1. I Che cos’è la trascendenza?
1.7. Lingua e trascendenza
La risposta ebraica, diversa da quella cristiana e musulmana, può essere formulata in questi termini: la relazione tra Tra- scendenza e mondo si realizza attraverso il linguaggio. La lin-
gua è lo strumento della Creazione, che avviene per mezzo di
imperativi verbali. La Rivelazione è anch’essa linguistica: av-
viene attraverso la parola che diventa testo, cioè le Scritture. Dio scrive direttamente una volta (Esodo XXXI,18) e per il
resto del testo della Torah Egli detta a Mosè l’Insegnamento
divino (Ghittìn 60a). Tramite il linguaggio, impartisce ordini e istruzioni ai Patriarchi e a Mosè: esattamente l’opposto dell’in-
tuizione greca di un Signore che “non dice e non nega, solo accenna” (Eraclito, 22 B 93 DK).
Ci si muove nella direzione opposta: solo attraverso il linguaggio alcuni personaggi biblici – da Adamo a Caino, da
Abramo a Mosè, da Giona a Giobbe, ma anche molti credenti fino ai nostri tempi – possono cercare di esporre a Dio il loro caso, che a volte viene presentato perfino contro di Lui, le Sue azioni o inazioni. Attraverso il discorso, essi consegnano a Dio giustificazioni, grida di dolore (per esempio Esodo III,7), ri-
chieste, domande, spesso argomenti reali o persino cause legali, come fa, per esempio, Elie Wiesel (1979) in un dramma sui massacri cosacchi del 1648, con un’allusione trasparente allo Shoah. Discuterò questo argomento più tardi. uesta dura dialettica con la Trascendenza, che qui è il mio oggetto princi-
nella nostra tradizione. ui è utile cercare di capirli meglio.
Echàd in ebraico significa ovviamente “uno” nel senso nume-
rico, ma veicola anche il significato di “unico”: nessun altro es-
sere – nella sua categoria o in senso assoluto, come nel caso di Dio – è simile a ciò che è echàd. La parola è usata anche per il
popolo ebraico, definito come goy echàd (2 Samuele VII,23),
un popolo solo, unico tra gli altri9. A proposito di Dio, signi-
fica che nessuno o niente può essere paragonato a Lui, come indicato in Deuteronomio VI,4. Niente e nessuno – nemme-
no nessuno dei “grandi”, siano déi giudici o nobili, questa è l’ambiguità della parola elìm – dovrebbe essere paragonato a
Lui, dice la Torah: Mi kamocha baelìm HaShem, “Chi è come
te fra i grandi, o Signore “(Esodo XV,11). Echàd implica una differenza qualitativa, non designa solo un’unità matematica
o reale. uindi, quando la parola è riferita a Dio, echàd indica
una differenza assoluta, quindi una trascendenza qualitativa.
adòsh è solitamente tradotto come “santo” o “sacro”.
Ma, come scrive per esempio Mary Douglas (1966: 8), “la radice ebraica k-d-sh, che di solito è tradotta come ‘santo’, è
centrata sull’idea di separazione. Consapevoli della difficoltà
di tradurre k-d-sh direttamente in “santo”, la versione [della Torah] di Ronald Knox usa set apart. Così la grandiosa frase
“Siate santi, perché Io sono santo” è resa da lui in modo piut- tosto sottile: “Io sono il Signore Dio tuo, che ti ho salvato dalla terra d’Egitto; sono distinto e voi dovete essere distinti come Me.” (Levitico I:46). Ma naturalmente la trascendenza di Dio
9 Ma echàd, nel significato di singolo, unico, vale anche per la legge (Esodo
XII,49; Levitico XXIV,22), per una casa (Esodo XII,46), un anno (Eso- do XXIII,29), una voce (Esodo XXIV,3), una misura (Esodo XXVI,2), il
Nome di Dio (Zaccaria XIV,9) e Dio stesso (Deuteronomio VI,4).
vedi Putnam 2009). Parlare con qualcuno non è certamente lo
stesso che parlare di qualcuno; non lo riduce a un oggetto, ma
mantiene la sua autonomia, definisce una distanza, assume in lui un’intimità non nota né violata.
Mi propongo ora di indagare su questo particolare tipo di trascendenza metafisica e percettiva di Dio, che è limitata dalla disponibilità linguistica, così come viene narrata dal- la Bibbia. Suggerisco di comprendere meglio questo difficile
problema iniziando l’indagine dagli usi linguistici in cui questa relazione è espressa nel testo. A tal fine, dobbiamo considerare in primo luogo il modo in cui la trascendenza è definita dal linguaggio della Torah. Sebbene essa sia una caratteristica cen-
trale del modo ebraico di concepire Dio, è impossibile trovare nell’ebraico biblico una parola che esprima esattamente que-
sto concetto greco, conservando la carica metaforica che ho analizzato in precedenza. uesta mancanza di una traduzione semplice per la parola “trascendenza” è innanzitutto dovuta alla sfiducia nei concetti astratti, che è caratteristica costante della mentalità del Tanakh, ma testimonia anche del rifiuto di
sviluppare una teologia, cioè un discorso o una teoria su Dio, il
che è un dato centrale per la relazione ebraica con la divinità, come si è detto.
Ma nella Torah ci sono due parole molto importan-
ti, spesso usate per riferirsi a Dio, che non sono mai tradotte come “trascendente”, ma che comunque esprimono la diffe- renza tra Dio e il mondo. Sono echàd e qadòsh, che di solito
sono tradotte rispettivamente come “uno” e “santo”: parole così comuni nel linguaggio teologico occidentale, che siamo tentati di considerarle semplici e naturali. Ma questa natura-
lezza percepita è solo l’effetto di una naturalizzazione, cioè di-
dalle parole Shekhinah (Presenza e assistenza divina, talvolta
nella tradizione cabalistica personificata come “parte femmi- nile di Dio” – Idel 2005 –; la radice Sh-kh-n significa dimora)
o Ruah ha-qòdesh (lett. “Spirito di santità”, spesso tradotto
come “Spirito Santo” o infine Sefiràt Malkhùt, l’ultima ema-
nazione dell’albero della abbalah, cioè l’emanazione del Re-
gno).
Ma cosa significa tutto ciò? L’immanenza – o Presen- za divina – non può diventare solo una fra le tante cose del mondo, senza perdere l’essenza del suo carattere trascendente. Ha la natura fattiva di percezione / attenzione / indagine / in- tenzione, sempre espressa da un’attività linguistica: si raccon- ta che Dio “scenda” nel mondo per vedere cosa hanno fatto Adamo, Caino, gli abitanti di Babele, e per reagire, sempre con parole, alle loro azioni; si dice che “ascolti” le grida degli ebrei oppressi come schiavi in Egitto; più tardi che “dica” per dare – cioè dettare – la Torah a Mosè, ecc. Il modo principale del-
la Sua Presenza è l’interazione con gli esseri umani, ma anche
generalmente con la Creazione. Ciò avviene principalmente attraverso il linguaggio. Ci viene anche detto dal testo bibli-
co che Dio crea il mondo con dieci atti di linguaggio (‘asarah ma’amaròt). Il fatto che la Creazione avvenga attraverso ciò
che la filosofia contemporanea chiama atti linguistici (Searle 1969)11 è pieno di significato, ma altamente problematico.
11 La fonte di questa teoria dei dieci atti linguistici della creazione è Avòt
de-Rabbì Natàn, capitolo 31. In realtà nel primo capitolo di Genesi ci
sono solo nove di questi atti. Ma la divisione della Bibbia in capitoli risale
al Medioevo e non ha importanza nella tradizione ebraica che preferisce dividere il testo in entità (pericopi o parashot di estensione assai maggio-
re). Il numero dieci, che corrisponde al Decalogo, viene raggiunto aggiun-
gendo la benedizione del sabato che si incontra in Genesi II.
è concepita come radicale, non relativa com’è inevitabilmente la “distinzione” umana, perché Egli è assolutamente diverso:
Perché i Miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le Mie vie”, dichiara il Signore. “Come i cieli sono più alti della terra, così le Mie vie sono più alte delle tue vie e dei Miei pensieri che i tuoi pensieri. (Isaia LV,8-9).
In generale, la condizione che chiamiamo “santità” o “sacralità” non è caratterizzata nel testo biblico da una pienezza positiva di qualche specifica virtù e valore, ma principalmente
dalla sua differenza, che può essere anche spiacevole e terrifi-
cante: Dio è definito di routine nella preghiera ebraica nora‘,
“terribile”. uesta idea di santità come differenza è un’intui-
zione molto diffusa, che possiamo anche trovare nell’etimo- logia delle espressioni indoeuropee nel campo semantico del “sacro”. “Santo”, “sacro”, “aighios”: sempre queste parole im-
plicano un significato di distanza, differenza, soglia; nei nostri termini, di trascendenza.
Rav Giuseppe Laras (2006: 23) suggerisce che all’oppo- sizione di Trascendenza e Immanenza corrisponda nel lessico biblico quella fra Kedushah (il nome astratto di qualità trat-
to da k-d-sh) e Kavòd, che significa letteralmente “peso”, ma
è spesso usato in senso metaforico come “onore” o “gloria”10.
Kedushah è la separazione di Dio; Kavòd è la Sua Presenza. I
due aspetti coesistono sempre. Nella tradizione ebraica, spes- so questo significato di Kavòd come presenza è espresso anche
10 uesta radice è usata per l’atto di indurire il cuore del Faraone (Esodo
VIII), per il comandamento di onorare padre e madre (Esodo XX,12), ma
anche quando Mosè chiede di “vedere la gloria” di Dio (Esodo XXXIII,18),
ma in cambio perde la sua efficacia immediata. A partire da
Adamo, gli uomini spesso ignorano i Suoi ordini, disobbedi- scono o li discutono. Il discorso divino, quando è trascendente e solitario, porta immediatamente degli effetti. Diventando immanente, nel senso di essere situato tra Dio e gli esseri uma- ni12, e dunque di toccare il mondo, non è più immediatamente
performativo, e ha bisogno di costruire effetti emotivi – paura,
amore, persuasione, rispetto, fiducia – per ottenere i suoi ri- sultati. Deve tener conto degli uomini e della loro libertà. Sia
Abramo nella discussione su Sodoma (Genesi XVIII,25) che
Mosè dopo il vitello d’oro (Esodo XXXII,32) usano questa im-
portanza dell’interpretazione degli altri come argomento per l’impresa paradossale di cercare di modificare delle delibera- zioni divine già dichiarate loro.
Il dialogo è immanente tra due trascendenze. Pertanto,
nel pensiero ebraico, l’immanenza di Dio può assumere solo
la forma del dialogo. Le occasioni più importanti di immanen-
za occorrono quando Dio parla con qualche figura umana: ad esempio Abramo e Mosè, ma anche talvolta con Adamo, Caino, Noè, Aronne, Giobbe e qualche profeta come Giona. O parla
attraverso la voce dei profeti ai re e al popolo. uesta condizio-
ne dialogica è molto apprezzata nella Bibbia. C’è una differen-
za esplicita dichiarata nel testo tra vedere Dio e chiamarLo per Nome da un lato, il che è proibito; e parlare con Lui dall’altra,
che è la realizzazione più importante per un essere umano. Dio rifiuta (Esodo XXXIII,18) quando Mosè gli chiede di vedere il
suo Kavòd, perché “nessuno può vedere la Mia faccia e vivere”
12 Vale la pena ricordare che nella cultura biblica Dio e l’uomo condivi-
dono un linguaggio stabilito e scoperto da Adamo, una lingua “sacra” ma umana (Genesi II,19).
Infatti, dal punto di vista della comunicazione, anche sen- za pensare alla teologia, si pone una domanda ovvia: quando Dio dice, per esempio, yehì or (“Sia la luce”, Genesi I,2) – o, in
un’altra possibile traduzione, “la luce sarà” –, e dopo questo comando o previsione, accade che “la luce fu”, un fatto che è espresso esattamente con le stesse parole: va-yehì or, bisogna
chiedersi: a chi Egli sta parlando? a chi sta dando ordini? Non
alla luce stessa, che non è ancora; non alla materia, come po- trebbe immaginare una mentalità moderna, perché nel testo non ci sono ragioni per supporre che alcuna attività sia svolta da questa materia, peraltro innominata se non come “vuoto e desolazione” nel versetto precedente; non agli uomini che non ci sono ancora, né agli angeli, che non sono nominati e la cui esistenza autonoma non è affatto certa. Insomma, non c’è qui un interlocutore disponibile, gli atti linguistici sono emessi in solitudine e quindi sono logicamente performativi, non im- perativi, come invece appaiono sul piano linguistico. uesta
efficacia monologica potrebbe dunque perfino essere perfino paragonata a un’operazione tecnica, o addirittura magica: un discorso che funziona da sé, senza nessuno che lo comprenda. Il linguaggio trascendentale non ha bisogno della mediazione di qualcuno che la interpreti ed esegua, è immediatamente ef- ficace. Ma è linguaggio.