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Libertà esterna, libertà interna

Dal punto di vista di chi appartiene a una religione monotei-

sta e, in modo del tutto particolare, all’ebraismo, la nozione di

libertà religiosa appare oggi insieme necessaria e doverosa, ma

anche complicata e ricca di problemi, tanto che si può perfino

considerare una forma di ossimoro, almeno se si sta all’etimo- logia per cui la parola “religione” verrebbe da re-ligare, vinco-

lare assieme.

È ovvio che per chi pratica una vita religiosa è importan- tissimo che essa sia legalmente ammessa, non soggetta a sanzioni e persecuzioni. uesta libertà potrebbe essere in teoria riserva- ta a una sola religione, e così è stato spesso nella storia, ma, dal punto di vista etico, come pure da quello pratico, in una società complessa come la nostra (ma per l’ebraismo è così fin dalla di- spersione nella diaspora, cioè da millenni) non può esserci una libertà religiosa isolata, riservata a una singola confessione, a di-

scapito da tutte le altre: non sarebbe più una libertà, bensì un obbligo imposto con la violenza dello Stato, che perciò mette- rebbe in dubbio l’autenticità dell’adesione dei fedeli e degenere- rebbe in adempimento burocratico mal tollerato.

È questa la libertà religiosa, che potremmo definire

esterna, per cui valgono le considerazioni introdotte nel pen-

siero europeo da Baruch Spinoza (Trattato teologico-politico,

potente e braccio teso”: queste sono ovviamente metafore, come per esempio sostiene Maimonide, ma rendono concreta

la nozione di “presenza”. Non sempre tale presenza immediata sembra opportuna, rispettosa, realistica per il testo della To- rah o alla comunità che vi si raduna attorno. Non sempre la

divinità appare abbastanza “vicina” da poter essere messa di- rettamente in gioco nella narrazione. Vi sono gesti e parole che appaiono frutto della volontà divina ma che non coinvolgono direttamente la Divinità, la quale, se fosse del tutto “presente”, potrebbe esservi in qualche modo rinchiusa, oggettivata, rei- ficata al limite dell’idolatria. Così per esempio nella teofania del roveto ardente. La narrazione fa ricorso allora a interfacce, mediazioni, concretizzazioni di una missione uesto è il signi- ficato “mediatico” degli angeli nella Bibbia.

obbligatoria dell’adesione a una religione generalmente sfugge.

Ma essa è centrale, soprattutto in quelle tradizioni – innan- zitutto quella ebraica, di cui mi occupo soprattutto in questo libro – che consistono non tanto in una fede, cioè in un parti-

colare atto passionale/cognitivo, ma in una pratica, ovvero in

un sistema di vita regolato da norme peculiari.

Nell’ebraismo la forma di vita è definita minuziosa- mente dalla Torah e dall’insegnamento dei maestri: si tratta di

norme rituali, ma anche di regole alimentari, matrimoniali e sessuali, di proprietà, sociali ecc. I rapporti interumani dunque sono altrettanto appartenenti alla sfera “religiosa” che quelli con il divino, ed entrambi sono sussunti sotto la nozione di

dat (letteralmente, “legge”), che è il termine della tradizione

ebraica più vicina al lessema europeo “religione”: una paro- la chiaramente inadeguata al caso ebraico, quest’ultima, che certamente andrebbe sostituita con un concetto più ampio e comprensivo, come la wittgensteiniana “forma di vita”, ma che continuo a usare per semplicità. L’ebraismo è dunque una “re- ligione” di comportamenti più che di opinioni. Le nozioni di “credo” e di “dogma” arrivarono in questa tradizione culturale molto tardi, solo nel Medioevo, probabilmente per imitazione del Cristianesimo e dell’Islām, soprattutto nel XII secolo per opera di Maimonide, che codificò in tredici principi la “fede” ebraica: una proposta che però non prevalse mai del tutto.

In realtà, come spiega Martin Buber (1950), la parola ebraica tradotta con “fede” è emunah, la stessa radice di amèn,

che non indica primariamente l’atto cognitivo del “credere che”1, ma piuttosto il rapporto personale con la Divinità, la

1 “Fede è sustanza di cose sperate /e argomento de le non parventi;” Dante

Par., XXIV, 64-66, che riecheggia quel che dice Paolo di Tarso in Ebr.

1670) e John Locke (A Letter Concerning Toleration, 1685): la

pace sociale e la sicurezza dello Stato richiedono la sincerità del

vincolo politico, che a sua volta presuppone la libertà di culto,

cioè la possibilità di esprimere quello specifico legame con il divino che l’individuo avverte nella sua coscienza. Se questo dovesse essere occultato o falsificato, perché interdetto dalle leggi dello Stato, si instaurerebbe un regime di falsità che ine- vitabilmente inciderebbe anche sulla lealtà politica del cittadi- no, essendo inoculato nella sua coscienza.

Anche se il tema è stato oggetto di aspri dibattiti e ter- ribili spargimenti di sangue e spesso nella storia è stato regola- to in maniera restrittiva ed iniqua, oggi questo punto sembra chiaro a tutti in Occidente, anche agli eredi di religioni e isti- tuzioni che, in passato, hanno aspramente combattuto questa libertà. I paesi in cui l’organizzazione del culto non è libera o è proibita a certe confessioni – come in buona parte del mondo islamico, in Cina ecc. –, appaiono all’opinione pubblica odio- samente oppressivi e incuranti dei diritti umani, salvo forse che ai portatori di quelle forme di relativismo estremo (qual- cuno l’ha chiamato “razzismo umanitario”), per cui le nostre libertà non sarebbero adatte alle culture non occidentali, che, essendo diverse, non dovrebbero essere “obbligati alle nostre

libertà”: un ossimoro odioso su cui non vale la pena di discute- re. La libertà di religione, in questa sua dimensione esterna, ci

appare come un diritto soggettivo universale, che include na- turalmente la possibilità legale di cambiare religione o di non averne affatto.

Un problema nasce, però, se si considera la relazione

interna che il fedele ha con la sua religione, il cui carattere sog-

gettivamente obbligatorio, e dunque non libero, non può es- sere trascurato. L’importanza di questa natura implicitamente

valore contrattuale2, rischia di annullare il senso dell’accetta-

zione della Rivelazione, quel famoso na‘aseh v’nishmah (“fare-

mo e ascolteremo”) contenuto in Esodo XXIV,73. uesto pro-

blema non sfugge all’analisi del Talmùd. Nelle righe seguenti

si legge infatti:

‘R. Ahà bar Ya‘aqòv ha osservato, ‘uesto fornisce la base per una protesta forte contro [l’obbedienza alla] Torah’4. Ravà dis-

se: ‘Sia come sia, hanno accettato nei giorni di Ahashveròsh, come è scritto: “gli ebrei hanno osservato e accettato” (Ester IX,27); hanno osservato ciò che avevano già accettato’.

Solo in seguito a in seguito a un genocidio minacciato e sventato quasi per caso, sostiene in sostanza Ravà, gli ebrei avrebbero accettato davvero la Torah, praticandola dopo aver-

la trascurata, anche se di questo nel testo del Libro di Ester non

si parla5. Anzi, si insegna che esso è un’eccezione inquietante

nel canone ebraico, perché il Nome divino non vi è mai men- zionato. Il punto significativo qui per noi è che, accennando a

2 Rambam (Hil. Teshuvah 5:4).

3 Del resto, a guardar bene, l’anticipazione dell’obbedienza allo studio e

alla discussione, che è il significato di questa locuzione, allude anch’essa all’assunzione di un obbligo.

4 Dato che, secondo la normativa ebraica, non vi possono essere contratti

sottoscritti sotto costrizione, e l’essenza della Torah è vista come un patto

(brìt) fra Dio e Israele, un rapporto dunque, se pur molto particolare, di

natura contrattuale.

5 In realtà ciò che gli ebrei accettano per sé e i propri discendenti, nel ver-

setto citato del Libro di Ester (IX,27), non è la Torah, ma la festa di Purìm.

Si tratta di un esempio interessante di ermeneutica talmudica “fuori con- testo”, che sfrutta una certa somiglianza con il “faremo e ascolteremo” dell’Esodo. Per un’analisi del testo, vedi un altro capitolo di questo libro.

“fiducia” in essa e, ancor più, la “fedeltà” o la “fermezza” di comportamento che la sostiene. Dunque, dal punto di vista ebraico, l’adesione alla religione non ha a che fare con le cose che “si sperano e non si vedono”, ma è soprattutto accettazione di un modello di vita, l’impegno assunto e rispettato di seguire certe leggi, un’osservanza. Il che, naturalmente, comporta una restrizione dei comportamenti possibili: aderire all’ebraismo, da questo punto di vista, comporta una rinuncia a una parte della propria libertà, per esempio alla libera scelta del cibo da consumare. Ecco che dal punto di vista interno, la religione non è solo libertà ma anche obbligo. Un tema delicato, reso

ancora più problematico non solo dal fatto che tale rinuncia si presenta per la maggior parte dei fedeli a sua volta come previa, in quanto ereditata dai genitori e dunque non libera; ma anche perché essa è storicamente obbligatoria, intimamente legata com’è alla costituzione stessa del popolo ebraico. Un midràsh

contenuto nel trattato Shabbat del Talmùd babilonese (88a)

lo mette in evidenza con un’immagine straordinaria:

“E si fermarono sotto il monte” (Esodo XIX,17). R. Avdimi bar

Hama bar Hasa ha detto: uesto insegna che il Santo, benedet- to Egli sia, ha rovesciato la montagna su di loro come una botte, e ha detto loro: ‘se accettate la Torah, bene; ma se non lo fate,

questa sarà la vostra tomba’.

Dunque, i saggi del Talmùd intuiscono una costrizione

divina nel momento stesso della Rivelazione. uesta minaccia, secondo la legge ebraica per cui solo le scelte volontarie hanno

11.1: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”.

con le creature e ha detto loro: ‘Se Israele accetterà la Torah,

esisterete, ma se non lo fa, tornerete indietro nel tohu vavuhu’8.

Tutto ciò è espresso nel solito linguaggio figurato del

midràsh, ma vale la pena di leggere la spiegazione comples-

sa che ne trae la tradizione successiva. Scrive il direttore del Collegio Rabbinico Italiano, rav Gianfranco di Segni, citando un’opera del celebre Maharal9:

Il Maharal di Praga dice (in Tiferet Israel cap. 32, e altrove) […]

che la Torah è qualcosa di troppo importante per l’esistenza del

mondo intero, perché venga lasciata alla libera volontà del po- polo ebraico, o di qualsiasi altro popolo. […] Gli ebrei furono quindi costretti ad accettare la Torah per il bene di tutti, di loro

stessi come di tutto l’universo. Il mondo senza la Torah non

poteva sussistere e non era quindi possibile rischiare di mettere a repentaglio l’esistenza del mondo intero lasciando la libertà di scelta agli ebrei: questi dovevano essere obbligati in tutte le maniere ad accettare la Torah. Il Maharal aggiunge anche che

questa “violenza” che gli ebrei subirono fu in realtà un atto d’a- more che D-o fece verso di loro: secondo una norma della To- rah (Deuteronomio XXII,28-29), colui che violenta una donna

non sposata è obbligato poi a prenderla in moglie, e non potrà mai più ripudiarla. D-o, quindi, che in un certo senso violentò il popolo d’Israele, che, come è noto, è paragonato alla “sposa” di D-o, non potrà mai più respingerlo e disconoscerlo ed è “co-

8 Il vuoto senza forma che è la condizione iniziale della Creazione, evocato

in Genesi I,3.

9 Rabbì Yehudah ben Betzalel Loew, grande teologo, erudito e studioso

di abbalah, rimasto celebre nella leggenda popolare come il creatore del

Golem, fu rabbino capo di Praga nel XVI secolo, nel corso della ‘rinascen- za’ praghese sotto il regno di Rodolfo II d’Asburgo.

un tentativo di genocidio, il nostro brano talmudico lega im- plicitamente l’accettazione della Torah alla sopravvivenza del

popolo ebraico. Anche la montagna rovesciata era una minac- cia, ma nel caso narrato in Ester non si tratta di una punizione

divina, bensì dalla persecuzione umana. Accettare la diminu- zione della libertà sarebbe dunque condizione per preservare la libertà più fondamentale di tutte, quella dell’esistenza6. Il

che corrisponde perfettamente al dato sociologico per cui il rispetto delle medesime regole di comportamento quotidiano è stato funzionale alla preservazione dell’identità ebraica. Ma nell’accettazione della Torah, secondo i maestri del Talmùd, è

in gioco molto di più, una decisione metafisica fondamentale. Prosegue infatti il midràsh:

Resh Lakìsh ha detto: Perché è scritto: “e fu sera e fu mattina: il sesto giorno”, qual è lo scopo di quell’aggiunta di ‘il’?7 Essa

insegna che il Santo, benedetto Egli sia, ha stipulato un patto

6 Ricordo a questo proposito un altro testo dello stesso periodo (il Mi-

dràsh Rabbah su Shemòt XLI,9: “Che cosa significa libertà? Rabbì Yehu-

dah dice: libertà dai regni stranieri. Rabbì Nehemiah dice: libertà dall’an- gelo della morte. Ma i nostri maestri dicono: libertà dalle sofferenze (R. Yonah. cit. in Detti di rabbini, iqajon, Bose 1993, p. 188, una traduzio-

ne italiana annotata dei Pirqé Avòt).

7 Nella cronologia divina dei giorni della creazione questo è il solo caso

in cui compare l’articolo determinativo he. Nel suo commento Rashì ac-

cenna da un lato al valore numerico della lettera he che vale 5, come i

libri della Torah; dall’altro congiunge questa clausola “il sesto giorno” col

versetto successivo “furono portati a compimento il cielo e la terra e le loro schiere”, il che è molto facile perché il testo liturgico non contiene né punteggiatura né indicazioni di versetti e capitoli e lo legge come un’allu- sione al sesto giorno del mese di Siwan, cioè la data della rivelazione del

rispetto a qualunque libertà, l’obbedienza alle norme (mitzvòt)

imposte nella Torah e spesso rappresentate dalla letteratura ebrai-

ca come un “giogo”, volontario e obbligatorio assieme. Su questo punto il dibattito nel mondo ebraico è sempre stato vivacissimo, fra quelli che, come in tempi recenti fece Yeshayahu Leibowitz (1987), riducono in sostanza l’ebraismo all’obbedienza, e coloro che, come David Hartman (1988), sottolineano piuttosto il ca- rattere simmetrico e consensuale del patto.

Un altro aspetto che rende ancora più problematica nell’ebraismo la nozione interna di libertà di religione è il fatto

che il soggetto contraente il patto (sia esso libero o costretto, in questo caso non importa), non è il singolo individuo, ma il popolo. La dimensione collettiva in cui l’ebraismo vive il rappor-

to con il divino – e, dunque, tutta la sfera che l’Occidente, ma anche l’Oriente islamico, chiama religiosa – è continuamente confermata, nella liturgia e nella preghiera, dalla richiesta di un

quorum di dieci adulti (miniàn), necessario per la recitazione di

tutte le preghiere12 in cui vi sia la santificazione del Nome di-

vino. In moltissime occorrenze, il soggetto orante è insistente- mente declinato al plurale in testi liturgici quali, per esempio, la confessione di colpa – Viddùy –, lo Shema‘ Israel, o, ancora,

nella preghiera che conclude quasi tutte le funzioni precisando la natura esatta del culto, l’‘Alenu. È al popolo ebraico nel suo

complesso che si imputa l’obbligo del rispetto dei precetti della

Torah e del culto, con la conseguente responsabilità reciproca13.

12 Uso questo termine per semplicità, anche se esso descrive molto inesat-

tamente la natura della maggior parte degli atti di culto dell’ebraismo, in particolare di quelli di cui sto parlando. Vedi il capitolo successivo dedi- cato a questo tema.

13 È il principio molto noto “Kol Israel ‘arevìm zeh ba-zeh”, ossia “ogni

ebreo è garante di ogni altro ebreo” (Shavu‘òt 39a). Vale la pena di citare,

stretto”, per così dire, dalla Sua stessa Torah a mantenere un

legame particolare con il popolo ebraico10.

Sono qui enunciati due altri limiti interni alla libertà

religiosa dell’ebreo: il primo è relativo al senso metafisico della Rivelazione e il secondo al rapporto che Israele ritiene di avere con il suo Dio. Partiamo dal primo. Nella concezione ebraica, la Torah non è “storia della salvezza”, come sostengono molti

teologi cristiani, cioè percorso per uscire dalla condanna del “peccato originale” (l’episodio di Adamo ed Eva, con l’albero del giardino ‘Eden) che nell’ebraismo non ha questo ruolo. È al contempo, simultaneamente, una sorta di progetto generale

dell’universo e la cronaca della costruzione del popolo ebraico e della sua liberazione nella sua terra. La Torah appare, in un

certo senso, precedente alla Storia e alla sua stessa scrittura, fon-

damento del mondo, “radice”11, sì che la sua rivelazione costi-

tuisce il culmine e, insieme, il punto di partenza dell’esistenza ebraica. Non aderire a questo momento, a cui spiritualmente partecipa ogni ebreo, significa sottrarre al mondo il suo senso essenziale. L’obbligo della sua accettazione è, quindi, nei con- fronti della Creazione nel suo complesso.

Conseguenza di questo modo di vedere è il secondo fatto, cioè il rapporto, che non si può rompere, fra Israele e la Divinità, un rapporto che è il senso profondo dell’ebraismo e la ragione del- la sua vita. Tutto ciò spinge ovviamente nel senso di privilegiare,

10 http://www.kolot.it/2011/06/07/shavuot-la-montagna-rovesciata-e-li-

dentita-ebraica/.

11 Molti commentatori mettono in relazione il bereshìt del primo versetto

della Torah, usualmente tradotto “in principio”, con la Torah, che altrove

è definita “reshìt”, cioè fondamento o radice. Vedi i primi due capitoli di

“isolato” è, in realtà, sempre sottoposto. Dunque, quest’idea di una libertà del singolo è in fondo soltanto un modello ideologi- co, certamente rispettabile, ma non esattamente realistico.

Da un certo punto di vista, la libertà di coscienza pos- siede un’influenza più vasta di quella religiosa, perché si esten- de ad argomenti politici, scientifici, artistici, culturali. Da un altro punto di vista, e, soprattutto, nel caso ebraico, la libertà religiosa è più profonda ed esigente, perché riguarda non solo le convinzioni interiori ma anche le pratiche, i riti e, ancor più, i modi di vivere. E questi ultimi, in primo luogo, difficilmen- te possono essere compiuti in solitudine. Richiedono dunque l’intervento di altre libertà: quella di espressione, di manife- stazione, di organizzazione, di amministrazione giuridica ed economica e certamente anche un minimo di dignità e di si- curezza. Nell’estrema miseria e nel costante pericolo di vita dei lager nazisti, la libertà di coscienza poteva anche non essere direttamente minacciata, perché i carnefici non erano interes- sati all’opinione delle vittime, ma volevano solo prendere vita, proprietà, lavoro, dignità. Certamente, tuttavia, la libertà reli- giosa era umiliata.