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L' Apologia di Socrate

APOLLO ALL'INTERNO DEI DIALOGHI PLATONIC

3.2 L' Apologia di Socrate

L'Apologia è la più credibile fonte di informazione sul processo a Socrate ed è un testo giovanile di Platone scritto forse tra il 399 a.C. e il 388 a.C.141. Socrate ha un legame

importante con Apollo in quanto il responso secondo cui egli è il più sapiente degli uomini proviene proprio dall'oracolo delfico; il filosofo, infatti si considera missionario al servizio del dio della divinazione ed il suo famoso motto “conosci te stesso” è il precetto del dio delfico.

E' nella Apologia di Socrate che è possibile trovare un segno concreto del precetto appena indicato:

Or ecco che un giorno costui andò a Delfi; e osò fare all'oracolo questa domanda: - ancora una volta vi prego, o cittadini, non rumoreggiate:- domandò se c'era nessuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che più sapiente di me non c'era nessuno. Di tutto questo vi farà testimonianza il fratello suo che è qui; perchè Cherofonte è morto. Vedete ora per che ragione vi racconto questo: voglio farvi conoscere donde è nata la calunnia contro di me. Udita la risposta dell'oracolo, riflettei in questo modo: “Che cosa mai vuole dire il dio? Che cosa nasconde sotto l'enigma? Perchè io, per me, non ho proprio coscienza di essere sapiente, né poco né molto. Che cosa dunque vuol dire il dio quando dice ch'io sono il più sapiente degli uomini? Certo non mente egli; chè non può mentire”. - E per lungo tempo rimasi in questa incertezza, che cosa mai il dio voleva dire142.

Il filosofo, sapendo di “non sapere”, non potendo credere a quella risposta cercò qualcuno che fosse più sapiente di lui: recatosi dai politici, i quali hanno fama di essere sapienti, li interrogò, per poi scoprire che essi in verità non erano in possesso della conoscenza che sostenevano di dominare. Pur rendendosi conto di attirarsi l'odio di coloro di cui confutava la sapienza, Socrate passò poi all'esame dei poeti e degli artigiani (termine che nella antica Grecia valeva per chiunque produceva un oggetto con la propria conoscenza). Egli scoprì che i primi non sapevano neanche di cosa stessero poetando, mentre i secondi per la loro conoscenza della propria tecnica si ritenevano sapienti in molti altri campi. Da questa ricerca nacquero le inimicizie verso Socrate e la sua fama di uomo sapiente: chiunque vedesse esposta la propria ignoranza pensava che Socrate sapesse. Il filosofo capì quindi che l'oracolo

aveva parlato in forma di enigma: Socrate è sapiente perché “sa di non sapere”, a differenza degli altri: la vera sapienza è puramente divina, e all'uomo non è dato raggiungerla.

Infatti il filosofo, conferma tutto ciò in prima persona:

Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell'uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usasse del mio nome come di un esempio; quasi avesse voluto dire così: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore143.

In conclusione sull'Apologia si può affermare che il dio delfico illumina la ricerca socratica: il filosofo comprende che l'uomo giusto è chi sa di non sapere ed ogni uomo che si trova in questa condizione deve solo rendersene conto e, all'interno della consapevolezza, costruire giorno per giorno la propria strada verso la conoscenza.

3.3 Il Protagora

Questo dialogo è dedicato al tema dell'insegnabilità della virtù e lo scopo principale del Protagora è quello di dimostrare l'inconsistenza della prassi educativa dei sofisti.

Anticamente il termine sophistes era sinonimo di sophos e si riferiva ad un uomo esperto, dotato di ampia cultura e conoscitore di tecniche particolari. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono sofisti quegli intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano dietro compenso: quest'ultimo fatto portò a giudicare negativamente la corrente. Nell'antichità, il termine era spesso posto in antitesi con la parola filosofia, intesa come

ricerca del sapere, un sapere socraticamente scevro da ogni certezza di possesso. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al successo e al denaro più che alla verità. Il termine mantiene anche nel linguaggio corrente un carattere negativo: con “sofismi” si intendono discorsi ingannevoli basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. Solo a partire dal XIX secolo la Sofistica è stata rivalutata fino ad essere, oggi, riconosciuta come un momento fondamentale della filosofia antica. Protagora e Gorgia fanno parte dei sofisti della prima generazione insieme a Prodico e Ippia. Argomento centrale del loro insegnamento è la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la morale, le leggi, le costituzioni politiche. Il loro intento è quello di educare i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici, e, per essere tali, oltre ad una buona preparazione, è fondamentale essere convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche.

Non è ancora l'alba quando Socrate viene svegliato dalla voce del giovane Ippocrate. Il motivo della visita è presto detto: Protagora, il celebre sofista, è giunto ad Atene e Ippocrate vorrebbe diventare suo allievo. Tuttavia per essere accettato, questi, necessita che qualcuno lo presenti al sofista. Ovviamente Socrate acconsente e accompagna il giovane, desideroso di poter discutere con il celebre maestro di virtù. Socrate mette in guardia il giovane dall'affidare la propria formazione a persone che, come i sofisti, non danno garanzie sulla validità dei propri insegnamenti. Essi sono infatti paragonabili ai mercanti che cercano di vendere la propria merce lodandola di fronte all'acquirente; pertanto, se bisogna stare attenti a non farsi raggirare quando si acquistano beni che riguardano il corpo, a maggior ragione si dovrà stare attenti per ciò che riguarda l'anima, poiché è molto facile ricavarne dei danni irreversibili. Giunto il momento in cui Protagora arriva alla casa di Callia, luogo in cui i due lo stavano attendendo, Socrate e il sofista intavolano una discussione che parte da questo interrogativo: E' possibile insegnare la virtù come si fa con le technai ?

Protagora risponde con un lungo discorso composto da due parti: un mythos e un logos. Il primo racconta la creazione degli esseri umani a opera dei due titani Prometeo e Epimeteo e

dell'intervento di Zeus allo scopo di fornire la giustizia all'uomo e l'invio di Ermes sulla terra. La narrazione mitica permette a Protagora di svolgere alcune considerazioni nel lungo logos che segue. E' infatti grazie al dono di Zeus, che sono sorte le città ed i mortali sono potuti uscire dalla condizione ferina. Proprio per mantenere questo status, i genitori educano fin dall'infanzia i figli alla virtù. Questa argomentazione mostra quindi che chiunque è in grado di apprendere la virtù come accade nelle technai, c'è poi chi si dimostrerà meno virtuoso degli altri.

Segue una riflessione sulle virtù, fino ad arrivare all'intermezzo dedicato all'analisi del carme A Skopas. Per svolgere questa analisi Callia, Alcibiade e Crizia, vedono come unica possibilità, quella di interrogare Socrate ponendogli delle domande. Pur controvoglia Protagora accetta la proposta e inizia a interrogare Socrate sulla poesia. L'analisi letteraria dei carmi più importanti e diffusi, in cui venivano trattati temi etici, era infatti una prassi educativa tipica della sofistica. Nello specifico Simonide critica una affermazione di Pittaco secondo cui sarebbe “difficile” mantenersi onesti. Ciò sembra, agli occhi di Protagora, una contraddizione, poiché Simonide aveva affermato in precedenza che difficile era diventare buoni. Socrate dimostra che anche Simonide era dell'idea che si compie il male non deliberatamente ma solo per ignoranza. E proprio a questo punto Socrate cita Apollo nel suo discorso insieme al tempio Delfico a lui consacrato, per poi concludere:

Per quale ragione dico questo? Per mostrare quale fosse l'ambito della filosofia antica: una certa qual brachilogia spartana; e, appunto, anche di Pittaco, nelle riunioni private, era frequentemente ripetuto questo detto, lodatissimo dai sapienti: <<difficile è mantenersi onesti>>144.

I sapienti qui nominati sono i cosidetti “Sette Savi ” (Talete di Mileto, Pittaco di Militene,

Briante di Briene, Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene, Chilone di Sparta). Essi consacrano il loro prezioso sapere al dio della mantica e la leggenda narra che i sapienti abbiano compiuto iscrizioni murarie nel santuario principe di Apollo: Delfi. Si indicano come i Sette Sapienti alcune personalità pubbliche dell'antica Grecia vissute in un periodo compreso tra la fine del VII e il VI secolo a.C. (tra circa il 620 a.C. e il 550 a.C.), esaltate dai posteri come modelli di saggezza pratica e autori di massime poste a fondamento della comune sensibilità culturale greca.

Nonostante siano in genere indicati tra i primordi della coscienza speculativa greca e compaia tra di essi colui che è solitamente considerato come il primo filosofo, Talete di Mileto, non tutti sono da considerarsi pienamente filosofi, poiché il loro interesse è principalmente rivolto alla condotta pratica e non alla speculazione. I singoli nomi sono rintracciabili anche in fonti più antiche, la maggior parte già in Erodoto, sebbene non compaiano come un gruppo a sé stante. I più importanti sono Talete, come filosofo e matematico, e Solone, come legislatore. Oltre all’attività politica presso le loro città-stato, a contribuire alla fama dei Sette Savi fu il patrimonio di sentenze e massime - vale a dire di osservazioni e consigli - a loro attribuite, che in seguito furono spesso citate nelle orazioni degli antichi. Del pensiero dei Sette Sapienti non ci è giunta, d'altra parte, alcuna opera organica, anche se è possibile identificare tratti comuni tra le singole sentenze, che si caratterizzano per la loro lapidaria laconicità. In questo dialogo, essi sono legati alla sentenza religiosa greco antica “conosci te stesso”, iscritta nel tempio di Apollo e appartenente alla sapienza delfica. La sentenza viene fatta risalire a quattro possibili, differenti origini: la Pizia stessa, sacerdotessa di Delfi; uno dei Sette Sapienti; oppure si pensa che fosse pronunciata dall'oracolo delfico e quindi attribuita ad Apollo stesso ed in ultima analisi riportata sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi quando questo venne ricostruito in pietra dopo essere stato distrutto. Diogene Laerzio, riferisce che Antistene la attribuì ad un certo Femonoe, dicendo poi che se ne appropriò Chilone145.

In ogni caso riguardo al significato, gli studiosi, anche se con alcune differenze, concordano sul fatto che con questa sentenza Apollo intimasse agli uomini di “riconoscere la propria limitatezza e finitezza”146. Nella analisi della Apologia abbiamo già osservato quali

fondamentali implicazioni filosofiche la sentenza abbia per Socrate. Oltre ai sette savi e alla esortazione del “conosci te stesso“, nella sezione presa in considerazione viene nominato il tempio di Delfi. Il Delphoi si estende sulle pendici del monte Parnaso, nella periferia della Grecia centrale, sede del più importate e venerato oracolo del dio Apollo, l'oracolo di Delfi. Il tempio risale all'età Micenea anche se non si conosce con certezza quando sia avvenuta la sua attribuzione ad Apollo. Dipendente dalla città di Delfi, a partire dal VI secolo a.C. il santuario passò sotto il controllo dell'Anfizionia, una lega sacrale che gravitava intorno al santuario; nel medesimo secolo il tempio fu distrutto da un incendio. Il suo interno è diviso in tre vani: il prónaos dal lato delle colonne ancora rimaste in piedi, il naós e l'opisthódomos. Il prónaos raccoglieva le “massime“ dei Sette Sapienti. Il naós, dalla pianta molto allungata, ospitava invece alcuni altari tra cui quello di Estia e quello di Poseidone. Un locale posto sotto il tempio fungeva da ádyton, il luogo dove la Pythia (anche Pizia) pronunciava gli oracoli. A sinistra l'immagine di una copia romana dell'omphalós, la pietra conservata nel tempio dove indicava il centro, l'“ombelico“ dell'intero mondo. Nell'antica Grecia la venerazione di Apollo interessa la sfera statale e quella privata. E' a lui che sono consacrati numerosi templi sparsi per la Grecia e molte sono le statue di culto che lo rappresentano. Una caratteristica del suo culto Apollo è quella di avere due centri interregionali, così da favorire una divulgazione quasi missionaria: Delo e Pito-Delfi; numerosi santuari del dio delfico e di quello pizio si trovano in diversi luoghi, spesso anche uno vicino all'altro. Dai templi periferici si inviavano spesso delegazioni al santuario centrale e questo ha favorito una grande relazione e senso di appartenenza comunitaria agli abitanti della grecia antica. Delo, la piccola isola priva di sorgenti, era il mercato centrale e il santuario comunitario delle Cicladi, la sperduta Delfi deve

la sua fama all'oracolo.

Socrate, affrontando la parte successiva del dialogo, dimostra che anche Simonide era dell'idea che l'uomo compia il male non deliberatamente, ma solo per ignoranza. Pittaco aveva sbagliato nel dire che mantenersi buoni è difficile: difficile è infatti divenire buoni, ma mantenere se stessi in tale condizione non è difficile, semmai divino. Il dibattito tra i due si conclude con la cosiddetta “tesi edonistica” secondo la quale il bene coincide con il piacere ed il male con la sofferenza, e, colui il quale obietta che il piacere immediato è da preferire a quello futuro si può rispondere che, come le grandezze lontane possono sembrare ad uno spettatore più piccole di quanto non siano, allo stesso modo i piaceri futuri possono sembrare inferiori a quelli immediati, pur essendo in realtà superiori. La “salvezza della vita” sarà dunque raggiungibile con una techne in grado di valutare i piaceri e i dolori in modo equilibrato, detta appunto “arte della misura”. Ma, se di techne si tratta, essa deve essere insegnabile, anche perchè, d'altro canto, la sua ignoranza è causa di male e quindi di dolore. Da tutto questo Protagora esce di fatto confutato, poiché nello sviluppo della discussione ha negato la sua affermazione iniziale, e cioè che la virtù è una techne. Concludendo sul Protagora e su ciò che è maggiormente significativo in questo dialogo per la nostra analisi riguardo ad Apollo, è il fatto che, il “conosci te stesso”, inserita nell'analisi filosofica, rappresenta un invito a non sconfinare in ruoli che non appartengono all'uomo e ad avere la consapevolezza della propria umana finitezza. Come rammenta Apollo allo stesso Poseidone, nell'Iliade, gli uomini non sono altro che:

miseri mortali che, come le foglie, ora fioriscono in pieno splendore, mangiando i frutti del campo, ora languiscono e muoiono147.

come lei. Non può essere un caso che una simile insistenza sia rintracciabile proprio nel dibattito con un sofista.

3.4 L' Eutidemo

L'Eutidemo è un dialogo in cui viene messa in scena una parodia dell'eristica. Questo vocabolo deriva dal greco erizein, “battagliare”, probabilmente per indicare l'arte di battagliare con le parole; essa rappresenta un'evoluzione della prima sofistica di Protagora e Gorgia. L'unico fine dell'eristica è quello di confutare il proprio avversario tramite l'uso dell'arte persuasiva retorica. Per questo motivo gli eristi si vantavano di poter confutare qualsiasi cosa che si dica essere vera o falsa.

In questo dialogo Platone mostra come i sofisti Eutidemo e Dionisidoro, due fratelli originari di Chio, utilizzino giochi di parole al fine di confutare il proprio avversario dialettico senza, tuttavia, minimamente interessarsi della validità oggettiva delle affermazioni o riguardo al significato delle parole che vengono impiegate. Il sofista, è dunque, un personaggio a cui non interessa la conoscenza delle cose, ma solo la vittoria dialettica sugli altri. Chiaramente ciò è in pieno contrasto con la filosofia socratica che concepisce la conoscenza come un momento di dialogo costruttivo nel quale gli interlocutori rinunciano o mettono da parte, i propri pregiudizi per ricercare insieme la verità. La disputa dialettica per questi sofisti è, al contrario, semplicemente un gioco che simula una battaglia nella quale è necessario avere la meglio a prescindere da ciò che si sostiene. Lo scopo di Platone, nel rappresentare un simile dibattito, è quello di difendere Socrate dalle calunnie che gli erano state mosse; a ciò inoltre si aggiunge l'intento polemico che Platone sembra avere nei confronti delle altre scuole socratiche, e in particolare quella di Euclide di Megara, il quale veniva accusato di essere a sua volta eristico e quindi lontano dall'insegnamento socratico, di cui Platone si presentava come l'unico erede legittimo.

Il dialogo prende avvio da una richiesta espressa da Critone a Socrate. Egli è un facoltoso cittadino ateniese, coetaneo, amico e allievo di Socrate, al quale domanda di raccontargli la discussione che ha avuto il giorno prima con i fratelli eristi Eutidemo e Dionisodoro. Il filosofo risponde elogiando ironicamente l'eristica, esprimendo il desiderio, malgrado l'età, di farsi loro discepolo e invitando Critone a fare altrettanto. Socrate narra come la discussione del giorno prima abbia avuto inizio con la presentazione al giovane Clinia dei due maestri di virtù provenienti da Chio invitati dal filosofo a dare dimostrazione della loro sapienza. Il nuovo sofisma, che si prende in considerazione, è dedicato ai rapporti parentali: Socrate dice di avere un fratellastro di nome Patrocle, con il quale ha in comune la madre ma non il padre; ora, poiché i due padri sono differenti, il sofista conclude che se uno è padre, l'altro, in quanto diverso dal padre, non sarà padre, e quindi Socrate non ha padre.

In questa sede, conclusa l'argomentazione di questo sofisma, Cteusippo e Eutidemo presentano un esempio nel quale Apollo entra in gioco indirettamente:

Lo saprai benissimo, disse: ma ora rispondi: poiché sei rimasto d'accordo nel sostenere che per l'uomo bere la medicina è un tal bene quando ne abbia bisogno, altro non resta che di un tal bene beva quanto più è possibile e che per lui ottima cosa sarà se gli si triti e versi una carrata di elleboro?- Ma sicuro Eutidemo!, disse, Ctesippo, tanto più se chi lo beva sia grosso come la statua di Delfi148.

L'elleboro era ritenuto un farmaco naturale contro la follia; la statua alla quale Eutidemo e il suo interlocutore fanno riferimento per compiere un paragone tra essa e un individuo molto alto e robusto, è la statua di Apollo, la quale in seguito alla battaglia di Salamina (svoltasi nel 480 a.C., in piena seconda guerra persiana) i Greci dedicarono al dio. Ancora una volta la

testimonianza di Erodoto ci conferma l'esistenza della statua e la sua altezza di oltre i cinque metri :

Gli Elleni non riuscirono a prendere Andro, e si diressero verso Caristo. Ne saccheggiarono il territorio, e si ritirarono a Salamina. Per gli Dei scelsero, fra le altre primizie, tre triremi fenicie- una da mandare per un offerta all'Istmo, dove ancora ai miei tempi si trovava, l'altra a Sunio, e l'altra per Aiace lì a Salamina -; questo per prima cosa. Poi si divisero il bottino e mandarono a Delfi le primizie, dal cui ricavato fu fatta la statua virile alta dodici braccia, con nella mano l'estremità di una nave; la quale sorge nei pressi della statua di Alessandro di Macedonia149.

E' necessario compiere una disambiguazione riguardo alla presenza della statua. Nel passo del dialogo viene nominata una statua a Delfi: qui era presente una scultura di Drero rappresentante la triade Latona-Apollo-Artemide scolpita sul timpano orientale, sopra l'ingresso del tempio di Apollo, situata in Delfi150. La grande statua dorata e monumentale si

trova invece a Delo, accanto al tempio di Artemide, il tempio di Delo venne eretto nel VI secolo a.C. . Nel dialogo sembra che, a causa dello stupore suscitato dalle dimensioni della statua, si faccia riferimento a quella di Delo, famosa per la sua imponenza; collocata invece a Delfi151. Nella seconda metà del V secolo a.C. l'orgoglio delle popolazioni elleniche era più