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Tuttavia, la tradizione ebraica si colloca meglio nel seno di una tradizione iconoclasta moderata, piuttosto che all’interno di quella estrema. Ciò accade non solo perché la sua interdizione alla rappresentazione appartiene al tipo B) e non C) o D), per- mettendo in generale immagini di soggetti vegetali e animali; né soltanto perché, come abbiamo visto sopra, l’interdizione della

Torah fa riferimento a una precisa terminologia di pesel, vale a

dire, immagini incise o intagliate in contrapposizione a quelle di- pinte, il che potrebbe essere la ragione per cui si ritrovano alcuni esempi di ricche immagini bidimensionali che decorano antiche sinagoghe, come, ad esempio, nel caso della famosa sinagoga di Doura Europos nell’odierna Siria, risalente al terzo secolo.

Ancor più rilevante è il fatto che un complesso sistema di immagini mirante a rendere la trascendenza presente, anche se non la rappresenta letteralmente, non è solo ammesso, bensì prescritto nella Torah. È il Tabernacolo (mishkàn) descritto

in Esodo XXV-XXVII e XXXV-XL. ui Dio ordina un luogo

di culto mobile (mishkàn (chiamato talvolta anche santuario, miqdàsh8, il che consente che molte di queste prescrizioni sia-

no poi estese al Santuario di Gerusalemme): “Mi facciano un santuario, sì che Io possa dimorare in mezzo a loro9. Esatta-

8 Dalla radice k-d-sh che indica santità, separazione.

9 Spesso, nella tradizione esegetica ebraica, si osserva che Dio non pro-

ne o somiglianza con esseri viventi (temunah kol samel) e, in par-

ticolare, qualsiasi immagine scolpita (pesel). Ma nel luogo più sa-

cro della liturgia ebraica, il kòdesh kodashìm o sancta sanctorum,

dove Dio “si incontrerà” con Mosè e “parlerà con lui”, si devono collocare due statue, o “opere scolpite”, con tratti umani (“fac- ce” e animali “alati”)12. Di più, esse sono d’oro, contrariamente

alla proibizione di Esodo XX,23: “Non vi farete accanto a Me déi

[ma la parola è elohè, che potrebbe anche significare più general-

mente anche “esseri potenti”, “giudici” ecc.] d’oro o d’argento. Non ne farete per voi”13. uesta difficoltà è sottolineata da un

Decalogo di ‘Non farti un’immagine scolpita, né alcun tipo di rappresen-

tazione di alcunché che sia nel cielo o sulla terra’ (Esodo XX,4). Come

mai Egli ha comandato loro di fare ciò che li aveva ammoniti a evitare?” (Abravanel 2012). Nel trattare questa sfida, il filosofo Yehudah Ha-Levì sostiene (Kuzarì I:97) che il vitello d’oro era un chiaro caso di sfida ai

Dieci Comandamenti perché era stato fatto senza autorità da parte di per- sone che avevano abbandonato la speranza in Dio e cercato un’alternativa idolatra. I cherubini, tuttavia, non erano un sostituto per Dio, ma sempli-

cemente un aiuto visivo per coloro che avevano bisogno di un orienta- mento concreto nel culto […]. Abravanel sottolinea che i cherubini non erano oggetti di culto, ma simboli poetici che rappresentavano il dovere di vivere la propria vita con la Torah. Ma, come discuterò più avanti, un’altra

soluzione è possibile.

12 Il testo ci dice che tutte queste cose sono state realizzate per precisione:

“Ed egli (Bazelel) fece due cherubini d’oro: li fece lavorati a martello sulle due estremità del coperchio: 8 un cherubino ad una estremità e un cheru- bino all’altra estremità. Fece i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio, alle sue due estremità. 9 I cherubini avevano le due ali stese di sopra, pro- teggendo con le ali il coperchio; erano rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini erano rivolte verso il coperchio.” Esodo XXXVII,7-9.

13 Ecco una spiegazione rabbinica: ‘Perché è stato detto questo verso?’

Dato che è scritto ‘farai due cherubini d’oro’ (XXV,18), si potrebbe dire:

dettagli, anche i più minuti, per esempio le regole sui pali utiliz- zati per il trasporto: per esempio, non devono mai essere staccati. C’è una bella Lettura talmudica di Lévinas (1982, 1994), in cui il filosofo interpreta il divieto di rimuovere i pali come l’indica- zione che la legge contenuta nell’arca dovrebbe rimanere sempre scollegata da qualsiasi punto nel tempo o nello spazio, pronta per muoversi sempre, e quindi universalmente applicabile. Ma il tema che mi interessa qui è un altro, un modo molto problemati- co prescritto per decorare la copertura dell’arca:

18 Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due

estremità del coperchio. 19 Fa’ un cherubino a una estremità e un cherubino all’altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. 20 I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivol- te verso il coperchio. 21 Porrai il coperchio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che Io ti darò.

22 Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te

da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, riguardo ai Miei comandamenti per il popolo di Israele (Esodo XXV,18-22).

Dobbiamo rilevare qui un’enorme contraddizione11. La

Torah proibisce, come abbiamo visto, qualsiasi rappresentazio-

11 uesto problema non è affatto nuovo, ed è stato per esempio affronta-

to da alcuni commentatori classici importanti, come Yehudah Ha-Levì e Yitzhàq Abravanel, anche se non è mai diventato popolare nel dibatti- to della teologia ebraica. Cito qui il riassunto proposto da Apple 1995: “Abarvanel chiede […] ‘Per quanto riguarda i cherubini che il Signore benedetto comandò di realizzare sulla copertura dell’arca, sembrerebbe che in tal modo si trasgredisca in tal modo l’ingiunzione contenuta nel

speciale del Tempio. Il problema che li riguarda non è dunque legale, ma teologico e quindi semiotico: qual è il senso di questa

eccezione a una delle regole più importanti riguardanti la tra- scendenza nella religione ebraica? Come potrebbe essere spie- gata?

L’iconologia del coperchio dell’Arca e dei cherubini sulla sua sommità, che troviamo raffigurati in molti luoghi, è abbastanza stabile14. Tuttavia, le figure dei cherubini furo-

no modificate in qualche misura nel più recente e più famoso luogo sacro della religione ebraica, il Santuario di Salomone, costruito cinque secoli dopo il Tabernacolo seguendo la cro-

nologia tradizionale, e leggermente – ma significativamente – diverso dal suo prototipo mobile. Lì, leggiamo, i cherubini erano fatti di diverso materiale: legno, invece di oro, e in diver- se dimensioni, molto più grandi, alti circa 4 metri e mezzo, con anche una diversa posizione15:

23 Nella cella fece due cherubini di legno di ulivo, alti dieci cu-

biti. 24 L’ala di un cherubino era di cinque cubiti e di cinque cubiti era anche l’altra ala del cherubino; c’erano dieci cubiti da una estremità all’altra delle ali. 25 Di dieci cubiti era l’altro che- rubino; i due cherubini erano identici nella misura e nella for- ma. 26 L’altezza di un cherubino era di dieci cubiti, così anche

14 Ma è difficile capire esattamente la sua origine. Giuseppe Flavio testi-

monia che “nessuno può dire, o persino congetturare, quale fosse la forma di questi cherubini” (Antichità 8.3.3).

15 I cherubini erano anche una decorazione diffusa nel Tabernacolo: sul

velo tra lo spazio santo e il Santo dei Santi e sugli arazzi (Esodo XXVI,1 e XXXVI,8); nel Santuario di Salomone furono incisi su muri e porte (1 Re VI,29-35), e sulle basi del grande bacile chiamato “mare fuso” (1 Re IX,29).

Si trovano anche nelle visioni di Ezechiele del Santuario del futuro (Eze- chiale XLI,18-25) e nella sua profezia su Tiro (Ezechiele, XXVIII,13-16).

altro dettaglio: le uniche altre figurazioni in questo intero edifi- cio e nella liturgia ebraica sono, di nuovo, i cherubini: “Inoltre farai il tabernacolo con dieci tende di bisso ritorto di lino e blu, viola e cremisi filati; li farai con cherubini abilmente lavorati in loro” (Esodo XXVI,1). È utile specificare qui che il Tabernacolo

e il Santuario erano esenti da molte regole e interdizioni valide

ovunque. Per esempio, il Sommo Sacerdote in determinate cir- costanze doveva indossare tessuti di lana e lino, che salvo questa eccezione sono esplicitamente interdetti a tutti; i sacrifici erano eseguiti e gli strumenti musicali suonati durante lo Shabbàt e le

Feste, anche se questo tipo di le attività non erano consentite altrove in quei giorni e così via. uindi i cherubini sull’arca pro- babilmente non erano visti come una trasgressione ma piuttosto come un’eccezione fra le molte dovute alla condizione del tutto ‘Farò quattro cherubini’, ma la Torah proibisce: ‘[non farai…] déi d’oro’

– . Se fai più di due cherubini, essi sono come déi d’oro… ‘né li farai PER VOI’ – In modo che nessuno pensi che, dal momento che la Torah ha

permesso di [fare i cherubini] nel Santuario, anche lui potrà farne [im- magini scolpite] nelle sinagoghe e nelle case di studio, la Torah afferma

‘né lo farete PER VOI.’ “(Mekhilta de-bachodesh capitolo 10). “I nostri saggi si chiedono perché fosse assolutamente necessario proibire esplicita- mente la creazione di divinità d’argento e d’oro. uesto avrebbe potuto essere compreso dal divieto generale di creare immagini scolpite. I Saggi rispondono che questo versetto è una risposta al comandamento di fare i cherubini, che sono un’eccezione alla regola. Non si può concludere dal comandamento relativo ai cherubini che le immagini d’oro siano am- missibili. È vietato aggiungere un cherubino nel tabernacolo ed essi sono proibiti in qualsiasi luogo fuori dal tabernacolo. uesto è dedotto dalla prescrizione specifica del versetto “né lo farete PER VOI”. Dio afferma; mentre Io lo permetto nel Mio Tempio, vi proibisco di farlo per voi stes- si”. Rav Zvi Shimon, “The Mysterious Keruvim” https://etzion.org.il/en/ mysteriouskeruvim.

uno avesse guardato verso il pubblico e solo uno avesse guarda- to l’altro cherubino. ci sarebbe spazio per affermare che fosse stato fatto per essere adorato. Invece, dal momento che si ri- volgevano l’uno verso l’altro, ed entrambi guardavano verso il coperchio dell’Arca dietro cui si trovava la presenza di Dio e la

Torah, e inoltre potevano essere visti solo dal Sommo Sacerdo-

te […] una volta all’anno [nel Giorno dell’Espiazione], è chiaro che erano lì solo per la decorazione, come i servi, come è scritto ‘Seraphìm’ [angeli] presenti a Lui [Dio]’(Isaia VI,2)”17.

uesta discussione è utile come primo indizio sul signi- ficato dei cherubini e sulla loro utilità. Ma, prima di esplorare ulteriormente questa direzione, è certamente utile raccogliere qualche informazione in più su queste creature enigmatiche.

Il loro nome si trova numerose altre volte nella Bibbia e

nella tradizione ebraica, a parte i passaggi già citati. Appaiono, per la prima volta, come guardiani in Genesi III,23, posti da

Dio “a est di ‘Eden, armati con la spada sfolgorante, a custodi- re la via dell’Albero della Vita “18. Il profeta Ezechiele descrive

i cherubini come una massa di creature viventi, ognuna con quattro facce:

17 Citato in RavZvi Shimon, “The Mysterious Keruvim” https://etzion.

org.il/en/mysterious-keruvim.

18 Rashi osserva che “sono gli angeli di distruzione”. All’uomo viene detto

che alla fine deve morire e viene bandito dal paradiso. Può solo tornare al paradiso dopo la morte, e prima di farlo, deve passare da questi angeli del purgatorio. Anche i profeti devono passare questi angeli per avvici- narsi all’Albero della Vita e ottenere una visione. uesto è il significato dei cherubini sull’Arca e quelli visti nella visione di Ezechiele (rav Bachya. Per altre opinioni, vedi l’Enciclopedia, ebraica sub voce “Cherub”, http:// www.jewishencyclopedia.com/articles/4311-cherub.

quella dell’altro. 27 Pose i cherubini nella parte più riposta del tempio, nel santuario. I cherubini avevano le ali spiegate; l’ala di uno toccava la parete e l’ala dell’altro toccava l’altra parete; le loro ali si toccavano in mezzo al tempio, ala contro ala. 28 Erano anch’essi rivestiti d’oro (1 Re VI,23-28).

uest’ultima differenza, sottolineata nella versione pa- rallela di 2 Cronache XIX è discussa e trattata come pienamen-

te significativa dal Talmud:

Come erano collocati? R. Yohanàn e R. El‘azàr [sono in disputa sul tema]. Uno dice: “Stavano l’uno di fronte all’altro”. E l’al- tro dice: “Le loro facce erano rivolte verso l’interno. “Ma a chi dice che stavano di fronte, [potrebbe essere obiettato:]: “Non è scritto “E Le loro facce erano rivolte verso l’interno”? [uesta non è] una difficoltà: il primo caso [avveniva] nel momento in cui Israele obbediva alla volontà dell’Onnipresente; il secondo [accadeva] nel momento in cui Israele non obbedire alla volon- tà dell’Onnipresente16.

La posizione dei cherubini è un tema abbastanza esplo- rato nell’ermeneutica. Per esempio, Chizkuni (Rabbì Chizkiya ben Manòach, Francia, metà del XIII secolo) si concentra su questa stessa domanda:

“Le loro facce [i cherubini] si guardano l’un l’altro” (Esodo XXV,20) – ueste parole provano che essi non erano intesi

come immagini da adorare: se ce ne fosse stato solo uno – o se

16Bavà Bathrà 99a. Cfr. la versione dello Zohar (2: 278a): “I cherubini,

quando Israele aveva merito, stavano faccia a faccia, intrecciati l’uno con l’altro, e, quando non aveva meriti, volgevano le loro facce lontane l’una dall’altra”.

che erano cherubini.’ (Ezechiele X,20). Ecco perché è chiama-

to “Colui che siede sui cherubini” (I Samuele IV,4), poiché essi

spiegano le ali in alto per insegnarci che sono il Carro che por- ta la Gloria… I cherubini che Ezechiele vide portare la Gloria sono il prototipo dei cherubini, e quelli che erano nel Taber- nacolo e nel Santuario erano simili a loro “. Così il commento

del Ramban a Esodo XXV,21.

Si ritrova un’evidente variabilità nella forma e nella fun- zione dei cherubini, che potrebbe essere spiegata dal fatto che la parola stessa è generica ed è stata probabilmente importata in ebraico da altre lingue e poi interpretata in diversi modi. In generale, la parola cherubino è rappresentata dai linguisti come

una parola presa in prestito dal kirubu assiro, che viene da

karâbu, “essere vicino”; quindi, significa “vicini”, “familiari”. Ad esempio, servi, guardie del corpo, cortigiani. Era comunemente usato per gli spiriti celesti che circondano da vicino la Maestà di Dio e Gli prestano un servizio da vicino. Di qui è venuto a significare “Spirito angelico” […] La parola è stata messa in con- nessione con l’egiziano Xefer per metatesi: da Xeref = K-r-bh.

Una simile metatesi e un analogo gioco sul suono ricorre senza dubbio tra Kerùv, Rakav, “cavalcare”, e Merkevah, “carro”20. In

una fonte midrashica è data un’etimologia popolare secondo cui la forma singolare kerùv significa ke-ravya, “come un bam-

bino piccolo”: di qui la rappresentazione in arte e letteratura dei cherubini come piccoli angeli (Arendzen 1908)21.

20 Secondo Shadàl (Rabbì Shemuel Davìd Luzzatto, Padova 1800-1865), l’e-

timologia della parola kerùv supporta questa interpretazione. La parola kerùv

ha la radice ebraica a tre lettere, dai suoni, “c” “r” e “v”, che è un gioco sulla

radice “rachav”, da guidare. I keruvìm sono le creature su cui Dio “cavalca”.

21 Cf. Sukkah 5b: “ual è la derivazione di cherubino? R. Abbahu disse:

“Come un bambino”, perché in Babilonia chiamano Rabia il bambino. Il una di leone, una di bue, una d’aquila e una d’uomo, la statura e

le mani di un uomo, i piedi di un vitello e quattro ali. Due ali si estendono verso l’alto, incontrandosi sopra e sostenendo il tro- no di Dio, mentre le altre due raggiungono il basso e coprono le creature stesse. Non girano mai, ma vanno “dritto in avanti” come le ruote del loro carro; e sono pieni di occhi “come carbo- ni ardenti di fuoco” (Ezechiele I,5-28; IX,3, XI,22).

uesta immagine aerea e di nuovo terrificante dei che- rubini ci permette di comprendere il versetto in 2 Samuele XXII,11 (ripetuto in Salmi XVIII,11): “Cavalcò un cherubino e

volò; È stato visto sulle ali del vento19”. Sebbene difficili da com-

prendere, questi versi implicano che i cherubini sono le creature su cui il Signore “viaggia”. Il Rambàn (Rabbì Mosheh ben Na- chmàn, Spagna, 1194-1274) concorda sul fatto che i cherubini dell’Arca rappresentano quelli descritti nelle visioni profetiche.

Poiché Egli aveva comandato che ‘i cherubini stendessero le ali in alto’, ma non aveva detto perché dovevano essere fatti del tutto, e quale funzione avrebbero dovuto servire nel Taberna- colo, e perché dovevano essere in quella forma, ora disse: ‘e met- terai la copertura dell’Arca’ con i cherubini, poiché sono uniti, ‘sopra l’arca’, e ‘nell’arca metterai la Testimonianza che ti darò’, così che là sia per Me un trono di gloria, perché là incontrerò te e farò dimorare su di loro la Mia gloria, ‘e parlerò con te dall’al- to della copertura dell’arca, tra i due cherubini’ perché essa è ‘l’arca della Testimonianza.’ (Esodo XXV,22).

L’Arca è quindi identica al Carro divino che vide il profeta Ezechiele, di cui disse: “ueste sono le creature viventi che vidi sotto il Dio di Israele presso il fiume Chebar, e sapevo

forze impersonali e invisibili (l’Angelo della morte” che uccide i primogeniti in Egitto), e così via. In generale, il loro lavoro è un atto di comunicazione, più o meno intrecciato con altri tipi di azioni simboliche o efficienti. Il loro nome ebraico, malachìm,

con il significato di “messaggero,” tradotto in greco dalla LXX come angheloi, è stato ereditato dalle lingue occidentali. uindi

possiamo considerare la definizione di angeli più operazionale che essenzialista e lo stesso si può dire a proposito dei cherubini, che sono generalmente trattati come una categoria di angeli23.

uesto carattere operazionale definisce non solo i cherubini “viventi” che sostengono il carro divino o difendono l’Eden, ma anche i cherubini “lavorati” o “fatti” sulle tende del tabernacolo, sul coperchio dell’arca, o nel tempio di Gerusalemme.

Osserviamo che nel testo biblico e nelle discussioni tal- mudiche, questi cherubini fatti a mano non sono mai definiti come statue, immagini o rappresentazioni di creature ange- liche, ma semplicemente chiamati “cherubini”. Ad esempio: “Farai due cherubini d’oro” (Esodo XXV,18); “Nell’interno del

Santuario fece due cherubini di legno di ulivo” (1 Re VI,23), e

così via. In teoria, questa potrebbe essere solo una descrizione semplificata, come quando ci riferiamo a un dipinto di Leo- nardo come “Monna Lisa” o notiamo che “il Mosè di Miche- langelo ha le corna”. Ma una delle caratteristiche principali dell’ermeneutica ebraica è il suo approccio letterale e attento a ogni dettaglio del testo; e questo riferimento ai cherubini stessi invece che alle loro rappresentazioni è troppo insistito per essere considerato semplicemente un riferimento testuale

23 Per Maimonide, i cherubini rappresentano una specie di ospiti angelici

[Jacobs 1995, citato in http: // myjewishlearning.com/texts/Bible/Torah/ Exodus/The_Tabernacle/Cherubim.shtm].

Vale la pena osservare che nell’etimologia della parola

cherubino troviamo la stessa tensione ossimorica tra la trascen-

denza e la presenza che è l’oggetto di studio di questo capitolo. Ciò è vero in generale per gli “angeli” – in ebraico malachìm –,

lemma che solo nel periodo postbiblico arrivò “a significare gli esseri benevolenti semidivini, familiari dalla successiva mitolo- gia e arte “(Coogan 2009). Prima erano intesi come messaggeri incaricati di una singola missione che scompaiono immediata- mente dopo di averla compiuta, o “aspetti” o “interfacce” della divinità22, privi identità personale o nome. Possono assumere il

ruolo di pellegrini (come nelle storie della visita a Mosè e Sodo- ma), di lottatori o combattenti (come nella lotta con Giacob- be,) persino diventare fuoco (il roveto ardente), personificare le

Talmud fa una distinzione tra il volto di un uomo e la faccia di un cheru- bino: quest’ultimo è molto più piccolo” [Sukkah 5b]. Martina Corgnati

mi ha ricordato che in Le nozze di Figaro, il librettista Lorenzo da Ponte,

che era un ebreo più o meno convertito, diede il nome “Cherubino” al suo personaggio (anch’esso un giovinetto che in più era molto appassionato di donne; vedremo perché questa caratterizzazione è significativa. Un’altra ipotesi è che la parola derivi da una radice accadica che significa “adorare” [Montgomery e Gehman 2001, 155]. La radice sembra anche condivisa dalla parola per “santuario” in etiopico: mekrab.

22 uesta è l’interpretazione di Maimonide [1186 1904, 2.4], ampiamente

accettata nel pensiero ebraico: “uesto porta a sua volta Aristotele al fatto dimostrato che Dio, siano gloria e la maestà a Lui, non fa le cose per con- tatto diretto. Dio brucia le cose per mezzo del fuoco; il fuoco è mosso dal movimento della sfera; la sfera viene spostata per mezzo di un intelletto