Dopo queste considerazioni, che illustrano la difficoltà dialet- tica della nozione di libertà di religione misurata sulla realtà ebraica, è necessario chiedersi che posto vi sia per tale libertà nell’ebraismo. E, come per l’analisi svolta finora, sarà bene an- che qui distinguere nel nostro ragionamento un aspetto esterno
e uno interno. Per quanto riguarda il suo esterno, la tradizione
ebraica, forse per essere stata tanto a lungo minoritaria, è parti- colarmente liberale. A differenza delle altre religioni monotei- Ciò significa che il solo soggetto dell’attività religiosa è il
popolo ebraico, ‘Am Israel (o la sua presenza concreta nella forma
di Klàl Israel, la comunità ebraica, o almeno una sua rappresen-
tanza legittima secondo i principi religiosi, il miniàn appunto):
non vi può essere l’ebraismo di un singolo, che non sia, perlome- no in linea di principio, connesso alla sua comunità. E, dunque, anche il soggetto della libertà religiosa, secondo questo modo di vedere, non può che essere il popolo. Il che costituisce certamen- te un problema rispetto a quella tradizione politico-culturale, il liberalismo, che vede solo nel singolo il depositario di diritti, i quali possono essere delegati al gruppo solo in un secondo mo- mento. uest’ultimo punto di vista è espresso nell’equivalenza che spesso è stabilita fra libertà religiosa e libertà di coscienza, o di opinione, magari fondando la prima sulla seconda, quella che ho chiamato sopra libertà esterna della religione. Che la coscienza
sia in linea di principio libera, cioè che non possa essere costret-
ta, una volta che si sia formata, è un dato ovvio, se si identifica la coscienza con il “foro interiore” di un soggetto isolato, se cioè si parte dalla posizione cartesiana e si ignora magari che la cultura, l’educazione, la collocazione nel mondo, il consenso degli altri ecc. esercitano uno straordinario potere nella sua formazione. Inutile illustrare qui il fatto che spesso le religioni maggiorita- rie e le politiche di potere hanno cercato di allestire macchine pedagogiche, più o meno sofisticate e spesso di buon successo, per violentare la libertà di coscienza degli individui. Più forte e penetrante è questa spinta per il fatto che essa si riproduce, come spiega Foucault (1976), “molecolarmente”, ovvero grazie a for- me di potere, di influenza e di prepotenza locale, cui l’individuo
a questo proposito, un detto di Rousseau: “L’obéissance à la loi q’on s’est prescripte est liberté” (Du contract social, 1,8).
tenuti ad assumere l’ebraismo, che, infatti, proprio per questa ragione non ha un atteggiamento missionario, di assimilazione o di conquista. Non è un caso che nel corpo stesso della Torah
vi siano numerose norme volte a garantire i diritti degli stra- nieri, anche quando dimorano in mezzo al popolo di Israele e conservano i loro usi.
È importante per il nostro discorso ricordare che la tra- dizione talmudica ha elaborato esplicitamente una normativa interreligiosa, secondo cui sono considerati giusti – e dunque meritevoli dell’‘olàm habbà – tutti i non ebrei che rispettano le
cosiddette “leggi di Noè”16, inteso come il progenitore comune
dell’umanità attuale: coloro che, cioè, che non bestemmiano, sono monoteisti, non rubano, non uccidono, non hanno re- lazioni sessuali indebite, non si nutrono di membra di anima- li vivi e hanno un sistema giudiziario. Si tratta di norme che appartengono evidentemente all’ambito dell’etica e non della fede, come del resto buona parte delle 613 mitzvòt (o precet-
ti), che si applicano invece agli ebrei. È su questo piano, delle azioni e non della fede – esattamente all’opposto di ciò che afferma Paolo di Tarso – che si gioca, secondo l’ebraismo, la salvezza. Ne consegue qualcosa di più di una teoria della tolle- ranza, ma una vera e propria valorizzazione delle forme di or- ganizzazione sociale e religiosa, che vale senza pregiudizio per le diverse fedi, teologie, liturgie. La libertà esterna di religione,
nei limiti del monoteismo e del “non bestemmiare”, è per l’e- braismo non una concessione ma un valore.
La libertà interna è strettamente connessa alla Rivela-
zione. Nel libro delle “Massime dei padri” (i già citati Pirqé
16 “Gentili amati da Dio i cui meriti fanno la prosperità tra le nazioni”
(Benamozegh 1990).
ste, infatti, l’ebraismo non pretende affatto di possedere l’uni- ca via per la salvezza spirituale, qualunque significato si voglia
attribuire a questa espressione14. La rivelazione della Torah è
pensata come universale, nel senso che la sua verità è valida per
tutti e dell’aspettativa messianica ebraica fa parte l’attesa che tutti i popoli la riconoscano e che, in particolare, accettino il monoteismo15. Ma l’accoglimento della Torah, quello che se-
condo il midràsh riportato sopra è stato forse un evento coat-
tivo, non consiste nella sola accettazione di tale verità, bensì nell’assunzione degli obblighi pratici da essa imposti, che costi-
tuiscono il vero impegno ebraico. Una cosa è sapere che vi è un solo Dio, accettare la Sua regalità e il Suo insegnamento etico; altra cosa è obbedire a precetti, regole e statuti di comporta- mento specifici, come la proibizione di mangiare animali non ruminanti. uesti obblighi, infatti, secondo il pensiero ebrai- co non si estendono affatto a tutta l’umanità ma solamente a Israele in quanto ‘am segullah e mamléchet kohanìm (Esodo XIX,5-6): “popolo prezioso” della Divinità e “regno sacerdo-
tale”, quella nozione che di solito si suole riassumere con “po- polo eletto”. L’“elezione” e l’assunzione di obblighi particolari sono la stessa cosa e coincidono in fondo con la coazione di cui ho discusso: coazione metafisica, ma anche quotidiana, estesa a mille dettagli, ma riservata alla funzione specifica del popolo di Israele. Il che significa che gli altri popoli non sono affatto
14 Nella tradizione ebraica questa nozione si esprime parlando di ‘olàm
habbà, “mondo futuro” o di “prolungamento dei giorni”.
15 uesto significa l’espressione profetica, spesso ripetuta nella liturgia
Ba-yòm hahù yihieh HaShem ehàd u-shmoh ehàd, cioè, se mi è concessa
una traduzione interpretativa: “in quel giorno (all’avvento del Messia) non solo Dio sarà Uno, com’è sempre stato, ma questo fatto sarà univer- salmente riconosciuto”.
una voce divina, una sorta di minirivelazione puntuale, per cui, nel conflitto fra le due grandi scuole talmudiche, Beth Hillel e Beth Shammai, che in molte tradizioni avrebbero dato luogo a
eresie e scomuniche, proclama ellu ve-ellu divrè elokìm hayyìm,
ovvero “l’una e l’altra sono parole del Dio vivente”, anche se la regola poi segue l’opinione di Hillel. Altrettanto famosa, nella tradizione ebraica, è la disputa intorno al “forno di Akhnai”19,
in cui una certa questione di purità rituale viene decisa non secondo l’opinione del più autorevole maestro del suo tempo, rabbì Eli‘ezer, che pure nel racconto è capace di farsi assistere da svariati miracoli e perfino anche lui da una bat kol, ma se-
condo quella della maggioranza degli studiosi, con l’argomen- to, testualmente forzato, che il Talmùd ci assicura accettato
poi dalla Divinità, che “la Torah non è in cielo” (Deuteronomio XXX,12), ma è stata data agli uomini e, dunque, affidata alla
loro interpretazione. In effetti una delle caratteristiche salien- ti del Talmùd è di riportare sistematicamente le opinioni di
minoranza in tutte le discussioni, incluse talvolta quelle di un illustre maestro, ‘Elisha‘ ben Avuyah, detto Ahér, cioè “l’altro”,
per aver ripudiato la fede.
Insomma, vi è nella tradizione ebraica una larghissima libertà di opinione e di coscienza, che abitua a una larga convi- venza interna di differenze e che, solo in certi casi molto estre- mi, dà luogo a rifiuti, più o meno drastici, quali il caso appena citato di Acher o quello di Spinoza. Ma tale libertà ha a che fare
con lo “studio”, cioè con la dimensione intellettuale e cogniti- va, includendo molto di quello che nel Cristianesimo sarebbe invece dogma e, dunque, obbligo. Altra cosa è il fare, quella
pratica che costituisce l’oggetto dell’impegno na‘seh venish-
19 Cfr. Bali, Franzinetti, Levi della Torre, 2010.
Avòt), un trattato della Mishnah particolarmente importante
perché costituisce il tentativo più autorevole e completo, se non sistematico, di auto-comprensione della tradizione fari- saica che genererò l’ebraismo successivo alla distruzione del Secondo Santuario, si legge a nome di rabbì Yehoshu‘a ben Levì (VI,2) una strana riscrittura ermeneutica del versetto in cui si dice che le prime Tavole della Legge furono scritte da Dio stesso, “incise sulle tavole” (Esodo XXIII,16). Al tikré charùt, ellà cherùt recita questa notissima mishnah, “non leg-
gere ‘incise’ su tavole, ma ‘libertà’”17. “Libertà sulle tavole, per-
ché nessun uomo è libero se non chi si dedica allo studio della
Torah”, prosegue il testo. Si tratta evidentemente di un’apolo-
gia di quell’attività di studio del testo sacro che per il pensiero ebraico da solo “vale tutti i precetti”, anche perché i maestri non pensano a una disamina testuale astratta, volta al puro in- teresse intellettuale, ma a uno studio con esiti pratici, premessa dell’esecuzione corretta delle regole bibliche.
Ma al di là dell’esortazione allo studio vi è in questo passo un’idea della libertà intellettuale dell’interpretazione che è uno dei tratti caratteristici della cultura ebraica. Celebre è l’altra dichiarazione, attribuita dal Talmùd a una bat kol18,
17 La proposta ermeneutica si spiega meglio pensando che il testo sacro
originale della Torah non è vocalizzato, a differenza delle copie di studio,
che riportano invece la vocalizzazione massoretica (VII-IX secolo), con- siderata dalla tradizione ebraica del tutto autorevole, ma non escludente “in futuro” altre possibili letture. Il testo liturgico della Torah ammette,
dunque, in teoria, entrambe le lezioni.
18 L’espressione significa letteralmente “figlia della voce”, perché nessuno
possa presumere di aver avuto davvero un contatto diretto con la Divini- tà. Come se in questi fenomeni profetici si potesse cogliere un riverbero della presenza divina, ma non la Sua oggettivazione.
CAPITOLO VII
IL VELO DI MOSÈ E ALTRI FILTRI OTTICI NELLA BIBBIA EBRAICA