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Apollo e la critica alla mitologia nel II libro

APOLLO ALL'INTERNO DELLA REPUBBLICA PLATONICA

4.3 Apollo e la critica alla mitologia nel II libro

Il problema che si poneva Platone aveva a che fare con la rielaborazione e razionalizzazione della religione tradizionale, fornendo ad essa una collocazione subordinata rispetto alla filosofia.

La Repubblica si configura come il luogo di realizzazione di questo intento. A ciò è rivolta, in particolare, l'ampia sezione che nei libri II e III esamina criticamente la tradizione poetica e la mitologia, dedicando, è vero, il maggiore spazio ad un opera di demolizione di molte credenze popolari, ma riservando anche una parte ad una trattazione costruttiva nella quale sono delineati alcuni principi fondamentali di quella che possiamo denominare “teologia

razionale”.

Della religione di tipo misterico non si parla molto nella Repubblica. L'atteggiamento del filosofo verso le pratiche di religiosità ispirata è nettamente negativo; le pagine che più a fondo affrontano l'argomento si trovano nel libro secondo.

Prima di parlare dei Misteri, l'autore espone, con forte accento ironico e critico, il modo in cui i sostenitori della giustizia argomentano la superiorità di questa sull'ingiustizia e la maniera in cui essa viene ricompensata dagli dèi in questo mondo e soprattutto dopo la morte. E' dunque necessario condurre una vita virtuosa e retta in questo mondo terreno; (l'accento critico non è rivolto naturalmente contro la tesi della superiorità della giustizia, ma contro l'inconsistenza degli argomenti usati dai poeti per sostenere questa tesi appena espressa). In questo luogo troviamo affermazioni come quella che segue:

Museo e il figlio suo in nome degli dei concedono ai giusti beni ancora più splendidi: nel loro racconto li menano nell'Ade, li fanno giacere a mensa, preparano il banchetto dei pii e da allora per sempre li fanno vivere inghirlandati ed ebbri, ritenendo un'ebbrezza eterna il più bel premio di virtù227.

Il tono ironico è già evidentissimo, ma l'intonazione critica è ulteriormente chiarita più sotto, dove l'attacco contro Museo, Orfeo e i loro affini è ribadito in modo anche più esplicito228. Per

chiarire meglio il senso del passo riportato sopra nonché di quello che segue più avanti, è utile ricordare che, secondo le tradizioni correnti, Museo era discepolo o figlio di Orfeo e autore, come quest'ultimo, di canti di ispirazione orfica. Museo, secondo le tradizioni, è lo scolaro o semplicemente l'amico di Orfeo. Suo padre è Antifemo (oppure Eumolpo), mentre la madre sarebbe Selene. La leggenda narra che sia stato allevato dalle Ninfe. Museo, tramite i racconti mitologici e letterari, pare essere un gran musico ed anche un indovino; a lui si attribuisce,

227 PLAT. Resp. II 363c-d.

talvolta, l'introduzione in Attica dei misteri d'Eleusi. Fin dall'antichità molti poemi mistici portavano il suo nome. Quanto all'allusione al figlio di Museo, c'è la possibilità che essa sia diretta proprio ai Misteri eleusini, così come non si può escludere che il cenno critico all'ebrezza sia diretto contro i culti dionisiaci. A prescindere dalla esattezza dei riferimenti particolari, il tono critico si rivolge, nei confronti di tutta la religiosità ispirata di tipo misterico.

Questo tipo di religione è condannata dal filosofo soprattutto a causa del timore che ragionamenti immorali e fallaci derivanti da questi culti possano impadronirsi dell'anima dei giovani, i quali, essendo i futuri partecipanti, ma soprattutto, reggitori dello Stato ideale che il filosofo sta delineando nella Repubblica, non è il caso che si facciano coinvolgere da tali dottrine.

Nel libro secondo vi è poi una critica non solo, verso i poeti come Omero ed Esiodo, ma, anche verso la poesia in generale.

Platone sostiene che i miti più scandalosi non si dovrebbero raccontare neanche se fossero veri. A queste affermazioni generali segue un'ampia trattazione che sviluppa tali concetti. In essa Platone dimostra l'inconsistenza e l'inaccettabilità di una gran numero di miti. A cominciare dal mito di Urano e Crono229, i miti passati in rassegna e respinti come falsi e

inaccettabili sono molti e di ogni genere. Vengono rifiutate le tradizioni sulle guerre tra gli dèi, nonché sulle guerre tra dèi e Titani, tra dèi e Giganti; sono criticati e respinti i miti sulle inimicizie degli dèi tra di loro, e degli dèi nei riguardi di uomini ed eroi, così come altre tradizioni mitiche apparentemente meno scandalose.

A proposito della poesia, Platone, respinge nettamente l'apprezzamento positivo di questa come attività ispirata, che lui stesso aveva formulato negli scritti precedenti. Abbiamo già visto, in proposito, come egli collochi i poeti accanto ai vati, facendo loro oggetto della stessa critica sferzante; come quando, ad esempio, gli definisce ironicamente figli degli dèi230. D'altra

parte i poeti sono attaccati in forma generalizzata come i principali artefici di una mitologia falsa e inaccettabile. Il medesimo concetto è espresso ancor più chiaramente quando il filosofo, il quale ha ammesso che la prima educazione avviene tramite narrazioni mitiche; spiega quale genere di miti non si deve raccontare ai bambini:

Quelle, risposi, che ci hanno raccontate Omero, Esiodo e gli altri poeti. Hanno composto per gli uomini favole false, le hanno raccontate e le raccontano ancora.Ebbene, quai sono, fece egli, e che ci trovi da criticare?

Ciò che dà luogo, risposi, alla prima e maggiore critica, specialmente se non riesci a mentire bene.

E cioè? Quando nel racconto si rappresenti malamente quali somo gli dèi e gli eroi, così come fa un pittore che dipinge immagini per nulla somiglianti agli oggetti che voglia ritrarre231.

La Repubblica non bandisce i poeti né gli artisti in genere, anche se prescrive in maniera piuttosto rigida cosa devono dire e cosa non devono, di quali argomenti devono trattare e in quale forma, in funzione dei bisogni e delle finalità che la città si propone.

Nel corso del secondo libro, l'argomentazione che ci conduce direttamente ad Apollo è proprio incentrata sulla critica ai poeti come pretesi detentori di sapienza e verità. L'opinione di Platone nei confronti della poesia non si limita ad Omero ma si estende ad Esiodo, Eschilo, Pindaro, e più genericamente ai poeti “tragici” e “comici”. Essi sono giudicati in quanto compiono errori esprimendosi nei confronti di divinità ed eroi; ed inoltre perchè nei loro versi (sempre secondo Platone) si parla poco, e male, della verità e della virtù. Riportiamo di seguito un ulteriore esempio che chiarificherà l'argomentazione di Platone:

Invece le favole di Era messe in catene dal figlio, di Efesto fatto precipitare dal padre mentre accorreva a difendere la madre percossa, e di tutte le battaglie divine inventate da Omero, non si devono ammettere nello stato, abbiano o non abbiano queste invenzioni di carattere di allegoria. Il giovane non è in grado di giudicare ciò che è allegoria e ciò che non lo è: tutte le impressioni che riceve a tale età divengono in genere incancellabili e immutabili. Ecco perchè è assai importante che le prime cose udite dai giovani siano favole narrate nel miglior modo possibile con l'intento di incitare alla virtù232.

I primi anni di vita, nei quali il fanciullo apprende, sono fondamentali per la formazione dell'anima e del carattere. E' importante, quindi, che all'interno dello stato, i poeti siano in linea con l'ideologia dei governanti e non impartiscano insegnamenti che vadano oltre o che falsifichino il concetto di giustizia dello stato. Sarà compito dei fondatori dello stato fornire ai poeti i modelli sui quali basare i loro insegnamenti. I poeti infatti, non sono tenuti ad inventare le favole e neanche a dare una immagine erronea degli dèi, ai fanciulli, che sono chiamati ad educare. Allora parlando degli dèi dovranno rappresentarli sempre come sono realmente e soprattutto come portatori del bene e mai del male, anzi, Platone è molto chiaro quando, nel secondo libro, riferendosi alle divinità, si esprime così: <<le cause dei mali si devono cercare altrove che in lei>> 233. L'applicazione di questo precetto è portata all'estremo

poichè, nello stato, i poeti non si potranno permettere di narrare episodi nei quali la divinità ha compiuto azioni malvagie, anzi dovranno sempre trasmettere al lettore il medesimo (positivo) messaggio: <<la divinità non è causa di tutto ma solo dei beni>>234. Un ulteriore esempio si

troverà scorrendo verso la fine del secondo libro; esso permetterà di chiarire il concetto appena esposto:

232 PLAT. Resp. II 378d-e.

Nessuno racconti fandonie su Proteo e Teti né rappresenti in tragedie o in altri componimenti poetici Era trasfigurata e, come sacerdotessa, mendicante <<per l'alme figle dell'argivo Inaco fiume>>; e ci siano risparmiate molte altre bugie consimili. A loro volta le madri, persuase da costoro, non spaventino i bambini raccontando malamente le favole: non dicano che gli dèi s'aggirano di notte in sembianza di numerosi stranieri d'ogni sorta. Ciò per evitare insieme di bestemmiare gli dèi e di rendere più paurosi i fanciulli235.

I protagonisti del dialogo affermano, infatti, che gli dèi non sono esseri simili a stregoni, i quali, come scopo hanno quello di danneggiare la vita dell'uomo, bensì le divinità sono benevole, sempre, nei confronti dell'umanità.

Pur convenendo in in ciò che è appena stato espresso, Platone scrive:

Perciò pur facendo molte lodi di Omero non loderemo il passo in cui Zeus invia in sogno ad Agamennone; né il brano di Eschilo dove Teti dice che, cantando alle sue nozze, Apollo ne celebrava la felice figliolanza:

e le loro lunghe vite di malanni prive; e in tutto dicendo cara agli dèi la sorte mia il peana innalzò ad allietarmi il cuore.

Senza menzogna il divino credea io labbro di Febo, donde trabocca l'arte sua profetica;

e lui, lui che cantava, lui che era al convito, lui che così favellava, fu lui a uccidere il figlio mio.

Quando uno verrà a dire simili cose sugli dèi, ci inquieteremo e non gli concederemo un coro e non permetteremo che i maestri se ne valgano per educare i giovani, se è vero che i nostri guardiani devono diventare pii e divini quanto più è possibile a un uomo.

Io, rispose, convengo pienamente su questi modelli e me ne servirei come leggi236.

Zeus, per accontentare il desiderio di Achille fatto a Teti, invia ad Agamennone un sogno ingannatore, per incitarlo alla lotta contro Troia. Il comportamento di Zeus, in questo caso, non verrà lodato da coloro che si trovano ad essere i fondatori dello stato della Repubblica in quanto la divinità compie volontariamente un atto che mette in pericolo l'umanità conducendola ad un imminente scontro; e non sarà nemmeno permesso ai poeti o agli educatori ricordare questo episodio e quanto meno dedicare ad esso (che riflette un comportamento negativo della divinità) cori o componimenti perchè essi sono strumenti educativi.

La seconda parte della citazione fa riferimento ad un brano tratto da una tragedia di Eschilo, probabilmente una delle sue opere perdute che porta il titolo di Giudizio delle armi nella quale l'autore ricorre a Teti237. Teti, detta anche Tetide, era figlia di Nereo e di Doride. Promessa

sposa di Zeus, dovette rinunciare a tali ambitissime nozze quando, un oracolo di Temi, predisse che suo figlio sarebbe stato più grande del padre. Altre tradizioni attribuiscono questo oracolo a Prometeo, il quale avrebbe precisato che, il figlio, destinato a nascere dagli amori di Zeus e Teti sarebbe diventato un giorno padrone del Cielo. Teti, fu prescelta in matrimonio a Peleo, re di Ftia, l'unico mortale che seppe superarla in una lunga ed estenuante lotta in cui essa cercava di sfuggirgli, mutandosi di volta in volta in animale feroce o in acqua, fuoco ed altri elementi. Tutti gli dèi presero parte alle nozze di Peleo e Teti, tra cui anche Apollo,

portando splendidi doni. Teti aveva avvertito il figlio Achille di non sbarcare per primo sull'isola perchè sarebbe stato il primo a morire, e che semmai avesse ucciso un figlio di Apollo, sarebbe morto per mano di quest'ultimo (un servo chiamato Mnemone lo accompagnava al solo scopo di ricordargli ogni giorno la predizione della madre). Achille, allorchè vide Tenete che scagliava massi dall'alto di un promontorio contro le navi greche, raggiunse la riva a nuoto e lo uccise trapassandogli il cuore. Resosi conto, troppo tardi, di quanto aveva fatto, Achille condannò a morte Mnemone che non gli aveva rammentato le parole di Teti.

Ancora, quando Achille si irritò con Agamennone che gli aveva sottratto la concubina Briseide; Teti, implorò Zeus di far volgere le sorti della guerra in favore dei Troiani così che i comandanti greci fossero costretti a pregare Achille di tornare a combattere (è in questo momento che si presenta nella vicenda il cosiddetto “sogno ingannatore” sopra citato). Quando Achille venne ucciso per mano di Paride, la cui freccia alcuni miti narrano che venne indirizzata proprio da Apollo, Teti e un gruppo di Nereidi piansero amaramente la sua morte, mentre le nove Muse intonavano il lamento che durò diciassette giorni e diciassette notti.