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Prima di chiederci che cosa siano dunque i Nomi divini nella tradizione ebraica e cercare di capire le ragioni e le regole per il loro uso, bisogna brevemente introdurre la teoria dei nomi

10 Anzi, è evidente che il cristianesimo, organizzandosi nell’ambito cultu-

rale greco-romano, abbandona l’idea di un nome proprio del Dio unico,

traducendo con il nome comune Signore (kurios, dominus) il Tetragram- ma, e poi rendendolo ancora come Dio o Padre, ovvero altri nomi comu-

ni. Il piano onomastico è dunque un indizio importante della separazione fra ebraismo e cristianesimo.

forma tale che chiunque conosca il nome e sappia come pro- nunciarlo correttamente può controllare la persona. La persona in sé è inavvicinabile, oppone resistenza, ma attraverso il nome diventa avvicinabile, chi pronuncia il nome ha potere su di lei.

La teoria del nome vero, che evoca l’essenza della cosa, si applica centinaia di volte nel testo biblico, soprattutto a persone e a luoghi. Così, subito dopo il passo della Creazione, il testo gioca su due voci dello stesso verbo “vivere”: “l’uomo chiamò sua moglie Eva (Havah = vivente), perché ella fu la

madre di tutto ciò che vive (kol hài)”, (Genesi III,21). Pochi

versetti dopo, la nominazione di Caino (Kàyin) viene acco-

stata all’enigmatico commento di Eva per il primo parto della Storia: “acquistai (kanìti) un uomo con il (cioè forse: dal) Si-

gnore”. Il secondo figlio di Adamo è Abele (hèvel, che signi-

fica vapore, alito, fumo e persino inconsistenza) ed è proprio sul fumo del suo sacrificio che sale al cielo, mentre quello di

Caino viene respinto, che si accende la disputa. Il terzo figlio è Set e Adamo spiega: “perché Dio pose – sat – per me altro

seme al posto di Abele”. E così via fino ad Abramo, che quando accetta il patto con Dio, da Avràm che era, viene rinominato Avrahàm, cioè padre di moltitudini14, a Mosé (che il testo in-

14Genesi XVII,5 “Non ti chiamerai (ikarè) più con il nome di Avràm, il

tuo nome sarà Avrahàm, perché ti ho reso padre (av) di una moltitudine

(hamòn) di popoli”, mentre prima lo era solo del popolo di Aràm da cui

proveniva. Così il commento del principale esegeta della tradizione ebrai- ca, Rashì, ad loc. (trad. it., p. 120). E allo stesso tempo (Genesi XVII,15) Sarày diventa Sarah, perché il primo nome “significa ‘mia principessa’,

principessa cioè per me e non per gli altri”, mentre con il secondo “ella sarà principessa per tutti” (Rashì ad. loc., trad. it. 1985 p. 123). Va notato

che a Sarah viene attribuito anche un terzo nome, Yiskà, sulla base di Ge- nesi XI,29. Scrive Rav Shlomo Bekhor (I primi grandi uomini, testo com-

un fatto, all’indicativo12. Cinque volte queste azioni creative

sono seguite da quello che – del tutto impropriamente in que- sto caso, ma seguendo l’uso filosofico di Kripke – possiamo chiamare un “battesimo”, cioè l’assegnazione esplicita di un

nome, come per esempio nel passo “Dio chiamò la luce ‘giorno’

e le tenebre ‘notte’…”13. Altre azioni semiotiche di questo testo

inaugurale sono le benedizioni pronunciate da Dio, assieme alla Sua constatazione, reiterata sei volte, che i frutti dei vari atti creativi possiedono valore: “e Dio vide che era una cosa buona” o “molto buona”.

Un ulteriore passaggio importante di questa teoria origina- ria dei Nomi si incontra nel versetto Genesi XXI,9: “Allora il Signo-

re Dio formò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti i volatili del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viven- ti, quello doveva essere il suo nome.” Dunque, i nomi sono assegnati

dall’umanità, almeno quelli degli esseri viventi; sono arbitrari ma insieme sono giusti (letteralmente: asher likrà lo… hu shemò “come

lo chiamerà, questo [sarà] il suo nome”), e dunque hanno potere esplicativo. Di più, chi li conosce dispone, in un certo senso, dell’og-

getto nominato. Dice Martin Buber nel suo Mosé (1947): Il vero nome di una persona esprime la sua essenza, sicché co- stui è in qualche modo presente nel nome e questa relazione ha

12 Almeno nella traduzione in lingue occidentali. In ebraico l’organizza-

zione dei modi verbali è assai diversa, ma non è possibile discutere qui questo aspetto.

13 Il verbo usato qui, vaykrah, viene dalla radice qr’, che significa “leggere”

oltre che “chiamare”, “proclamare”. Lo stesso verbo è usato in riferimento all’azione di Adamo, che dà nomi agli animali. Dunque, si può sostenere che egli “legga” la loro essenza e l’arbitrarietà della sua azione sia dunque relativa.

assegnati nel corso della narrazione, appaiono nella Torah come nomi giusti, veri, attaccati all’essenza del loro oggetto

(vale il principio citato sopra asher likrà lo… hu shemò), dun-

que sono designatori rigidi, e insieme però rivelatori di una

proprietà: quando Avràm diventa Avrahàm; oppure quando Ya‘aqòv, dopo il combattimento notturno con l’angelo, diven-

ta Israel15, il nuovo nome (in quest’ultimo caso aggiuntivo, e

non sostitutivo del primo) designa una verità, perché la pro-

prietà è nuova come il nome. Tale aggiunta, però, entra allora nelle “proprietà essenziali” del personaggio. Il personaggio bi- blico Avràm muta quando diventa Avrahàm e il cambiamento

del nome descrive una trasformazione della sua identità. uesto è un punto particolarmente significativo e idiosincratico della teoria biblica implicita della nominazio- ne: chiamare Giacobbe Ya‘aqòv o chiamarlo Israel non è la

stessa cosa, anche se i nomi sono entrambi “giusti” e hanno lo stesso riferimento estensionale, il figlio secondogenito di

15 Cito l’intero passo, così pieno di questioni di nomi da richiedere una

grande attenzione (Genesi XXXII, 25-31): “25. Giacobbe rimase solo e

un uomo lottò contro di lui fino allo spuntar dell’aurora. 26. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo percosse nell’articolazione del femore e l’articolazione del femore si lussò mentr’egli continuava a lottare con lui. 27. uegli disse ‘Lasciami andare perché spunta l’aurora’. Rispose ‘Non ti lascerò partire se non mi avrai benedetto’. 28. Gli domandò ‘ual è il tuo nome (mah shemècha)?’ Rispose ‘Giacobbe’. 29. Riprese ‘Non ti chia-

merai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio (lo Ya‘a- qòv leamàr ‘od shemchà ki-im-Israel ki-sarìta im Elo-hìm) e gli uomini e

hai vinto’ 30. Giacobbe allora gli chiese ‘Dimmi il tuo nome (aghidà-na shemècha), ti prego!’ Gli rispose ‘Perché chiedi il mio nome?’ e qui lo be-

nedisse. 31. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl perché, disse, ‘ho

visto Dio faccia faccia (ki rahìti Elo-hìm panìm el-panìm), eppure la mia

vita è rimasta salva’.

terpreta come “salvato dalle acque”) e a praticamente a tutti i personaggi biblici. Lo stesso accade per i luoghi, che, secondo il testo, vengono chiamati a seconda dei fatti che vi si svolgono. ueste spiegazioni bibliche solo raramente sono accettabili da un punto di vista linguistico, spesso appaiono infondati agli occhi del filologo; più che etimologie, sono eziologie. Ma non è questa discussione sulle paraetimologie che importa qui. Ci interessa invece sottolineare che i nomi, anche i nomi propri

mentato di Genesi I-XXII, Ed. Mamash, Milano 2003): “Sarà stessa venne

chiamata Yiskà (dal verbo sakhà), e significa vedere, guardare perché po-

teva vedere il futuro con l’ispirazione divina e perché tutti guardavano la sua bellezza (Meghillah 14a); per Rashì Yiskà indica inoltre il concetto di nessikhùt, aristocrazia (Berakhòt 13b; Rashì ad loc.). Il Maharàl di Praga

approfondisce il significato di entrambi i nomi di Sarah. La donna, per questo autorevole commentatore, ha due missioni: la prima, dalla nascita, la seconda quando si sposa, da compiere assieme al marito e in armonia con lui. Yiskà è quindi il nome che indica la sua grandezza personale, men-

tre il nome Sarày, che indica la sua missione in quanto moglie di Avraham

e madre di Israel, viene impiegato solo a partire dal suo matrimonio. Si tratta di un ragionamento che può sconcertare un lettore moderno, ma rientra perfettamente nel tipo di teoria implicita dei nomi che stiamo di- scutendo. È interessante notare, a proposito del passaggio subito dai nomi di Avraham e Sarah, che esso consiste nell’aggiunta di una stessa lette-

ra he, la stessa che, come vedremo, rende grammaticalmente inusuale il

Nome divino Elo-hìm rispetto al plurale ordinario Elìm, dalla parola El

(dio). Il linguista Joel M. Hoffman, nella sua storia della lingua ebraica (2004, pp. 39-44), suggerisce che esista una relazione con l’innovazione dell’ebraico rispetto alle scritture circostanti, che consiste nell’esistenza di lettere “matres lectionis”, usate oltre che per il loro valore consonantico

come segno della presenza di certe vocali. He è una di queste lettere, e

introdurle nel nome di alcuni Patriarchi e nel Nome divino stesso costitu- irebbe una marcatura culturale. uest’analisi vale anche per il Tetragram- ma, composto solo da matres lectionis.