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Proseguendo nell'analisi delle fonti, i trentatré componimenti tramandati sotto il titolo di Inni di Omero hanno ben poche caratteristiche comuni: sono scritti in esametri nella Kunstsprache omerica, e sono dedicati a divinità. Sotto molti altri aspetti, esistono differenze piuttosto notevoli. Alcuni inni contengono, dopo un esordio che annuncia il tema del canto e celebra le qualità del dio e della dea, una sezione narrativa più o meno ampia e segue poi una formula di congedo. Talora la chiusa contiene una brevissima preghiera, ma questa può essere implicita e non di rado manca: è noto del resto che gl'inni omerici non erano recitati durante cerimonie cultuali, bensì durante i festeggiamenti che accompagnavano queste cerimonie113. Talora si

attribuisce al termine “inno” un senso specializzato in rapporto al tema: Platone distingue <<inni per gli dèi, encomi per gli uomini egregi>>114.

L'inno III è dedicato ad Apollo. Esso è analogo all'Inno ad Hermes, entrambi hanno uno schema concettuale molto simile: narrano l'arrivo di un nuovo dio e la sua lotta vittoriosa per la conquista di adeguate technai. Sia Apollo che Hermes devono sconvolgere un assetto a loro preesistente, e quindi superare resistenze; esse si incarnano in antagonisti divini: ad Apollo si oppone Era (la quale tenta di impedirne perfino la nascita), a Hermes Apollo stesso. Il simbolismo del mito è evidente; non esiste, in realtà, un mondo prima di Hermes o prima di Apollo: i due nuovi dèi sono “figure” di un sentimento divino che è inscritto nella religiosità greca fin dai suoi albori; la dimensione ermetica e quella apollinea ne sono categorie primigenie115. Particolarmente importante è la prima parte del testo:

io mi ricorderò, e non voglio dimenticarmi, di Apollo arciere che fa tremare gli dei mentre giunge alla dimora di Zeus:

al suo avvicinarsi balzano in pieditutti, dai loro seggi, quando egli tende l’arco raggiante.

Leto soltanto rimane tranquilla, al fianco di Zeus signore del fulmine; ella poi scioglie la corda, chiude la faretra,

e, dalle forti spalle togliendo con le sue mani

l’arco, lo appende alla colonna presso cui siede il padre, a un chiodo d’oro; e conduce il dio a sedere sul trono. Ed ecco, il padre gli porge il nettare nella coppa d’oro salutando suo figlio; allora gli altri dei

siedono ai loro posti, e si rallegra la veneranda Leto poiché ha generato un figlio possente, armato di arco.

114 Resp. X 607a; Leg. VII 801e.

Salve, o Leto beata, poiché hai generato nobili figli: Apollo sovrano e Artemide saettatrice,

questa in Ortigia,

quello nella rocciosa Delo

piegandoti presso il grande monte, l’altura del Cinto, vicino alla palma, lungo le correnti dell’Inopo.

Come ti canterò, poiché tu sei celebrato in tutti gl’inni? Dovunque, o Febo, si offre materia al canto in tuo onore: e sulla terra nutrice di armenti, e nelle isole.

A te sono care tutte le cime, e le alte vette

dei monti sublimi, e i fiumi che si versano in mare, e i promontori digradanti nelle acque, e i golfi marini.

Forse, come dapprima Leto ti diede alla luce, gioia per i mortali, piegandosi presso il monte Cinto, nell’isola rocciosa,

Delo circondata dal mare? Da ogni parte i neri flutti battevano la spiaggia, al soffio sonoro dei venti. Di là muovendo, tu regni su tutti i mortali

Fra quante genti ospita Creta, e la terra di Atene, e l’isola di Egina, e l’Eubea gloriosa per le navi, ed Ege, e Iresie, e la marina Pepareto,

e il tracio Athos, e le vette del Pelio,

e Samotracia, e l’ombroso massiccio dell’Ida, Sciro e Focea, e l’arduo monte di Autocane, e la ospitale Imbro, e Lemno feconda,

e la sacra Lesbo, dimora dell’Eolide Màcare,

e l’impervio Mimante, e le alte vette di Corico, e Claro luminosa, e l’arduo monte di Aisagea, e Samo ricca di acque, e le vette eccelse di Micale, e Mileto, e Coo, città dei Meropi,

e l’eccelsa Cnido, e Carpato battuta dai venti, e Nasso e Paro e la rocciosa Renea:

per tanto spazio si aggirò Leto, già dolorante per il parto dell’arciere, chiedendo se una di queste terre volesse offrire una dimora a suo figlio. Ma esse tremavano e temevano molto, né alcuna osava

per quanto fosse prospera, ospitare Febo, finché la veneranda Leto giunse a Delo e, interrogandola, le rivolse parole alate:

«Delo, vorresti forse essere la dimora di mio figlio Febo Apollo, e accogliere in te un pingue tempio?

Nessun altro mai si occuperà di te, né ti onorerà;

e io credo che tu non sarai davvero ricca di armenti, né di greggi,

né porterai raccolti, né produrrai molti alberi. Ma se tu ospiti un tempio di Apollo arciere,

tutti gli uomini ti porteranno ecatombi

qui riunendosi; e da te sempre un infinito aroma di grasso si leverà, e tu potrai nutrire il tuo popolo

per mano di stranieri: perché non hai ricchezza nel tuo suolo». Così parlava; e Delo ne fu rallegrata, e rispondendo diceva: «Leto, augusta figlia del possente Ceo,

di gran cuore, in verità, la nascita del dio arciere

fra gli uomini; così invece diventerei famosa.

Ma, non te lo nasconderò, Leto, io sono preoccupata per questa voce: dicono infatti che Apollo sarà un dio oltre misura violento

e avrà un grande potere fra gl’immortali, e fra gli uomini mortali, sulla terra feconda. Perciò temo assai, nella mente e nel cuore,

che, quando egli vedrà per la prima volta la luce del sole,

dispregiando l’isola – poiché io sono invero una terra rocciosa –, calcandomi coi piedi mi sprofondi nelle acque del mare.

Allora gli alti flutti senza numero, sul mio capo, per sempre

mi sommergeranno, ed egli se ne andrà in un altro paese che a lui piaccia, per fare sorgere un tempio e un bosco sacro folto di alberi;

e i polipi su di me i loro covi, e le nere foche

le loro dimore faranno, al sicuro, perché io sarò deserta. Ma se tu volessi, o dea, farmi un solenne giuramento

che qui, prima che altrove, egli edificherà uno splendido tempio

destinato a essere oracolo per gli uomini; e dopo...fra tutti gli uomini, poiché certo egli sarà celebrato con molti nomi».

Così dunque disse; e Leto pronunciò il solenne giuramento degli dei: «Sia ora testimone di queste parole la terra, e l’ampio cielo sopra di noi, e l’acqua che si versa negli abissi, l’acqua di Stige – che è il più possente e il più tremendo vindice

per gli dei beati –:

in verità, qui esisterà sempre l’odoroso altare di Febo, e il suo santuario; ed egli ti onorerà più di ogni altra terra». E quando ella ebbe giurato, e pronunciato per intero la formula,

Delo gioiva profondamente per la nascita del dio arciere: ma Leto per nove giorni e nove notti da indicibili

dolori era trafitta. Le stavano vicine le dee, tutte le più grandi: Dione e Rea,

e Temi

di Icne, e Anfitrite dalla voce sonora,

e le altre immortali, ma non Era dalle bianche braccia: [ella infatti sedeva nelle sale di Zeus adunatore di nembi]. Soltanto Ilitia, che procura il travaglio del parto, nulla sapeva; sedeva infatti sulla cima dell’Olimpo, fra nubi d’oro,

secondo i disegni di Era dalle bianche braccia, che la teneva in disparte per invidia: poiché Leto dalle belle trecce

stava allora per generare un figlio nobile e forte. Ma le dee, dall’isola ospitale, mandarono Iride, perché conducesse Ilitia,

a questa promettevano una grande ghirlanda di nove cubiti, intrecciata con fili d’oro;

e ordinavano di chiamarla eludendo Era dalle bianche braccia perché questa, con le sue parole, non la distogliesse poi dal venire. E quando ebbe udito queste cose, la veloce Iride dal piede di vento116.

In attesa di Apollo, Leto sente che ormai è giunto il momento di partorire il figlio concepito con Zeus, ma nessuna terra vuole accoglierla, poiché tutte temono l’ira della gelosissima Era, legittima moglie del re degli dèi. Allora Leto si rivolge a Delo, allettando quell’isola spoglia e

infeconda con la prospettiva della fama e della prosperità che le recherà il culto del dio che sta per nascere. Dopo qualche esitazione, Delo accetta di dare i natali ad Apollo. La parte iniziale del testo, che celebra la nascita del dio nell’isola di Delo, risulta artisticamente pregevole e tocca punte di elevata liricità nella scena del travagliato parto di Leto, che stremata dalle interminabili doglie genera infine il dio aggrappandosi a una palma e puntando le ginocchia sull’erba di un prato. Inoltre il canto si schiude a un vivace squarcio autobiografico (inconsueto alla rigida impersonalità dell’epos) nell’apostrofe conclusiva rivolta dal poeta alle sue ascoltatrici; ed è qui che, forse per la prima volta in modo esplicito, il poeta epico afferma la funzione eternatrice della poesia, la quale renderà immortale sia la bellezza e la grazia delle fanciulle, sia colui che le celebra.

Come altre figure del pantheon ellenico, quella di Apollo assomma in sé caratteri ambigui e spesso contrastanti, dovuti anche al fatto che in essa confluiscono e si fondono attributi in origine appartenenti a diverse divinità: guaritore e distruttore, dio del micidiale arco e della cetra melodiosa, divinità solare ma capace anche di calare dall’Olimpo «simile a notte» (Il.1, 47), si può ben comprendere come egli, ancor prima di venire alla luce, susciti sgomento in Delo, lusingata dal privilegio che Leto le offre, ma anche atterrita dalla prospettiva di dare i natali a un dio anche violento. Questo non è l’Apollo del “conosci te stesso”, quello dei filosofi e dei poeti più tardi. Piuttosto, come altri antichi dèi, egli è qui personificazione della forza terribile e affascinante di una natura da cui l’uomo si sente dominato, una natura che è nello stesso tempo fonte di bellezza e di morte117. Poichè l'inno è bipartito in due sezioni

distinte, i vv. 177-178 hanno il chiaro aspetto di una formula di congedo e concludono il canto che ha per oggetto la nascita di Apollo a Delo e la celebrazione delle feste Delie118; a partire

dal verso 182, dopo una studiata transizione (vv.179-181), si innesta una seconda serie mitica, incentrata questa volta sull'arrivo del dio a Delfi, la fondazione dell'oracolo e l'uccisione della

117 CASSOLA F. (ACURADI), Inni Omerici, Milano 1975, p.81-85.

dragonessa.

L'Inno XXI invece corrisponde perfettamente allo scopo votivo e di invocazione alla divinità:

O Apollo, te il cigno canta soavemente, col battere delle ali, calando alla riva lungo il Peneo, fiume vorticoso;

te, reggendo la cetra armoniosa, l'aedo

dalla dolce voce primo ed ultimo sempre canta.

Così io ti saluto, signore, e ti rendo propizio il mio canto119.

Il componimento pone al centro la questione della musica, disciplina consacrata ad Apollo e alle sue Muse, come vedremo in seguito nell'inno a loro dedicato. Apollo partecipa alle danze degli dèi120, ma soprattutto le accompagna con la cetra121. Il legame di Apollo con la musica,

tuttavia, conduce oltre questo ambito, considerando, ad esempio, che in ogni caso la musica ha una parte essenziale nei riti della medicina primitiva: si ricordi il peana, e in generale il canto magico, capace anche di fermare le emorragie122. Infine, curioso in questo inno è

l'accostamento tra il cigno, animale sacro ad Apollo, e l'aedo.

L'Inno XXV Alle Muse e ad Apollo richiama elementi come il canto e un Apollo lungimirante che “colpisce lontano”, come recita il componimento:

Dalle Muse, da Apollo, e da Zeus, io voglio cominciare: grazie alle Muse, infatti, e ad Apollo che colpisce lontano, vivono sulla terra i poeti, che si accompagnano con la lira; e grazie a Zeus, i re. Felice colui che le Muse

hanno caro: dolce dalla sua bocca fluisce la voce. 119 CASSOLA F. (ACURADI), Inni Omerici, Milano 1975, vv.1-5.

120 Inno III 202.

121 Il. 603-4, XXIV 62-3. 122 Od. XIX 457-8.

Io vi saluto, figlie di Zeus; e voi date gloria al mio canto: io mi ricorderò di voi, e di un altro canto ancora.123

Le Muse sono figlie di Mnemosyne e Zeus. Non sono soltanto le cantatrici divine, quelle in cui i cori e inni rallegrano Zeus e tutti gli dei, ma presiedono al pensiero sotto tutte le sue forme: eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica, astronomia e sono le Muse della valle Elicona ad essere poste più direttamente alle dipendenze di Apollo. Esse non possiedono un ciclo leggendario proprio, intervengono in tutte le grandi feste degli dei124. Dall'analisi

degli Inni, dunque, si evince il racconto della nascita del dio, fondamentale per la comprensione della sua duplice patria: Delo e Delfi. Il santuaro di Delo, patria del dio, fu eclissato nel sesto secolo a.C. dalla fama di Delfi, seconda patria di Apollo il quale ci si insediò dopo aver ucciso Pitone. Ancora, essi lasciano emergere la molteplicità degli attributi della divinità, tra i quali spiccano l'arco in primis, la musica, l'arte della medicina e il grande rispetto rivolto alla divinità da parte della popolazione che lo accolse nella propria patria.

2.2 Pindaro

Pindaro è stato un poeta greco antico, tra i maggiori esponenti della lirica corale, sulla data della sua nascita si è incerti fra il 522 a.C. e il 518 a.C., si è spesso dedotta una sua origine aristocratica dal ramo degli Egidi in base a un passo della Pitica V125. Le sue opere sono

numerose ed utili per gli interessanti riferimenti ad Apollo che contengono. La copiosa opera poetica di Pindaro è giunta a noi in maniera parziale, la tradizione medievale ha conservato integralmente i quattro libri di epinici - canti per la vittoria che si collegano ad i grandi agoni

123 CASSOLA F. (ACURADI), Inni Omerici, Milano 1975, XXV Alle Muse e ad Apollo, vv.1-7.

124 CORDIÈ C., GRIMAL P., Mitologia, Milano 1988, p.430.

125 Il coro di essa rievoca l'istituzione delle feste Carnee (in onore di Apollo Carneo) a Cirene, ma il “noi” dell'enunciato si riferisce, piuttosto che al poeta, ai cittadini che compongono il coro di Cirene

panellinici- comprendenti le 14 Olimpiche, scritti per i vincitori dei giochi in onore di Zeus, 12 Pitiche, odi dedicate ai giochi in onore di Apollo, 11 Nemee, scritte per i giochi omonimi, e infine 8 Istimiche, epinici per i giochi dedicati a Poseidone. Negli Epinici, Pindaro cantò le vittorie della gioventù aristocratica dorica ai giochi panellenici che a scadenza fissa si tenevano a Olimpia, Delfi (i Pitici), Nemea nel Peloponneso e sull'Istmo di Corinto. Cantando i modelli di un ideale umano del quale l'eleganza atletica era solo una manifestazione, Pindaro dava conto, sicuramente con consapevolezza, di uno dei principali canoni dell'etica greca, quello che coniugava bellezza e bontà, prestanza fisica e sviluppo intellettuale: in fondo, i valori di quella educazione aristocratica alla quale egli stesso era stato formato. Interprete e mentore, quindi, della coscienza della grecità fusa in un'unica identità culturale interna alla costante presenza del mito come garanzia storica, Pindaro viene ancora oggi ricordato per i suoi “voli poetici”; egli, innalzando a livello sacrale la vittoria, paragonava il vincitore al dio stesso126. Decisamente numerosi sono i versi nei quali il poeta ricorre ad Apollo, a cominciare

dalla Olimpica III :

Persuase con la parola il popolo degli Iperborei servitore di Apollo:

con mente leale chiedeva per lo spazio ospitale di Zeus una pianta che fosse

pubblica ombra e serto per le vittorie.127

Gli Iperborei sono una mitica popolazione settentrionale sacra ad Apollo e immersa in una condizione di edenica serenità. Dopo la nascita di Apollo, Zeus, suo padre, gli ordinò d'andare a Delfi, ma il dio, con i suoi cigni, volò prima presso di loro dove restò per qualche tempo e

126 Non a caso la poesia di Pindaro, per Orazio, è inimitabile. PONTANI F.M., I Lirici corali Greci,

Torino 1976, pp. IX-XXXIX.

successivamente fece l'ingresso a Delfi. Nella Olimpica VI la divinità ricorre al vv. 35 e 49:

ed ebbe in sorte d'abitare l'Alfeo, dove la bimba crebbe e con Apollo gustò le prime carezze di Afrodite, ma non potè occultare sino in fondo a Epito il frutto ascoso del dio.

Da Evadne: <<E' seme – diceva- di Apollo e su tutti i mortali eccellerà quale indovino sapiente, né cesserà la sua stirpe.128

E ancora:

chiamando Poseidone possente, l'avo suo, e l'arciere che vigila su Delo eretta dai numi129.

Nelle sezioni di questa limpica sono ripetuti gli attributi della divinità, che Pindaro inserisce nelle vicende mitologiche (al centro dell'ode è quasi sempre un episodio mitico, ispirato da elementi legati all'occasione festiva ed esso viene presentato in forma di paradigma eroico dei valori e delle aspirazioni dell'aristocrazia coeva) di cui è quasi sempre presente come protagonista.

Nelle Pitica IV Apollo insieme a Pito130, e nella Pitica V ben tre volte notiamo il riferimento

mitico alla divinità:

[...]e accogli questo lieto coro d'uomini

128 FERRARI F., PINDARO, Olimpiche, Milano 1998, Olimpica VI vv.35-47 e 49-51.

129 FERRARI F., PINDARO, Olimpiche, Milano 1998, Olimpica VI vv.60-62.

di che s'allegra Apollo. Non scordare, se a Cirene ti cantano

nel viridario dolce d'Afrodite.

[...]quando levò la voce d'oltremare: gettò le fiere in un terrore truce Apollo, che lo guidò, per compiere

al sire di Cirene i vaticini.

[...]Più vasti templi eresse; per i cortei benefici d'Apollo

tagliò la piana, fece un lastricato.131

Le sezioni dell'ode ci raccontano di un triplice Apollo: ci immaginiamo dalla prima sezione un coro di uomini lieti cantare in onore del dio, mentre nella seconda sezione Apollo è contemporaneamente violento e lungimirante perchè esercita la sua sapienza oracolare; nella terza parte, infine, egli gode della gioia dei cortei a lui dedicati. Per quanto riguarda i Peana, nel più antico Peana IV, composto su committenza dei cittadini di Delfi (Per i Delfi a Pito) e destinato a essere eseguito presso il santuario di Apollo nell'ambito di un banchetto sacro offerto agli dèi e agli eroi, la narrazione pone in primo piano l'empietà del figlio di Achille che, dopo aver ucciso il vecchio Priamo rifugiatosi sull'altare domestico, viene giustamente punito con la morte da Apollo allorchè, venuto a Delfi, egli entra in contrasto con i sacerdoti del luogo:

[...]ma non più la cara madre

vide né, fra paterni campi, i cavalli dei Mirmidoni,

incitando la schiera dal bronzeo cimiero. Presso il Tomaro, alla terra dei Molossi, arrivò ma non sfuggiva né ai venti

né al nume lungisaettante dall'ampia faretra: perchè il dio giurò

che colui che trucidato aveva

il vecchio Priamo balzato sull'altare domestico né lieto alla sua casa

né alla vecchiaia della vita

sarebbe giunto. Lui con i ministri del culto venuto a lite per gli infiniti onori Apollo uccise nel suo recinto, presso l'ombelico ampio del mondo.132

Anche in Pindaro notiamo come sia fondamentale per l'uomo greco intessere una comunicazione (in questo caso lirica) con la divinità: essa regolarmente le feste, i giochi, le premiazioni, insomma, la sua presenza diretta o meno, sfiora tutti i momenti della socialità del cittadino. Dunque, gli dèi garantiscono l'ordine della città, Apollo è il grande nume civilizzatore che ha trasmesso agli uomini le arti della medicina, della musica, della profezia.