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La trascendenza della Divinità

1. I Che cos’è la trascendenza?

1.5. La trascendenza della Divinità

Ciò che per la cultura occidentale è ovviamente ed eminente- mente trascendente in quest’ultimo senso è la divinità; da qui

la contemporanea sineddoche – che è anche una antonomasia – di nominare Dio con la sua astratta qualità di “trascenden- Scoto Eriugena, Maister Eckart, Nicola Cusano e così via. ui

ha origine un diverso tipo di significato di “trascendenza”. Non è questo il luogo in cui proporre anche un veloce riassunto di questa teologia, ma è importante concentrarsi, al di là delle scelte lessicali, sulla differenza di questa linea di pensiero dall’uso che Tommaso fa di “trascendente” per indicare gli attri- buti che possono essere applicati a ogni cosa in generale. Per que- sta accezione, non vi è alcuna cosa possa essere concepita se non a condizione che questi attributi le siano applicabili. Kant parlerà di “categorie trascendentali”, avendo in mente più o meno la stessa idea: “Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti, quanto del nostro modo di cono- scere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori” (Critica della ragion pura, A12); “Non bisogna chiamare

trascendentale ogni conoscenza a priori, ma soltanto quella onde conosciamo che, e come, certe rappresentazioni, intuizioni e con- cetti vengono applicate, o sono possibili esclusivamente a priori: cioè la possibilità della conoscenza o l’uso di essa a priori” (Critica della ragion pura, B 80/A 56). Al contrario, “trascendente” è ciò

che va oltre i limiti della possibile conoscenza e quindi non può es- sere oggetto di scienza, come l’idea di Dio, dell’unità dell’universo, ecc. ui non parlerò dell’uso delle parole derivate da trascenden- za nella filosofia moderna e contemporanea, come in Heidegger (1929), che identifica la trascendenza con il Dasein, nel movi-

mento di andare oltre se stesso, o in Lévinas (1995) che oppone Trascendenza a Totalità.

1.4. Cosa intendiamo per trascendenza

C’è qualcosa di importante, anche per la nostra discussione, in questa distinzione tra “trascendente” e “trascendentale”: è ab- bastanza ovvio che ciò che principalmente interessa agli studi di

nei cieli e di volta in volta “scende”5 nel mondo o addirittura

viene “visto” da qualche parte6, ma è abbastanza evidente che

Egli non è realmente collocato nel roveto ardente o tra i che-

rubini sull’arca; solo la Sua “Presenza” o “Residenza” (questo è il significato letterale di Shekhinah, comunque si possa in-

tendere questo termine tradizionale del pensiero ebraico, po- trebbe essere percepita lì. La distinzione, molto diffusa nella tradizione ebraica, tra Dio e la Sua Presenza, a cui a volte (per esempio in Genesi XVIII,1-2 e XXXII,25) il testo si riferisce

usando la nozione di “angeli”, è già una forte indicazione del

pensiero della trascendenza – e delle difficoltà che ne derivano.

Spesso nel pensiero ebraico si afferma che Dio non appartiene a nessun luogo nel mondo, bensì Egli stesso è il luogo del mon-

do – e quindi maqòm, “luogo”, è anch’esso un Nome divino7.

Secondo questo modo di pensare, Dio è sempre essenzialmen- te al di là: oltre lo spazio e il tempo, oltre l’essere, oltre l’essenza, oltre la Sua stessa Presenza. Egli è il trascendente. Solo sulla

base di questa esperienza fondamentale, ma non comune, mol- to culturalmente specifica, di una Divinità irraggiungibile, ha

davvero senso usare il termine “trascendenza” per chiamare il divino. Non sarebbe certo il caso di Zeus o Shiva o dell’impe- ratore/dio romano. Pertanto, questa terminologia dipende da una certa intuizione teologica, che non deve essere data per scontata.

5 Per es. Genesi XI,5.

6 Attribuito al rabbino Yosef ben Halafta, un “tanna” allievo del rabbino

‘Aqivah (II sec EC) in Genesi Rabbah 68:19, e successivamente ripetuto

continuamente nella letteratura rabbinica.

7 Per una discussione sui dispositivi ottici e sui comportamenti che rendo-

no possibile questa visione, vedi il capitolo a ciò dedicato in questo libro.

za”. Ma le scelte dei nomi non sono mai indifferenti. Dobbia- mo quindi chiederci cosa stiamo realmente dicendo riferendo-

ci a Dio come “trascendenza”. Certo, quest’uso linguistico è un eufemismo reticente, una sorta di linguaggio politicamente

corretto, funzionale per non chiamare Dio con un nome che richiami una specifica tradizione religiosa. Ma riferirsi a Dio come trascendente – anche senza usare questo termine – en- fatizza nell’idea di divinità la sua differenza, la sua distanza dal mondo. Come ha scritto Leibniz, “ce qu’un inventeur est à sa machine, ce qu’un prince est à ses sujets, et méme ce qu’un père est à ses enfants” (Monadologie, § 84).

Gli dèi politeisti non sono davvero trascendenti in que- sto senso. Come è stato spesso notato, dalla Teogonia di Esio-

do fino a Blumenberg (1979), essi appaiono spesso solo come evidente espressione e personalizzazione di elementi naturali. Godono di una posizione privilegiata nel mondo, il cui aspetto principale è l’immortalità. E hanno poteri speciali. Ma sono

dentro il mondo, immanenti in esso, non davvero trascenden-

ti. Ecco perché la nozione di trascendenza è stata in grado di emergere solo così tardi nella Grecia classica e solo nella linea platonica, sulla base di una teologia non ortodossa, sull’Uno, il Bene o il “Dio”, attribuita a un uomo, Socrate, che proprio a causa di queste idee fu processato, condannato e giustiziato per asebeia, mancanza di rispetto degli déi e sacrilegio.

L’idea stessa di trascendenza di Dio arriva alla cultura occidentale, più che da questa fonte filosofica necessariamente elitaria, dalla grande diffusione della Bibbia ebraica, di cui il

cristianesimo fu il più importante – ma certamente non il solo – veicolo. Nell’immaginario biblico, Dio non è assolutamente

contenuto nel mondo, ma non è nemmeno collocato altrove;

presentato sia verbalmente sia iconicamente, perché i Nomi, gli sguardi, le immagini avrebbero l’effetto di oggettivarlo, di

colmare la distanza, chiudere l’abisso della differenza e, in que- sto modo, di indebolire la Sua trascendenza. Tale distanza e non disponibilità di Dio non è solo una condizione metafisica,

ma anche un vincolo percettivo, un limite relazionale, un confi-

ne o una soglia che ha un valore etico, e non deve essere violata.

La trascendenza è l’idea esigente di Dio introdotta nel-

la cultura occidentale dall’ebraismo. Dio non è un oggetto nel mondo. uesta idea è stata ampiamente trasmessa al cristiane-

simo e all’Islām e ora è entrata nella nostra Enciclopedia gene- rale. Ma c’è un problema in tale modo di considerare il divino: questa idea della trascendenza divina è altamente problematica

da un punto di vista comunicativo, anche senza considerare i problemi teologici che ne derivano. Com’è possibile, infatti, davvero avere una relazione – in particolare una comunica- zione – con un Dio così trascendente? Se Egli non è assolu-

tamente pertinente a questo mondo, come può agire in esso

e interagire con noi, che certamente siamo nel mondo? Come

potrebbe un Dio assolutamente trascendente compiere azioni sull’essere umano e la natura? Perché dovrebbe interessarsene,

dato che l’interesse è – non solo etimologicamente – inter esse,

“stare tra”?

Un Dio pienamente e solo trascendente forse dovrebbe essere “pigro” e “inutile” per i suoi seguaci, persino inconcepi- bile. Le risposte che le diverse religioni di trascendenza danno a questa sfida sono diverse. Ogni religione monoteista ha la sua soluzione per questo paradosso. Nel cristianesimo, la risposta è l’incarnazione. Dio è trascendente, ma c’è una “persona” di

Dio che si è resa immanente, persino umana. Di qui la pos- sibilità delle icone. Nell’Islām esiste una sorta di deificazione