Le fasi immediatamente successive di questo dialogo implica- no ancora il Nome Elo-hìm. È alla divinità così nominata che
Mosè pone la domanda, non si sa se umile o diffidente, ma cer- tamente ancora identitaria: “chi sono io perché vada dal farao-
ne e faccia uscire i figli di Israele dall’Egitto?” Ed è in nome di
Elo-hìm che gli si risponde assai enigmaticamente, ma in ter-
mini ancora semiotici: “Io sarò con te”, ehjè immàch, “e questo
è per te il segno”, ot, “che Io ti ho inviato”: ot, in ebraico bibli-
co, è segno, ma anche lettera dell’alfabeto e, infine, miracolo.
Essendo tale parola composta dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto, viene spesso interpretata misticamente come una totalità onnicomprensiva; tutto ciò crea un’ambiguità che si riflette in maniera significativa sull’interpretazione di questo passo. C’è un’altra ambiguità, qui, dovuta all’assenza di pun- teggiatura, che manca del tutto nella versione liturgica della
Torah: la seconda frase (“e questo è per te il segno”) si può
collegare a questa promessa di stare con Mosè, oppure alla pro- fezia che “gli Israeliti quando usciranno dall’Egitto, serviranno Dio su questo monte”.
Nel primo caso, la promessa che Dio sarà con Mosè è presentata come la prova della sua capacità di adempiere al suo
compito, e certamente anche come una rassicurazione psicolo- gica, la sicurezza di un aiuto nel momento decisivo. Così inter- preta la tradizione: tu, Mosè, sei colui accanto al quale Io starò e dunque sei in grado di adempiere al tuo compito. Ma tale ac- compagnamento è anche un prodigio di per sé: non è banale che
Dio accompagni l’uomo nelle sue imprese e dunque questa pre- senza sarà in quanto tale visibilmente miracolosa. Infine, la di-
chiarazione è una cifra, una scrittura, qualcosa che debba essere interpretato come sempre lo devono i segni: questa dichiarazio-
(Esodo V,3), in una prospettiva dunque più enoteista, come
unico Dio di un popolo, che monoteista, ovvero il solo Dio esistente. Ma ciò non autorizza necessariamente, come pure teorizzano molti storici e filologi della Bibbia, a supporre che
l’ideologia di questo passo sia davvero solo enoteista e non
monoteista: vedremo subito che nella complicazione del te- sto di questi versetti si esprimono infatti molti altri sensi del Divino. Occorre tuttavia sottolineare che vi è qui una pre- sentazione etnica della teologia monoteista, se non proprio
la costruzione di una teologia etnica. Vale la pena di notare
a questo proposito che la ricorrenza di Elo-hè ha-‘ivrìm del
versetto V,3 è la prima in cui il popolo di Israele è nominato collettivamente35 con questa parola, che, secondo la tradizio-
ne, indica etimologicamente un “passaggio”, un andare al di là: il passaggio di Avrahàm al di là del fiume Eufrate, forse; o, più in generale, quel senso di erranza e di non autoctonia e insieme di nostalgia per la terra di Canaan che caratterizza già così precisamente la Bibbia ebraica36.
35 Prima lo si usa – raramente – come aggettivo per caratterizzare delle
persone: Abramo (Gn 14,13 la prima volta in assoluto, Giuseppe (Gn. 39,14 e 17), lo schiavo picchiato da un egizio e difeso da Mosè (Es. 2,11 e lui stesso (2, 6). Anche Giona si autodefinisce così.
36 Nella Torah l’aggettivo ivrì è associato a Ever, pronipote attraverso Sem
di Noè e bisnonno del bisnonno di Abramo (Gn. 11,16); ma forse storica- mente va ricollegato agli Habiru citati nelle lettere di El Amarn: uno stra- to sociale di persone marginali, come mercenari, ribelli, mercanti stranieri che si ritrovano spesso nelle testimonianze della mezzaluna fertile della seconda metà del secondo millennio prima della nostra era. In genere il nome è usato nei rapporti dei personaggi israeliti della Bibbia con l’ester- no; nei rapporti reciproci essi sono più spesso nominati secondo la tribù o il comune antenato Giacobbe (Yisraèl).
no a me: qual è il Suo Nome; cosa dirò loro?’ 14. E disse Elo-hìm
a Mosè: “Sarò ciò che sarò”. E disse: “Così dirai ai Figli d’Israele: ‘Sarò’ mi ha mandato a voi’. “15. E disse ancora Elo-hìm a Mosè:
“Così dirai ai Figli d’Israele: Y-H-W-H Elo-hìm dei vostri padri, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm di Giacobbe
mi ha mandato a voi. uesto è il Mio Nome per sempre: e que- sto il ricordo di Me di generazione in generazione.
Fin dall’inizio la domanda di Mosè posta al versetto 14 è viziata da un ossimoro pragmatico: egli suppone di aver annun-
ciato Dio agli Israeliti esattamente nei termini in cui Dio gli Si è presentato poco prima, e che egli evidentemente ha capito e accettato, cioè con un Nome caratterizzato dall’anteriorità del
possessivo, ma suppone anche che i suoi fratelli invece non si
accontenteranno di questa designazione e chiederanno “il Suo Nome”: mah-shemò. Perché Elo-hìm non potrebbe avere que-
sto Nome? E, se questo non è il Nome che egli cerca (o che egli suppone i suoi fratelli potranno cercare), che cos’è quel che ha ricevuto? Una sorta di semplice descrizione definita? Dunque, qualcosa di troppo simile a un nome comune? Una firma insuf- ficiente per un contratto impegnativo come l’uscita dall’Egitto? Ma allora perché la risposta suggerita al versetto successivo è una frase che non somiglia affatto a un nome tradizionale e che non viene praticamente mai usata nella Bibbia come appellativo39?
39 C’è un’eccezione molto significativa. Il Targùm Onqelòs, cioè l’antica tradu-
zione aramaica della Torah usata a fini liturgici nel periodo ellenistico e trat-
tata dal Talmùd come una sorta di commento autorizzato, anche perché si
tratta spesso di una traduzione esplicativa, traduce la prima espressione “sarò quel che sarò” letteralmente, senza modificarla; ma non la sua ripetizione im- mediata “Dirai: ‘sarò’…” che viene lasciata nel significante originale. Il versetto suona allora “Sarò quel che sarò […] Ehejèh mi ha mandato a voi”. Il Talmùd
cita questo fatto per dimostrare che si tratta di un vero Nome.
ne può dunque essere letta anche come una sorta di Nome di- vino, ipotesi audace che verrà subito confermata nel seguito del passo. Alla domanda di Mosè sulla Sua identità, il segno è che si risponda con una precisazione dell’identità divina come accom- pagnatrice e, dunque, sul piano semiotico, come Aiutante37.
La seconda interpretazione è più plausibile sul piano grammaticale, ed è preferita anche da Rashì, ma è ancor più paradossale: la riprova (il segno) che è stato Dio a mandare Mosè si vedrà dal successo della missione, cioè dal fatto che ef- fettivamente i figli di Israele usciranno dall’Egitto e verranno su questa montagna a servire, cioè a compiere il culto per Elo- hìm. Com’è che una cosa futura può provare una cosa passata?
Forse perché il suo senso è futuro e futuro è chi la promette. È quel che si ottiene connettendo questo versetto a ciò che lo se- gue, come vedremo. Prima di farlo, notiamo ancora una volta l’intreccio dei Nomi: prima ha parlato Y-H-W-H, poi Mosè
Gli ha risposto rivolgendosi a Elo-hìm; la risposta (vaiòmer,
“disse”) non ha specificato il nome del soggetto, ma il culto sul monte è qualificato come dedicato a Elo-hìm.
E ancora a Elo-hìm infatti Mosè chiede il Suo Nome ed
è sempre sotto questo Nome che ottiene risposta. È necessario soffermarsi su questi versetti 13-15. Rivediamoli38:
13. E disse Mosè a Elo-hìm: “Ecco Io vado verso i Figli d’Israele e dirò loro: ‘Elo-hìm dei vostri padri mi ha mandato a voi. E diran-
37 Non è forse un caso che il saluto rituale ebraico “Y-H-W-H ‘imma-
chèm” riprenda in sostanza questa formula. Una semiotica dei saluti è an-
cora da fare, ma vien subito da notare come in “Addio”, “Adieu”, “Adios”, “Gruesst Gott”, “Salve” ecc. vi sia sempre un contenuto teologico.
38 Per un’analisi ulteriore di questo episodio rimando al capitolo successi-
E infatti la risposta è uno delle più enigmatiche affer- mazioni teologiche della Bibbia: ehjeh ashèr ehjeh, e, subito
dopo, nello stesso versetto, ecco una ripetizione o abbrevia- zione con un solo ehjeh usato come soggetto della frase “mi
manda a voi”; forse come una sorta di riduzione ai termini più elementari della complessità della prima risposta. Considere- remo in seguito qualche indizio su tale relazione. Per ora no- tiamo che la versione dei LXX41, che è assunta dal pensiero
cristiano come base della sua teologia “veterotestamentaria”, traduce Eìmi ò on, mentre la seconda formulazione viene resa
solo con ò on, cioè “sono l’essente” – o “l’essere” –, se inten-
diamo il termine secondo la tradizione metfisica occidentale; mentre la Vulgata la rende con Ego sum qui sum, “Io sono Co-
lui che sono”, aggiungendo un pronome personale che manca in ebraico e anche in greco; ma poi incongruamente la secon- da versione abbreviata diventa ui est, un impersonale “Colui
che è”. Ancora, l’edizione della CEI usa “Io sono Colui che sono”, e poi “Io-sono” con un trattino in più. Le traduzioni ebraiche, sulla scorta di una nota di Rashì che si appoggia al
Talmùd (Berakhòt 9b), di solito (ma non sempre42) volgono
41 Realizzata in Alessandria d’Egitto nel III secolo prima della nostra epoca
da un gruppo di “settanta” studiosi che in reciproco isolamento avrebbe- ro miracolosamente scritto esattamente la stessa traduzione; dopo la sua adozione come testo base per l’“Antico testamento” cristiano, la traduzio- ne fu sostanzialmente rifiutata dall’ebraismo rabbinico, anche perché si discosta notevolmente dalla lettera del testo ebraico che noi conosciamo, in parte per errori, interpolazioni e aderenza allo spirito della lingua greca, in parte riportando altre versioni della Bibbia, come si è potuto notare dal
confronto con i materiali di umram.
42 Non così per esempio quella di Rav Dario Di Segni in uso nelle comu-
nità ebraiche italiane.
Forse in realtà qui non è davvero questione di nomi, ma di qualcosa di più complesso. Possiamo prendere come traccia un celebre versetto del profeta Zechariah (Zaccaria XIV, 9), na-
turalmente molto più tardo del nostro testo, almeno secondo la cronologia biblica della tradizione ebraica40, in cui si proclama un
po’ enigmaticamente che “in quel giorno [usualmente interpreta- to come il tempo messianico] Y-H-W-H sarà uno e il Suo Nome
[shemò] uno”. La stranezza di questo testo consiste nel fatto che
l’essenziale ed eterna unità divina è da sempre il postulato prin- cipale dell’ebraismo e che questa clausola del versetto riprenda esplicitamente la principale dichiarazione della fede ebraica, lo
Shema‘ Israel, ponendo però tale unità al futuro (ehjèh), la stes-
sa voce verbale insistentemente ripetuta nel versetto 14. Per una ragione opposta, è strano immaginare che si debba arrivare a un Nome divino unico, quando proprio qui la Bibbia ne presenta di-
versi, possedendo i due principali analoga importanza, come ho messo in risalto sopra. Le interpretazioni spiegano che il profeta intenderebbe dire che nei tempi messianici sarà riconosciuta l’uni-
tà divina e se ne parlerà universalmente in maniera univoca, cioè
allo stesso modo. uesta ambiguità fra nome, parola e discorso non deve sorprendere: qualcosa del genere avviene anche con il greco logos, ma è soprattutto tipico della teoria biblica implicita
della nominazione: un nome è sempre una spiegazione. Dunque,
forse il nome richiesto qui è piuttosto un discorso, un modo di parlare, una verità, un’essenza: qualcosa di ancor più vasto di una descrizione definita. Mosè domanderebbe allora qui: in che termi- ni, con che discorso, dovrò spiegare l’apparizione divina?
40 Perché oggi c’è chi prova a proporre in maniera più o meno convincen-
te una priorità degli scritti profetici sulla definizione del Pentateuco. Cfr.
no l’‘Ehjeh’ al presente, due versi prima e in tutti gli altri luoghi
della Lingua sacra lo traducono con il futuro.
Il problema naturalmente non è solo grammaticale, ma teologico. L’interpretazione greca dei LXX, permeata di neopla- tonismo, sottintende una metafisica di Dio come sommo ente; il latino della Chiesa Lo riduce a un mistero chiuso nella propria tautologia, identico a Se stesso e dunque inattingibile dalla ra- gione, naturalmente portato a di strutture misteriose come la Trinità. Ci sono altre versioni rilevanti45. Per esempio Moses
Mendelssohn, nella sua importante traduzione della Torah in
tedesco, la prima da parte ebraica, pubblicata ad Amsterdam nel 1778 scrive “ich bin das wesen welches ewig ist” (“Io sono l’essen-
za che è eterna”), da cui il suo uso di “l’Eterno” come traduzio- ne per il Tetragramma, che è strettamente legato alla frase che stiamo discutendo: un’identificazione molto discussa in ambito ebraico, contestata per esempio dal fondatore della neo-orto- dossia Raphael Shimshon Hirsh46. L’“Eterno”, nel pensiero di
Mendelssohn, ha il significato dell’ente necessario in ogni tem- po, il che lo riporta vicino alla traduzione dei LXX appena ci-
45 E molte altre ancora meno rilevanti teoricamente. Ecco un elenco di
traduzioni inglesi che si trovano in Internet: “I will be what I will be.”
New International Version; “I will be that I will be” American Standard Version; “I Will Become whatsoever I please.” Rotherham’s Emphasized Bible; “I shall prove to be what I shall prove to be” New World Transla- tion, “I will be-there howsoever I will be-there”. The Shocken Bible, Eve-
rett Fox, “I shall come to be just as I am coming to be” Concordant Version of the Old Testament; “I will be-there howsoever I will be-there.” The Five Books of Moses, The Shocken Bible, “I Will Become whatsoever I please.”
Rotherham. Non discuteremo qui nei dettagli queste diverse proposte, le assumiamo semplicemente come sintomo di una difficoltà.
46 Per una discussione, vedi Francesca Albertini, op. cit.
“sarò quel che sarò” e poi “sarò”. Ne discuteremo in seguito il senso. Certamente ehjeh è la prima persona singolare del verbo hâyâh, qui all’imperfettivo43, laddove tempo verbale in ebraico
ha una funzione più di aspetto che di tempo cronologico: indi-
ca, cioè, un’azione non conclusa e perciò usualmente si rende con il presente progressivo inglese o con il futuro. Come scrive Erri De Luca nel commento alla sua traduzione del testo44, ab-
biamo qui
due volte il futuro del verbo essere alla prima persona con in mezzo il relativo “ashèr”. Grammaticalmente è: sarò ciò – o Colui – che sarò. […] L’incredibile è che quelli che qui traduco-
43 Francesca Albertini “Ehyèh ashèr èhyèh: Ex. 3,14 according to the
interpretations of Moses Mendelssohn, Franz Rosenzweig and Martin Buber”, in Zehut, raccolta on line di testi teorici dell’ebraismo italiano, http://www.morasha.it/zehut/index.html.
44 De Luca 1994, nota 49, p. 23. Per ragioni di uniformità ho cambiato
la grafia del testo ebraico. Cfr. una fra le molte fonti accademiche che so- stengono una posizione analoga: The translation I am is doubly false: the
tense is wrong, being present; and the idea is wrong because am [in an incorrect translation] is used in the sense of essential existence. All those interpretations which proceed upon the supposition that the name is a name of God as the self existent, the absolute, of which the Septuagint’s ‘ho on’ is the most conspicuous illustration, must be set aside… the nature of the [Hebrew] verb and the tense pre-emptorily forbid them.” David- son, 1920, p. 55. Hayah [“to be,” root of “ehyeh”] does not mean ‘to be essentially or ontologically [i.e., what He is basically or that He exists], but phenomenally [i.e., what He will do]… it seems that in the view of the writer “‘ehyeh and yahweh are the same: that God is ‘ehyeh, ‘I will be’ when speaking of himself, and yahweh ‘He will be,’ when spoken of by others. What he will be is left unexpressed: He will be with them, helper, strengthener, deliverer.” Ibid., Vol. II, p. 199.
Tale interpretazione è ripresa senza modifiche sostan- ziali da Rashì nel suo commento. uesto strano Nome/frase indicherebbe dunque l’attenzione e la cura divina nei confron- ti delle disavventura del popolo ebraico, una sorta di impegno o di contratto molto significativo, anche dal punto di vista nar- ratologico. Come abbiamo proposto sopra, dunque, “Ehjeh”
non sarebbe affatto un puro nome, caratterizzato solamente
dalla referenza univoca, ma il condensato di un discorso, un
dispositivo di senso che servirebbe a indicare ai compagni schia-
vi di Mosè come pensare al divino: in forma futura, e come un
impegno al soccorso. uesta descrizione di un Dio misericor- dioso e provvidenziale non ci sorprende (anche perché tutto il mondo monoteista, incluso l’Occidente cristiano e l’Islām) si è sviluppato alla luce di questa rivelazione. Ma, se guardiamo più a fondo, abbiamo ragione di meravigliarci, perché siamo lontanissimi dall’inalterabilità e dall’identità assoluta con se stesso del Dio platonico o del Primo motore immobile d ella
tradizione aristotelica.
uello che si nomina al futuro o nella modalità imper- fetta è, invece, un Dio immerso nella Storia, Lui stesso, in un certo senso, futuro e incompiuto, in quanto si presenta come promessa, un Dio che dunque ha bisogno dell’umanità per re-
alizzarsi compiutamente, e che, perciò, emerge secondo una modalità che si può accostare al Contratto della teoria semi- otica.
Vale la pena di aggiungere infine che questa comples- sa locuzione viene presentata nel testo come risposta a una domanda sul “Nome” e, in effetti, è contato dalla tradizio- ne ebraica come uno dei sette principali Nomi divini, i quali meritano una particolare protezione nell’uso, come vedremo in seguito. Ma, se la voce verbale del futuro del verbo essere è tata. Un secolo dopo, in stretto confronto con Mendelssohn,
Franz Rosenzweig usa “Ich werde dasein, als der ich dasein werde,
“ci sarò” [oppure “esisterò”] “come [o giacché] ci sarò” [o “esi- sterò”], salvo passare nella seconda formulazione abbreviata al tempo presente: Ich bin da, “ci sono” [oppure “esisto”]. Su que-
sta posizione Rosenzweig si trova in accordo con Martin Buber, con cui compila una celebre traduzione ebraica in tedesco della
Torah a ridosso della seconda guerra mondiale. Come scrive Bu-
ber in una lettera a Rosenzweig del 14 luglio 1925,
In un certo senso nella memoria collettiva e nella coscienza del popolo ebraico, Esodo III,14 rivela l’ultimo significato del Te-
tragramma, mostrando la sua essenza più profonda, che persi- no i Patriarchi non conoscevano (Esodo VI,3). La traduzione comune “Io sono Colui che sono” [Ich bin der ich bin] fornisce
una descrizione dell’Essere Divino come l’Unico Ente o l’En- te Eterno, vale a dire Colui che si mantiene per sempre nella Sua essenza […]. Tuttavia, questo tipo di astrazione non è adat- ta per una rinascita della vitalità religiosa quale si è realizzata all’interno del popolo ebraico per mezzo di Mosè.
Alla fine, partendo da queste considerazioni, Buber pro- penderà per rendere il Tetragramma in termini pronominali, più prossimi alla sua posizione dialogica, e finirà con lo scrivere: Er, Egli.
Torniamo ancora alla traduzione ebraica tradizionale. Essa si fonda su un breve passo del trattato Berakhòt del Tal- mùd Babilonese (9a), in cui il testo che stiamo considerando è
interpretato così:
Disse a Mosè: “Vai e dì agli Israeliti: sarò con voi in questa ser- vitù e sarò con voi quando sarete schiavi delle nazioni.” Rispose Mosè: “Signore del mondo, a ogni ora la sua pena”. Disse il San- to, sia Egli benedetto: “Dì loro che ‘sarò’ mi ha inviato a voi”.
ma premette a questa formula il Suo Nome Y-H-W-H, che
nel nostro brano finora era stato usato sì in maniera diegetica, cioè come didascalia delle enunciazioni, ma mai nel discorso divino, come enunciazione enunciata della divinità, anche se questo accade talvolta nelle sezioni precedenti della Torah47.
Subito dopo, nel versetto seguente, la voce divina ripe- te la stessa formula onomastica, con un’ulteriore variazione e ripetizione sotto forma di una doppia enunciazione enuncia- ta, la quale comporta sempre un forte carico di veridizione: il testo – che è sacro e dunque infallibile – racconta che Dio – a
Sua volta ovviamente infallibile – dà istruzioni a Mosé di dire:
“[…] Dirai loro: Y-H-W-H Elo-hìm dei vostri padri, Elo-hìm
di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm di Giacobbe appar-