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Più facilmente comprensibile è l’idea che Dio dia la Torah

per mezzo di altri atti linguistici imperativi, come accade con le “Dieci Parole”, il Decalogo, ma anche altrove nella Bibbia.

ui ci sono interlocutori: il discorso divino non è monologi-

giacché mostra, contro ogni determinismo e cieca sottomissio- ne, che gli uomini possono, anzi devono discutere con Dio su

temi etici e in effetti questa mossa sarà ripetutamente replica- ta, fino a immaginare un vero processo a Dio nell’opera teatrale

di Elie Wiesel (1995), in cui si racconta che Dio sia chiamato a spiegare perché non ha impedito un terribile pogrom. An- che Noè è stato criticato nella tradizione midrashica (Devarìm Rabbà XI,3) per non essersi opposto alla condanna a morte di

tutta l’umanità attraverso il Diluvio annuciatagli da Dio, non

discutendo la sentenza come Abramo invece fece per Sodoma. L’idea etica qui è che si dovrebbe sempre resistere all’ingiustizia,

anche se è praticata in nome di Dio (Dershowitz 2000). Ma c’è un altro punto altrettanto significativo nel tema di Abramo, o forse ancora più importante. Nel discorso di Abramo, la giustizia non è definita solo dalla volontà di Dio,

secondo il modello banalizzato in un contesto secolarizzato dalla legge romana (“uod placuit legis habet vigorem” [Ulpia-

no, Istituziones I D. 1, 4, 1, pr. -1]. La giustizia che Abramo

osa ricordare a Dio è indipendente dalla Sua volontà, anzi la

contraddice, ed Egli è chiamato ad adeguare le Sue decisioni a questo valore indipendente. Definito qui come il “Giudice del

mondo” (ha-shofét kol ha-arètz) invece che “il suo padrone”

(ribbonò shel ‘olàm), come sarà per lo più chiamato nel Tal-

mud, Dio ha l’obbligo conseguente di “rendere giustizia” (mi- shpàt). L’uso della stessa radice sh-p-t per la definizione di Dio

e il risultato necessario della sua azione sottolinea una sorta di tautologia: il giudice è colui che rende giustizia. Ma nel pen- siero di Abramo e poi nella tradizione ebraica è il giudice che è obbligato ad applicare un principio di giustizia già definito indipendentemente da lui, non accade cioè che la giustizia sia

semplicemente modellata da ciò che il giudice decide, anche (Esodo XXXIII,20), ma “ha parlato con Mosè faccia a faccia”

(Esodo XXXIII,11). Il vero problema qui non è l’antropomorfi-

smo di una “faccia” divina, ma l’opposizione tra vedere e parlare.

L’occasione di dialogo non comporta reificazione. La trascen- denza non viene distrutta da questo tipo di immanenza lingui- stica, perché il linguaggio è già trascendente, non deterministico. uesto “parlare con” della Bibbia è spesso una vera

discussione, a volte diventa una sorta di vertenza che l’essere umano apre con Dio. Nella Bibbia ci sono quattro casi princi-

pali di questo difficile modo di discutere: con Abramo (Genesi XVIII,20-32), con Mosè dopo il vitello d’oro (Esodo XXXII,32),

il libro completo di Giobbe, i versetti finali del Libro di Giona.

Consideriamo qui la discussione più articolata, quella con Abramo. Dio vuole distruggere Sodoma e Gomorra a cau- sa della violenza diffusa in quelle città e decide di informare Abramo di ciò. Ma, come è noto, il patriarca non accetta pas- sivamente questo giudizio e sfida il decreto divino, sostenendo che forse ci sono cinquanta “innocenti” nelle città e che sarebbe ingiusto ucciderli con i peccatori. Poi, avendo avuto assicura- zione che con cinquanta giusti la città non sarà distrutta, scen- de gradualmente fino a dieci. È importante considerare bre- vemente il tema principale di Abramo (Genesi XVIII,23-25):

Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cin- quanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da Te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lungi da Te! Forse il giu- dice di tutta la terra non praticherà la giustizia?

uesto episodio è di fondamentale importanza non solo per la tradizione ebraica, ma per la cultura occidentale,

scussione razionale, l’etica sono il dominio della trascendenza come religione.

Certo, non tutti sono uguali in questa storia. Dio è Dio e gli uomini sono uomini. I loro modi e pensieri non sono pa- ragonabili, né la loro trascendenza lo è. uesto è assolutamen- te chiaro per la Bibbia e per i suoi lettori onesti. Ma qui c’è una certa reciprocità che è garantita dal dialogo e allo stesso tempo ne stabilisce la possibilità; forse per questo motivo la discus- sione su Sodoma ci permette di capire meglio un verso molto problematico, spesso ripetuto nella Bibbia ebraica che ho cita- to prima: Haitém kedoshìm ki kadàsh Anì, siate santi/separa-

ti, perché Io sono santo/separato. Possiamo leggerlo come un principio morale, un imperativo categorico: sii trascendente perché Io sono trascendente! E discuti con tutti, anche con Dio.

se si tratta del “Giudice di tutto il mondo”. uindi non è giu- sto, vero, bello, buono tutto ciò che Dio vuole, ma Dio deve

volere ciò che è giusto, vero, bello, buono. I valori sono validi

anche per Dio; perciò li deve volere. Ciò pone alcuni problemi

teologici e filosofici difficili: in che modo i valori trascendono il Trascendente? Sono “oggettivi”? uest’idea non contrasta l’onnipotenza divina? E non corre il rischio di reificare i valori, rendendoli oggettivi, cioè facendone delle cose?

uesto dibattito è stato spesso rinnovato nella filosofia religiosa, ed è collegato al grande tema della teodicea. È impos- sibile discuterne qui. È noto che il mondo islamico, almeno dopo Al-Ghazali, risponderà negativamente: la giustizia non è indipendente da Dio e la virtù consiste nella sottomissione, che in arabo corrisponde esattamente a ciò che “Islām” signifi- ca etimologicamente. Il mondo ebraico accetterà la contraddi- zione (Pirqé Avòt, III:19): “Tutto è previsto, ma il libero arbi-

trio è dato. Il mondo è giudicato con bontà, e tutto è secondo l’abbondanza di buone azioni”. Nella filosofia europea la di- scussione continua a essere un tema centrale fino al grande di- battito tra Leibniz, Malebranche e Arnauld alla fine del XVII secolo (Nadler 2008). Tuttavia, la nostra cultura e scienza sono fondate sull’indipendenza e sulla conoscibilità dei valori,

che è oggi un luogo comune. uesta concezione deriva dalla filosofia greca, ma anche da questi esempi biblici. Noi moder- ni siamo certamente più “abramiti” dei seguaci di Al-Ghazali, di Bernardo di Chiaravalle o di Arnauld. In ogni discussione morale o politica vediamo valori tra gli interlocutori e al di là

di essi, non solo come oggetti di una volontà divina arbitraria che può essere liberamente cambiata da Dio, ma come princi- pi indipendenti e fermi. Facendo riferimento a essi, ognuno è autonomo, cioè in qualche modo trascendente. La lingua, la di-

I CHERUBINI O L’IMMAGINE DELLA TRASCENDENZA

C’è un’evidente tensione ossimorica in ogni rappresentazione religiosa. Per definizione, essa infatti deve rappresentare (una

parola il cui significato etimologico basilare è rifare presente)

non un semplice oggetto della vita quotidiana ma il trascen- dente1, cioè, qualcosa che non è soltanto presente nel mondo;

che non è incluso in esso e la cui essenza più importante resta al di là dell’esperienza umana. Il problema specifico per ogni pra- tica rappresentativa che voglia definirsi come religiosa è come affrontare questa tensione: come rendere di nuovo presente

qualcosa che per definizione non è empiricamente nel mondo.

Esplorerò un caso molto particolare, quello dei cherubini nella tradizione biblica ebraica, la cui la manifestazione principale era quella di una doppia statua dorata custodita nel Santo dei Santi del Tabernacolo, come descritto nel libro biblico dell’E- sodo. uesto è solo il punto saliente in una storia millenaria di

descrizioni, rappresentazioni, discussioni circa queste entità:

1 Una definizione del trascendente è ovviamente oltre i limiti di questo

capitolo, anche perché ne tratto diffusamente altrove in questo libro. Il punto di partenza non può che essere comunque l’“Introduzione alla dia- lettica trascendentale” di Kant, § 1, della Critica della ragion pura, e nel

pensiero contemporaneo Lévinas 1984, 1995. Per una discussione più ampia, vedi il capitolo precedente.

1991). uesto parallelismo era sottolineato dalla regola me- dievale secondo cui ogni immagine sacra dovesse essere colle- gata a una reliquia (Appadurai 1986). In realtà, la somiglianza di contatto e rappresentazione per la trasmissione della sacra- lità fu teorizzata da Giovanni Damasceno2. uesta strategia di

autorizzare le rappresentazioni della trascendenza per mezzo di una sua apparizione immanente non è tuttavia limitata alla complessa teologia cristiana dell’incarnazione. Gli dei indiani e quelli greci possono essere considerati, in certa misura, tra- scendenti: la loro natura profonda non è congruente al mondo degli uomini, il loro vero posto è al di fuori di esso e la loro vita è troppo ampia e diversa dall’esperienza umana per esse- re davvero concepibile, e perciò “afferrabile”, da esseri umani mortali. Di solito non sono nemmeno visibili, salvo quando decidono di manifestarsi. Ma sono rappresentabili, e di fatto

riccamente rappresentati, precisamente perché possono assu- mere visibilità, quando prendono diverse forme al fine di co-

municare con gli umani o goderne. È utile a questo proposito considerare una distinzione fondamentale proposta da Karol Kereny (1962: 168). Il grande mitologo mostra che il nostro concetto di immagine divina dovrebbe essere diviso in tre no- zioni distinte, al fine di aderire alla lingua e al pensiero greco:

L’Eidolon greco è un’immagine che consiste unicamente di una

superficie senza profondità. Gli eidola possono essere parago-

nati a immagini di uno specchio che abbiano acquisito un’esi-

2 uesta interpretazione è contenuta nel libro “Pro tous diaballontas tas

aigias eikonas” (VIII secolo, ripubblicato in London: T. Baker, 1898.)

Cfr. Kurulyk 1991, 37; cfr. Geary 1986, 175-76. Su questo problema, vedi Russo 1997; Cinghia 2005; Bettetini 2006. Un’analisi semiotica su questo punto molto importante si trova in Volli 1997.

un motivo iconologico ricorrente, che potrebbe benissimo es- sere un elemento di un atlante warburgiano (Warburg 2003). Certo, quel che interessa gli studi semiotici non sono le origini

remote di questo motivo o le ragioni ipotetiche della sua intro- duzione nel testo biblico, ma piuttosto la sua lunga presenza e

le diverse immagini testuali e iconiche che il motivo è stato in grado di generare, con i problemi derivanti dalla sua ricezione in una tradizione fortemente iconoclasta.

Prima di concentrarsi sui cherubini, è necessaria una discussione generale sulla difficoltà della rappresentazione del- la trascendenza. Possiamo facilmente distinguere, nella vasta varietà geografica e storica delle culture, due principali soluzio- ni opposte, assieme a una serie di compromessi intermedi per il problema che ho riassunto all’inizio: se e come sia possibile rendere presente la trascendenza per mezzo di rappresentazioni.

La prima opzione si basa sull’idea che la trascenden- za, per essere percepita dagli esseri umani e agire su di loro, oltre a essere oggetto di culto (i “lavori” centrali della religio- ne), dovrebbe anche essere in qualche modo immanente nel mondo umano, spesso per mezzo di qualche sorta di agente o segno o apparenza. È questa immanenza, agente o apparenza

che, secondo questa linea, può – e spesso anche deve – esse-

re rappresentata. uesta prima posizione corrisponde a un tema molto centrale della fede cristiana, ovvero l’idea che, per salvare l’umanità, Dio trascendente si sia “fatto uomo”, ossia immanente. Anche se, di volta in volta, molte correnti del cri- stianesimo hanno adottato qualche livello di iconoclastia per proteggere trascendenza divina, la tradizione cristiana maggio- ritaria ha dedotto proprio dall’incarnazione di Gesù la possi- bilità di usare immagini per rappresentare la divinità, perché entrambi sono esempi di presenza divina nel mondo (Kurulyk

o l’apparenza, una vera e propria ri-presentazione. I credenti

non sono sempre consapevoli di questa relazione indiretta, ma tale complesso legame metafisico è la base formale del loro uso delle immagini, e è diventata una sorta di ovvietà nella cultu- ra occidentale: l’invisibile può essere reso visibile attraverso le immagini della sua immanenza, segni metaforici che produco- no diversi modi di umanizzarlo.