soluzione che proponeva dai suoi maestri Shemayah e Avtaliòn. A que- sta condizione i suoi ragionamenti potevano essere accettati: l’appello alla tradizione è decisivo per legittimare il lavoro er- meneutico.

questo presuppone esattamente quel grado di coesione, anche semantica, che è lo stato caratteristico di collettività fortemen- te motivate all’unità, come quella dei rabbini.

La responsabilità del sentirsi depositari dell’identità nazionale proprio nell’attività di conservazione e di commen- to/applicazione del testo – quella per cui Heinrich Heine ha parlato, con espressione efficace e più profonda della battuta che sembra, della Torah come “patria portatile” del popolo

ebraico84 –, ha portato a un’ermeneutica aggadica finalizzata

spesso alla proiezione dell’esperienza storica verso il passato e

il futuro, cioè alla spiegazione dei fatti nuovi attraverso le sto- rie antiche, e, viceversa, a una reinterpretazione delle vicende antiche come cause o modelli del presente. Così l’esilio babilo- nese, e poi in tempi recenti la Shoah, sono stati spesso pensati

nella tradizione ebraica sul modello dell’esilio egiziano, men- tre i nemici di Israele, dai babilonesi distruttori del Primo San- tuario al mondo persiano del rotolo di Ester e alla distruzione

del Secondo Santuario da parte dei Romani e alle persecuzioni

cristiane o islamiche, sono narrati come “discendenti” dei ne- mici antichi come ‘Amalèq, Esaù o Edòm. E alcuni eroi antichi come Saul (vedi Wiesel 2006) sono criticati giuà nel testo bi- blico per non aver saputo o voluto distruggere questi progeni- tori del male. Sono solo esempi, ma ci mostrano un principio di atemporalità, spesso citato secondo un principio talmudico:

En muqdàm u-meuchtàr ba-Torah “Non c’è prima e non c’è

84 Ricordo qui l’esistenza di una corrente di studi antropologici che, a

partire da Durkheim (1963), vede in generale il fatto religioso come pro- tezione e garanzia dell’organizzazione sociale e della sopravvivenza della cultura. Per quanto riguarda l’ebraismo, gli studi recenti più autorevoli in questo senso, anche se con un pensiero assai diverso da quello di Dur- kheim, si devono a Mary Douglas: (1993) e, soprattutto, (1999) e (2004).

È dunque importante dal punto di vista delle regole er- meneutiche che il nostro tema non sia l’interpretazione giuri- dica, ma quella narrativa o aggadica, dove vige comunque una

maggiore elasticità, anche perché, nella costituzione religiosa dell’ebraismo, l’indicazione dettagliata delle azioni liturgiche

giuridiche e sociali da compiere (i precetti, le mitzvòt) preva-

le largamente sulla definizione dogmatica di proposizioni che

debbano essere credute come dogmi. È una tendenza che spes-

so viene indicata in maniera un po’ eccessiva come la sostitu-