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Resta peraltro il fatto che, in questo brano, i due Nomi – e in seguito altri ancora, come vedremo – si intrecciano fittamen- te, quasi a costituire in questa occasione di rivelazione onoma- stica un tessuto semiotico particolarmente denso e concentri- co della Divinità, con il senso evidente di una unificazione: il

Tetragramma ed Elo-hìm si scambiano così frequentemente

il ruolo di interlocutore di Mosè, mostrando plasticamente la loro identità. Permane tuttavia il problema della diversa deno- minazione usata in ogni singolo versetto, alla luce del pensiero biblico sui Nomi e dell’idea che nulla nella Torah sia casuale;

anzi, esso si fa particolarmente urgente.

Per proseguire, si può partire da una complicazione molto interessante, che rinveniamo al versetto 6. Immedia- tamente dopo l’interpellazione divina di Mosè che ho citato, infatti, Dio, per la prima volta nel nostro testo, presenta solen-

gio a questa distinzione, si veda la nota di Rashì al primo versetto della

Torah, quella in cui si dice che Dio (cioè Elo-hìm, non il Tetragramma)

creò il cielo e la terra: “Creò Dio – non è detto “Creò il Signore [cioè Y-H- V-H] –, perché all’inizio Gli venne in animo di creare il mondo ponen-

dolo sotto la legge della giustizia. Poi, però, vide che esso non sarebbe po- tuto sussistere e perciò premise la legge della misericordia e la congiunse a quella della giustizia. Sta scritto infatti: Nel giorno in cui il Signore Dio [Y-H-V-H Elo-hìm] fece il cielo e la terra” (Genesi II,4).

ni di cui stiamo parlando: (J), o riginariamente Y, dall’iniziale della traslitterazione tedesca del Tetragramma e (E), da Elo- hìm. Essi esprimerebbero concezioni diverse ma soprattutto

sarebbero distinguibili fra loro proprio per l’uso dei Nomi. Il primo capitolo della Genesi apparterrebbe così allo strato P,

che usa anch’esso Elo-hìm, il secondo a quello J. Senza avere

qui la pretesa di discutere queste analisi, che si basano anche sulle frequenti ripetizioni/variazioni nel testo di episodi o su azioni raccontate più volte, come accade anche in questo bra- no27, dobbiamo notare che, anche se accettassimo questo pun-

to di vista che si vuole “scientifico”, il cambiamento di Nome che stiamo discutendo non sarebbe senza conseguenze, ma coinvolgerebbe un mutamento storico e “ideologico” profon- do. Dunque, uno scambio così fitto richiede una spiegazione.

Il punto di vista ebraico ortodosso è paradossalmente concorde sull’importanza “ideologica” del Nome usato. Per semplificare molto, si può dire che il Nome Elo-hìm mettereb-

be in evidenza l’aspetto di giustizia o addirittura di rigore del divino, mentre il Tetragramma esporrebbe l’aspetto maggior-

mente misericordioso, perfino materno, di Dio28. Da questa

27 Si vedano il versetto 7 e il 9 e anche 2,24, l’8 e il 17 ecc. Peraltro, questo

tipo di ripetizione formulaica è fra i tratti caratteristici della tradizione orale, come sono individuati per esempio da Ong, che si ritrovano facil- mente in Omero e in altri testi derivanti da tradizioni orali. Ne riparlerò in seguito. Esposizioni molto simpatetiche con l’Ipotesi Documentaria si

trovano in Filoramo (a cura di 1999) Friedman, 1987 e Nicholson 1998. Una critica molto analitica si trova nel fondamentale libro di Cassuto 1934, riassunto nel più consultabile 1961 Si veda anche, per un punto di vista esplicitamente cristiano, Pelan, 2005.

28 Si tratta di una distinzione fondamentale per tutta l’ermeneutica ebrai-

e, subito dopo come vedremo31, anche a quelli degli altri “figli

di Israele”, bené Israèl, locuzione da prendere qui alla lettera,

come espressione di una discendenza dal patriarca che è, an- cora una volta, traccia di un’anteriorità. Del resto vicinissimo

a questa espressione32 troviamo ancora un possessivo, anche

se nella direzione inversa: Israele, definito questa volta come entità collettiva dal nome dell’antenato comune, è chiamato “il Mio popolo”, ‘ammì. uel che si sottintende è dunque una

co-appartenenza, quella relazione fra Dio e il Suo popolo che è spesso stata illustrata nella Bibbia a partire da questo passo con

la metafora del matrimonio.

Sulle ragioni teologiche ed etiche di questa presenta- zione in termini di anteriorità si sono offerte numerose inter-

pretazioni: la principale è il richiamo al patto con i Patriar- chi già ricordato al versetto Esodo II,24 che ho citato sopra.

Il punto è significativo anche sul piano semiotico. Dichiararsi Dio di “tuo padre” e degli antenati fondatori del clan significa

infatti implicitamente cambiare posizione narrativa, assumere

un diverso ruolo attanziale33. Dio è sempre, per definizione, il

Destinante ultimo, vale a dire Colui che fa sì che avvengano le

31 Ai versetti 13 e 15, con la sola variante del possessivo al plurale: avote-

chèm “dei vostri padri”.

32 Al versetto 7.

33 Nella teoria semiotica (Greimas e Courtés 1979) i ruoli attanziali sono

le posizioni sintattiche degli attori di ogni racconto. L’eroe che agisce è il Soggetto, la cosa (astratta o concreta) o la persona che cerca di ottenere

è il suo Oggetto di valore, chi lo contrasta è l’Avversario, chi lo agevola l’Aiutante, colui a favore del quale è intrapresa l’azione il Destinatario, ci

infine lo incarica o lo spinge all’azione, e alla fine giudica del suo successo, è chiamato Destinante. È chiaro che questa è la posizione che nella Torah,

e soprattutto nella storia di Mosè, è riservata in genere alla divinità.

nemente Se stesso in forma di enunciazione enunciata, e lo fa sulla base di un principio di anteriorità, che richiede di essere

chiarito. Al versetto 6, infatti, si legge che “Io” (l’Io solenne,

con la maiuscola, che nell’ebraico biblico è denominato dall’e-

spressione anochì, contrapposto all’io comune, che si dice anì)

sono “il Dio di tuo padre (Elo-hè avotècha), Dio di Abramo,

Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. È questa una formula che tornerà ancora nella Torah e che viene ripresa spesso nella

liturgia, fra l’altro all’inizio della più importante preghiera ebraica, la ‘Amidah, ripetuta in ognuna delle tre liturgie quoti-

diane. Si tratta di una formulazione abbastanza sorprendente, già per il solo fatto di sottoporre la definizione del divino a un genitivo possessivo (attivo o passivo che sia: vale a dire il Dio che tuo padre adorava oppure il Dio che regolava la vita di tuo

padre) e, ancor più, per la natura del possesso proposto. Nel pieno di una straordinaria teofania che è stata riconosciuta da Mosé come “spettacolo grandioso”, hamarèh hagadòl, e sacro

abbastanza da imporre la velatura del volto e la scalzatura dei piedi, Dio non si presenta come il Creatore o l’Onnipotente o il Giusto29, e non parla semplicemente dall’alto della Sua au-

torità senza presentarSi, ma tiene innanzitutto a precisare di essere la divinità del clan familiare, espressione di una “ante- riorità”30 che dovrebbe garantirne l’identità agli occhi di Mosè

29 Che Dio non si presenti al popolo ebraico in maniera astratta come il

creatore o il “motore immobile” dei filosofi, ma come il portatore di rap- porti concreti con i Suoi interlocutori, è un fatto generale nell’ebraismo la cui importanza è sottolineata con molta forza da Yehudah ha-Levì (si veda fra l’altro Kuzarì, I, 25 e IV, 16): è un Dio esistenziale e storico, piut-

tosto che teologico e astratto.

30 Devo a Haim Baharier la comprensione dell’importanza di questa dimensio-

circostanze e la sua fedeltà era stata già sufficientemente pro- vata. Dunque, non si tratta di un Contratto, ma piuttosto di

una Sanzione, di un premio. Infatti, Dio gli promette proprio

come riconoscimento della sua fedeltà un’alleanza infinita o almeno con una forte aspettualità durativa: “Orsù, osserva il cielo e conta le stelle, se le potrai contare” e gli disse “tale sarà la sua posterità”, zarèkha, letteralmente “il tuo seme” Genesi XV,6; “In quel giorno Y-H-V-H strinse un patto [berìt] con

Avrahàm dicendo ‘alla tua posterità [le-zarèkha] ho dato que-

sta terra…’” Genesi XV,18. Il patto possiede dunque il senso,

per così dire, metanarrativo di stabilire un’alleanza perpetua,

cioè di fondare per Dio un ruolo perenne di Aiutante che si unisce al Suo ruolo basilare di Destinante cioè dunque anche di giudicante. Tutta la narrativa della Bibbia ebraica si gioca

su questo doppio ruolo divino (Destinante e Aiutante) e sui

complessi rapporti che si intrecciano fra l’uno e l’altro. Vale la pena di sottolineare che tutto ciò è messo coerentemente in carico al Nome Elo-hìm, anche nel contesto delle fitte oscilla-

zioni onomastiche del nostro capitolo. Il patto è stretto sotto questo Nome, anche se sarà rispettato sotto l’altro.

L’autodichiarazione del roveto che stiamo discutendo ribadisce dunque nel Nome di Elo-hìm questo ruolo: l’ante- riorità che essa stabilisce con l’utilizzo dei nomi dei Patriarchi

è esattamente correlativa alla posterità (“le stelle”) iscritta dal

patto. uesta co-appartenenza è particolarmente significati- va in un contesto come quello egizio e in generale medio-o- rientale dove al tempo di Mosè, e per tutti i secoli abbracciati dalla Torah, vige il politeismo e dunque Dio è visto come una

divinità etnica. Difatti, subito dopo il nostro episodio, Egli verrà presentato al Faraone come “Dio di Israele” – Elo-hè Yisraèl – (Esodo V,1) e “Dio degli ebrei” – Elo-hè ha-‘ivrìm –

storie bibliche e, in generale, la Storia dell’umanità, di cui esse sono prospettate come sintesi e paradigma. Dio è Colui che assegna i compiti e pone i valori – e lo è anche in questa pre- cisa occorrenza, stabilendo la liberazione del popolo di Israele oppresso come l’oggetto di valore che dominerà le vicende suc-

cessive del libro. Di qui in poi, però, il richiamo all’anteriorità

e all’Alleanza stretta con Abramo Lo pone in una posizione narrativa di Aiutante, cioè di Colui che fornisce istruzioni e

strumenti all’eroe narrativo affinché adempia al suo compi- to. uesta posizione divina era stata certamente già attivata in fasi precedenti della narrazione (per esempio con Noè, con Abramo – fra l’altro al momento dell’affaire della moglie Sa-

ray con il Faraone – ecc.), ma non era mai stata dichiarata in maniera così esplicita, fondante e, soprattutto, impegnativa per sempre. Bisogna tener conto che l’Alleanza di cui si par-

la non è un Contratto nel senso semiotico34, o almeno non è

un Contratto canonico. In Genesi XV,9-21, facendo passare

Abramo fra gli animali sacrificati (secondo una caratteristi- ca modalità dei patti della civiltà semitica arcaica), Dio non gli aveva chiesto di ottenere o di fare nulla come i Destinanti

debbono fare per definizione con i Soggetti narrativi nella fase

contrattuale: la scelta di Abramo era già avvenuta in numerose

34 Mi riferisco ancora alla teoria di Greimas. Nello schema narrativo ca-

nonico di tutti i racconti si ritrovano esplicitamente o implicitamente

quattro tappe, cioè Contratto (quello che in tutti i racconti apre l’azione

stabilendo l’oggetto di valore e impegnando il soggetto all’azione), Com- petenza (quello in cui il Soggetto si impadronisce dei mezzi materiali e

cognitivi che gli servono – o non ci riesce), Performanza (quando si svolge

la prova decisiva con cui il soggetto entra in possesso del suo Oggetto di valore – o non ci riesce), Sanzione (in cui il risultato del Soggetto è social-