• Non ci sono risultati.

Se passiamo all’altro lato della relazione segnica, sul significato

del Tetragramma si sono riempiti volumi, proprio perché esso è stato usato da millenni come significante puro, senza conte- nuto descrittivo, esattamente secondo il modello della teoria classica dei nomi propri: fornito di riferimento, ma senza si- gnificato linguistico. Ciò nondimeno, o forse proprio per la sfida implicita in questa condizione asemantica, vi è stato un

vivo interesse fra studiosi di vario orientamento per la sua pos- sibile etimologia, pensata al solito come strada per accedere al vero significato assente.

La prima possibile etimologia è suggerita in maniera abbastanza esplicita dal testo stesso. Secondo una maniera as- sai caratteristica della retorica e della poesia biblica, il testo dei versetti III,14 e 15 che stiamo esaminando contiene una ripe-

tizione con variazioni, ciò che nelle espressioni bibliche fino ai

Salmi e ai Profeti serve a ribadire lo stesso concetto, nominan-

dolo diversamente. ui la struttura non è doppia, come d’uso, ma addirittura tripla:

53 Si veda una discussione di questo punto nel seguito di questo libro.

ta testualmente, ma anche praticata nel gioco linguistico del testo, ovvero in cui la pragmatica si fa semantica. O ancora, se ci si mette da un punto di vista storico, è un caso in cui si istituiscono dei dispositivi pragmatici per esprimere in via se- misimbolica una semantica – il che è in generale la logica del

funzionamento cerimoniale della comunicazione e dunque di

moltissimi riti religiosi e anche laici. La separazione in questo caso implica soprattutto una non oggettivazione, l’impossibi- lità di trattare il Tetragramma come una parola come le altre, con il consueto funzionamento fonologico e segnico.

Occorre rilevare che vi è una coerenza profonda fra que- sta pragmatica dell’impronunciabilità, che è impossibilità di un’oggettività verbale, e l’autodefinizione al futuro che ho di- scusso sopra anche nei termini di una trascendenza rispetto a qualunque stato dei fatti. Il Tetragramma non è un Nome pie- namente presente al linguaggio, come Dio non è un ente piena- mente presente al mondo. Entrambi sono concepiti secondo la logica della trascendenza, di un darsi che non si lascia afferrare.

È particolarmente importante dal punto di vista semiotico il modo in cui questi temi arditi vengono stabiliti: non in maniera

dichiarativa ed esplicita, ma attraverso usi di lettura, tempi verbali, frammenti narrativi. E naturalmente attraverso il lavoro di inter- pretazione che per migliaia d’anni si è ininterrottamente compiuto a loro proposito. Non occorre certamente supporre che tutti questi sensi fossero già contenuti originariamente nel testo, o addirittura

che essi corrispondano alle intenzioni dell’autore (si creda o meno

al suo carattere di Autore divino); quel che conta è che vi sono delle precise caratteristiche – o piuttosto anomalie testuali – e pratiche su cui tali interpretazioni si basano e che si sono sviluppate nel corso di una tradizione interpretativa lunghissima e ininterrotta. La di- namica di questo arricchimento ermeneutico è ben presente nella

significa “disastro”, “rovina”, “distruzione”, probabilmente da un senso originario di “caduta”, come si ritrova per esempio in arabo. In questo senso, il Nome vorrebbe dire il “Distruttore”, “Colui che fa cadere o che abbassa”. Ancora una possibilità lega il Nome all’arabo hauà, il vuoto, l’atmosfera, che si collega

a espressioni ebraiche che indicano il respiro, il vento e in defi- nitiva la vita (hayah), anche se vi è la notevole difficoltà filolo-

gica dovuta alla lettera aspirata in quest’ultima espressione che è forte, mentre nel Tetragramma e nel verbo essere essa è lene.

È comunque questa l’opinione del fondatore dell’Ipotesi Docu- mentaria, Wellhausen, per cui il significato del Nome sarebbe

quella di un dio del vento e della tempesta.

Tutte queste attribuzioni d’origine restano ipotetiche e non descrivono effettivamente la funzione del Tetragramma

nella tradizione ebraica, impronunciabile e asemantico da mil- lenni: anche per coloro che sostengono sulla base dell’interpre- tazione letterale di alcune fonti bibliche56 che esso anticamen-

te fosse talvolta effettivamente pronunciato al di fuori della cerimonia dell’Espiazione cui ho accennato, è pacifico che, a partire dal Secondo Santuario, esso non lo fosse affatto. Resta il fatto che queste diverse connotazioni, l’Essere e il Creare, la Vita e il lato terribile della Divinità, debbano apparire conver- genti al lettore ebraico che mediti intorno al Nome, anche per la struttura della lingua ebraica, che consente una sistematica derivazione di parole e significati dalle radici (normalmen- te trilettere) che costituiscono il cuore della lingua, seguen- do schemi di vocalizzazione e affissazione molto più stabili e grammaticalizzati di quanto avvenga nelle lingue indoeuro- pee. Ciò, insieme all’abitudine di non vocalizzare lo scritto,

56Salmo CV,1-3; CXVI,13-17; Proverbi XVIII,10; Ruth II,4. 1 “E disse Elo-hìm […]: ‘Sarò ciò che sarò.’ 2 E disse: ‘Così dirai

ai Figli d’Israele: <Sarò> mi ha mandato a voi’.” 3 “E disse an- cora Elo-hìm […]: ‘Così dirai ai Figli d’Israele: <Y-H-W-H […]

mi ha mandato a voi>’”.

Dunque, Y-H-W-H e “sarò” sono messi in una posizio-

ne perfettamente simmetrica. Bisogna aggiungere che i signifi- canti sono piuttosto simili, perché “sarò” si dice ehyeh (aleph- he-yod-he) e Y-H-W-H è jod-he-vav-he, con un’alternanza di

consonanti che possono fungere da matres lectionis54. Tale pa-

rentela consonantica risulta non incompatibile con la coniu- gazione verbale ebraica, e conseguentemente è facile derivarne la convinzione che il senso del Tetragramma abbia a che fare

con una qualche espressione del verbo essere (lihiòt), in parti-

colare con la terza persona singolare del perfetto, da cui non è inconsueto nelle lingue semitiche trarre significanti nominali. A partire da questa ipotesi, si è aperto un lungo dibattito, a cui ho già accennato, fra quanti interpretano questo Nome in senso ontologico, come se significasse “l’Essente” (o piuttosto “l’Essere”, distinzione essenziale nella filosofia contempora- nea ma non chiara in ebraico né in greco antico), coloro che lo interpretano temporalmente (“l’Eterno”, “Colui che era, è e sarà”55) e quelli, infine, che ne vedono un aspetto causativo

(“Colui che fa essere”, “il Creatore”), anche se la grammatica ebraica non prevede l’aspetto causativo per il verbo essere.

Un’interpretazione etimologica completamente diver- sa è basata sull’esistenza in ebraico del sostantivo havah (te-

stimoniato nei Salmi e in Giobbe) o hovah (nei Profeti), che

54 Vedi una spiegazione alle note precedenti di questo capitolo.

55 uest’ultima è anche la lettura di Spinoza, nel secondo capitolo del

Sua identità fosse ben nota ai Patriarchi. Al contrario, proprio il doppio nome El Shad-dai compare molto di rado.

Secondo l’Ipotesi Documentaria questa contraddizio- ne si spiegherebbe con l’ipotesi che il capitolo VI dell’Esodo

appartenga alla tradizione sacerdotale (lo strato P), mentre i luoghi in cui appare il Tetragramma nella Genesi – e il capitolo

III che abbiamo analizzato sopra – apparterebbero invece alla tradizione J (o forse E). Connettere Mosè e Aronne (primo Sommo Sacerdote) al Nome Tetragramma legittimerebbe, se- condo questa linea di pensiero, la funzione sacerdotale. Ora, “se questa spiegazione supera la contraddizione apparente, non dà ragione del testo com’è ora. Perché [se ammettiamo lo schema di spiegazione dell’Ipotesi Documentaria] dobbiamo assumere che queste difficoltà apparissero chiare al redattore della Torah come lo sono a noi, e dobbiamo chiederci allora

come egli percepisse il contenuto della Rivelazione che deriva- va dalla storia che ci ha trasmesso”58.

In sostanza, l’invocazione di “strati” o “tradizioni te- stuali” non spiega nulla, ancor meno della biografia di un au- tore per un testo narrativo, salvo che si supponga che la Bibbia

sia una semplice ottusa giustapposizione di brani senza rap- porto fra loro, ma che anzi letteralmente si ignorano, e si im-

magini inoltre che questa giustapposizione sia stata compiuta da un redattore tanto incosciente da non rendersi conto di contraddizioni così evidenti come questa e che, quindi, il testo non abbia affatto un significato e neppure un’organizzazione unitaria. Tutto ciò si può certamente sostenere, ma allora è difficile capire com’è accaduto che un’accozzaglia così casuale di vicende e di brani disordinati e conflittuali abbia avuto un

58 Gunther Plaut (ed., 1981, p. 424, traduzione mia).

induce il parlante/ lettore dell’ebraico a un’attitudine molto più interpretativa nei confronti delle unità di espressione che incontra, rendendo naturale un lavoro ermeneutico nei con- fronti del testo, che valorizza omofonie, omonimie, metatesi e anagrammi. Tutto ciò spiega, fra l’altro, la fioritura della cosid- detta abbalah letterale, che lavora sulla permutazione delle

lettere dei Nomi divini, non fra superstiziosi incolti, ma fra rabbini di vastissime conoscenze, come ad esempio Abraham Abulafia.