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È opportuno ritornare ora direttamente al nostro secondo tassello di questo puzzle onomastico, la seconda autodichiara- zione del Nome divino contenuta nel sesto capitolo dell’Esodo

(Séfer Shemòt), che narrativamente si colloca subito dopo il

ritorno di Mosé in Egitto, in sostanziale continuità con l’epi- sodio che abbiamo descritto. ui si dice, ai versetti 2 e 3: “Io sono Y-H-W-H, sono apparso a Abramo, Isacco e Giacobbe

come El Shad-dai, ma il Mio Nome di Y-H-W-H non l’ho fat-

to loro conoscere”, lo nodàti lachèm. La cosa decisamente sin-

golare in questo luogo del testo è che di fatto il Tetragramma sia usato molto frequentemente prima di questo episodio, non solo come strumento diegetico con cui il narratore si riferisce a Dio, ma anche nei dialoghi, quando i vari personaggi del te- sto, compreso Lui stesso, Gli si riferiscono57. Dunque bisogna

supporre, contrariamente a quel che viene detto, che questa

57 Salvo che si immagini, come secondo Ibn ‘Ezra avrebbe fatto Rabbì

Yehoshua, che queste occorrenze siano interpolazioni anacronistiche ri- spetto al tempo della narrazione fatte da Mosè.

si intenda designare, ma comprenderne il valore intrinseco, apprendere la sua (o una sua) essenza.

Così si comprende anche l’autorevole, ma decisamen- te strano, commento di Rashì ad loc. che spiega l’espressione

“apparvi come El Shad-dai”, Dio Onnipotente, come equiva- lente a “Feci loro delle promesse e in tutte dissi loro: ‘Io sono

il Signore’.” Dio, cioè, appare secondo un Nome dicendoSi con un altro Nome. La sua opinione si completa infatti con il com-

mento a “non l’ho fatto conoscere loro” in questo senso:

ui non è scritto ‘non feci conoscere ‘, ma ‘non Mi feci cono- scere’, cioè non Mi feci riconoscere con l’attributo della Mia verità, per cui il Mio Nome è HaShem, vale a dire fedele nell’at-

tuare e dimostrare che le Mie parole sono vere, perché Io ho fatto loro delle promesse ma non le ho ancora mantenute.

La contraddizione sarebbe interna al Nome Shad-dai

che indicherebbe l’onnipotenza della promessa e non quella della sua realizzazione. ualcosa del genere sostiene anche Ibn ‘Ezra, il grande filosofo ebreo del XII secolo, per cui il senso del testo sarebbe il seguente60:

Allora Dio disse a Mosè: sono apparso ai Patriarchi con la po- tenza del Mio braccio […] con cui aiuto quelli che ho scelto, ma la potenza del Mio Nome Y-H-W-H, con cui tutto ciò che

esiste venne alla luce, non l’ho reso noto loro; ciò avrebbe vo- luto dire creare cose nuove per loro cambiando apertamente la natura. E perciò dì agli ebrei che Io sono l’Eterno e informali di nuovo del Mio Tetragramma, perché con questo Nome ope- rerò dei miracoli per loro ed essi vedranno che Io sono l’Eterno, colui che crea ogni cosa.

60 Riassunto così dal Rambàn.

tale successo sul “mercato” delle storie da influenzare, anche grazie ai Vangeli e al Corano che gli sono enormemente debi-

tori, la vita spirituale e morale di due terzi dell’umanità. Se, in- vece, si crede che il testo biblico voglia dire qualche cosa, anche

se eventualmente i suoi elementi abbiano una storia filologica tormentata, si è costretti a cercare una spiegazione del modo in cui esso effettivamente si presenta, attribuendone la responsa- bilità al redattore finale, si sia trattato di Mosè, di ‘Ezra o anche di un anonimo tardo sacerdote del Secondo Santuario, come alcuni pretendono. Perché, seppure fosse stato tardivamente costruito, bisognerebbe spiegare il funzionamento della strut- tura uscita della redazione finale, così come si fa, per esempio con Omero. Ed è ragionevole pensare che questo redattore sapesse ciò che faceva, o almeno che fosse capace di ricordare quel che aveva scritto qualche pagina prima.

Vale la pena dunque seguire un metodo d’analisi più articolato, considerando i luoghi testuali precedenti del Nome

Shad-dai: essi sono Genesi XVII,1, ove Dio annuncia il patto

della circoncisione con Abramo, e Genesi XXVIII,3, dove Isac-

co benedice Giacobbe e gli profetizza, in analogia con il passo della circoncisione e anche con i versetti che stiamo esaminan- do, la costituzione futura di un grande popolo sulla terra di Canaan59. Una concomitanza di temi contrattuali è evidente.

Bisogna allora ripartire dall’idea che, nella semiotica implicita dei nomi biblici, conoscere per nome non sia semplicemente ot-

tenere dal significante l’informazione di chi (soprattutto Chi)

59 Una curiosità è che in tutti e tre questi passi la Vulgata traduce Shaddai

“omnipotens”, mentre la LXX non traduce questa parola, sostituendola con un pronome possessivo mou, oppure sou oppure on auton: “il tuo, il

dia. Il modo di chiamare Dio, insomma, e la Sua rivelazione non riguarda semplicemente una questione discorsiva o anche cognitiva, ma la relazione reale che il Divino intrattiene con

il popolo ebraico. Rivelarsi sotto un nuovo Nome significa trasformare attivamente la relazione. FarSi conoscere come Tetragramma significa, come ho già sottolineato, assumere un ruolo narrativo diverso del puro destinante, dall’onnipotenza sottolineata da Shad-dai o dal rigore di Elo-hìm.

Accenno così a un’altra questione connessa a questo cambio di Nomi. Esso avviene in concomitanza con una tra- sformazione fondamentale nella narrativa biblica. Il tempo dell’anteriorità rispetto a Mosè, quello a cui si riferiscono le formule che ho analizzato prima e anche quello di cui vien detto che Dio vi era nominato come El Shad-dai, ha come

soggetti narrativi i Patriarchi: persone individuali, descritte in

una serie di circostanze che coinvolgono solo secondariamen- te mogli, figli, membri del clan. Con il passaggio dall’Egitto, il soggetto diventa collettivo, il popolo ebraico, i bené Israel,

i figli di Israele, rispetto a cui in sostanza Mosè funge, nella grande sintagmatica narrativa, da Aiutante, anche se magari nei singoli episodi è lui spesso il Soggetto narrativo e il popolo funge da Destinatario, se non talvolta addirittura da Avversa- rio. La relazione fondamentale fra Dio, che è sempre il Desti- nante finale e diventa qui Aiutante (come si era detto e come afferma esplicitamente Nachmanide) e il popolo di Israele ri- chiede secondo questa narrazione, un cambio di Nome.

uesto carattere collettivo proprio dell’ebraismo nei rap- porti con il divino è radicato in molti modi nelle pratiche litur- giche. L’esempio più chiaro è la necessità di un quorum di dieci

adulti (miniàn) per compiere certi atti come la lettura della Torah

(che è collettivamente rivelata al popolo e non a un profeta iso- Rambàn o Nachmanide, il commentatore del XII secolo

che rivaleggia con Maimonide nell’essere il punto focale della fi- losofia ebraica medievale, sostiene invece un’interpretazione che risente ancora più fortemente dell’idea che i diversi Nomi divini individuino modalità diverse o diversi caratteri della presenza divina, abbiano cioè una forza teologica reale. ui, afferma, si

sta dicendo che “Io, l’Eterno apparvi ai Patriarchi solo attraver- so lo specchio di El Shad-dai” nel senso del versetto (Numeri XII,6) “In una visione Io mi faccio conoscere a lui”. “Ma Io non

mi feci conoscere loro così [in una visione profetica, U.V.], ed

essi non Mi contemplarono attraverso uno specchio lucido ab- bastanza da conoscerMi”, poiché “prima di Mosè non sorse in Israele un profeta come Mosè, che l’Eterno conosceva a faccia a faccia”. I Patriarchi conoscevano il Nome proprio dell’Eter- no, ma esso non era loro noto attraverso la profezia. Per questa ragione, quando Abramo parlava con Dio usava il Suo Nome proprio insieme con l’espressione Adonai o solo questa. Il senso

è che la rivelazione della Presenza divina e la Sua comunicazio- ne con loro venne loro attraverso l’attributo della giustizia e, secondo questo attributo, si realizzò la Sua condotta nei loro confronti. Ma con Mosè la Sua condotta e il Suo riconoscimen- to passarono attraverso l’attributo della misericordia, che è in- dicato dal Tetragramma […] Così Mosè non menzionò più il Nome El Shad-dai e la Torah fu data secondo il nome YHVH.

In questo passo insomma, secondo il multiforme com- mento rabbinico, verrebbe consegnata a Mosè un’idea di Di- vinità diversa e più profonda di quella designata da Shad-dai,

un’idea che, come abbiamo visto, viene letta dalla tradizione come un “essere con” gli ebrei nella difficoltà presenti e future e quindi poter corrispondere alle promesse fatte; un’idea con- nessa con la realizzazione del patto e il principio di misericor-

da conquistare è la “santità”61, la Terra di Israele funge da san-

zione positiva sempre revocabile, come accadrà più volte du- rante la narrazione biblica. Il secondo Contratto subordinato e funzionale al primo è concluso qui (Esodo III,9) con Mosè,

che è incaricato ora di ottenere come suo Oggetto di valore immediato una premessa, una Competenza fondamentale per il primo contratto, la liberazione dei suoi fratelli dal giogo egi- zio. Egli tenta di sottrarsi ma non vi riesce, e ottiene dettagliate istruzioni su come fare, strumenti cognitivi e pragmatici.

La rivelazione del Tetragramma non serve, nell’auto-

comprensione della tradizione biblica, a informare su un nome

che era già usato in precedenza, e che non deve venir usato per

convocare Dio, come è la forza dei veri Nomi, secondo la con-

cezione che la Torah condivide, in fondo, con Platone62.

Vediamo ora ancora più da vicino il senso di questo Nome precedente, a cui alludono i commentatori citati. El può

essere considerato un nome comune generico della divinità – o addirittura dell’autorità – in tutto il mondo semitico, come si è già detto, con qualche sottolineatura sul tema della forza, vi- sto che si applica anche a giudici, capi e altri maggiorenti, come rileva anche Maimonide. Shad-dai invece è invece un Nome

molto più connotato. Appare etimologicamente legato al verbo

61 “Siate santi come Io sono santo”, Lev. 19:2; “Se ascolterete la mia voce e

osserverete il mio patto, voi sarete la mia proprietà particolare fra tutti i po- poli[…] farò di voi un regno di sacerdoti, una nazione consacrata” Es. 19:5.

62 E con il pensiero magico di molti popoli come Egli convoca via via Ada-

mo, Noè, Abramo ecc. fino ai profeti e a Mosè, chiamandoli. Il cambia-

mento del nome, da Elo-hìm cui è attribuita la giustizia e da Shaddài che

riguarda la potenza a Y-H-V-H connotante la misericordia, indica una

trasformazione modale, da Colui che può giudicare a Colui che vuole sal-

vare: un passaggio decisivo nella narrativa biblica.

lato) e per quei gesti religiosi di cui è oggetto il Nome divino, in- nanzitutto nel caso di quella antichissima preghiera detta adìsh,

il cui oggetto è la santificazione del Nome divino e, in particolare, del Tetragramma, come si capisce dal testo senza che però esso vi sia mai esplicitamente nominato, e poi la benedizione dello stesso Tetragramma, che viene richiesta alla comunità (barechù, “bene-

dite”) all’ingresso nel nucleo centrale della liturgia.

Bisogna notare, infine, che secondo alcuni commentari il testo potrebbe essere tradotto letteralmente “il Mio Nome

Y-H-W-H non l’ho fatto loro penetrare”, secondo quella co-

noscenza carnale che ancora si definisce “biblica”, perché in diversi luoghi, a partire da Genesi IV,1, si usa questo verbo per

l’unione sessuale. Invertendo la metafora, si può vedere in que- ste parole l’accenno a una conoscenza intima e profonda.

Tutta la complessa rivelazione dei Nomi divini serve, secondo le interpretazioni tradizionali che ho citato, come premessa pedagogica ed efficace per il passaggio da un certo Programma narrativo a un altro. Il brano che ho esaminato costituisce un vero Contratto, in senso semiotico, a differenza del patto precedente stretto con Abramo e poi confermato a Giacobbe, perché esso richiede una serie di azioni volte a re- alizzarlo. Anzi, si tratta di un doppio Contratto. Uno, quel- lo fondamentale con i figli di Israele (soggetto collettivo), è accennato qui (Genesi III,8) per la prima volta e sarà stretto

definitivamente sul Sinài, cioè sullo stesso luogo, il che, come abbiamo visto, viene proposto come “segno” in risposta alla prima domanda di Mosè: chi sono io? È il patto della cosid- detta “elezione”: Israele, Soggetto semiotico della narrazione, diventa il popolo di Dio accettando la sua Rivelazione, la To- rah, strumento supremo di Competenza semiotica della nar-