CAPITOLO 1 - LINEAMENTI DI SOCIOLOGIA SANITARIA
1.4. L’approccio relazionale al social work sulla salute e la care
1.4.2 L’approccio relazionale al lavoro sociale sul rapporto medico-paziente
Il tema del rapporto medico-paziente non è stato affrontato solo dalla sociologia della salute. Diverse sono le discipline che a vario titolo lo hanno trattato. Una di queste è il lavoro sociale, in particolare, l’approccio relazionale al lavoro sociale ha illustrato tale questione offrendo un punto di vista integrante rispetto ai modelli sin qui affrontati.
34 La definizione del rapporto medico-paziente di questo approccio affonda le sue radici nella teoria di Ivan Illich che non affronta direttamente il rapporto medico-paziente ma giunge a riflessioni articolate sul mondo medico, che abbracciano anche tale dimensione (Illich, 1977).
Illich sostiene che un rapporto autentico tra medico e paziente dovrebbe necessariamente recuperare la dimensione morale e umana e non focalizzare l’attenzione sull’aspetto tecnicistico e specialistico degli interventi.
L’autore nel testo “Esperti di troppo: le professioni disabilitanti” (Ivi) sostiene che gli “esperti” tra cui anche i medici, generano bisogni che sono il prodotto di una stretta oligarchia di persone che, se da una parte si propongono come guaritori, dall’altro tengono prigioniero l’uomo di istituzioni che dovrebbero guarirlo.
Dicendo al paziente come vivere, cosa fare per stare meglio, questi professionisti estirpano l’autonomia e il controllo della propria vita rendendo il malato dipendente da una casta e passivo rispetto ai suoi bisogni. Illich non nega il valore delle istituzioni che si occupano del benessere, contesta il modo di intendere le professioni sociali e sanitarie che si occupano di attuare strumenti di controllo sull’individuo invece che essere al servizio dell’umano. Così facendo i professionisti diventano disabilitanti per il malato che non viene curato nella sua globalità, ma viene affidato al lavoro di innumerevoli specialisti, che ne provocano ulteriori bisogni di osservazione e di ricerca di guarigione.
A tal proposito, egli chiama la seconda metà del Ventesimo secolo “l’era delle professioni disabilitanti”, un’epoca nella quale le persone avanzano dei problemi, gli esperti propongono soluzioni e gli scienziati misurano realtà sfuggenti (ad esempio abilità e bisogni). La sua tesi di fondo è che il crescente ricorso alla malattia quale chiave di lettura dei problemi sociali rappresenta una strategia alternativa che colpevolizza unicamente l’individuo di ogni questione che lo riguarda. Se il problema può essere trattato per via medica, allora la persona unica colpevole di essere “malata”, non dovrà far altro che seguire le prescrizioni di un professionista per “curarsi” e cambiare la propria condizione. In tal modo, secondo l’autore, i cittadini vengono privati della possibilità di esercitare le loro abilità per produrre un cambiamento di una propria condizione di vita.
Riprendendo la tesi di Illich, Folgheraiter (1998) individua due logiche di fondo quando si parla di relazione medico-paziente. La prima, una logica prettamente sanitaria/clinica, in cui il medico è l’unico esperto della patologia del paziente poiché ha studiato e conosce perfettamente il funzionamento del corpo e della mente, è in grado di individuare i sintomi (o se non è in grado da solo perché si tratta di una patologia complessa si consulta con altri colleghi), riconoscere e diagnosticare la patologia e quindi, di conseguenza, predisporre una prognosi e una cura per aiutare il paziente a uscire dalla propria condizione di malattia (Folgheraiter, 1998). In questo caso il paziente è considerato il portatore di malattia e come tale non è chiamato ad attivarsi in prima persona per
35 comprendere cosa non va. Semmai il suo compito è quello di recarsi dal medico, comprendere ciò che il medico dice ed acconsentire all’esecuzione delle prescrizioni fornitegli al fine di uscire e/o migliorare la propria condizione di patologia della quale è portatore. All’interno di questa logica, vicina all’idea parsonsiana del rapporto medico-paziente, c’è un evidente sbilanciamento di potere verso l’operatore. Qui il medico ha il totale potere sulla relazione e il paziente passivamente si trova in una posizione inferiore poiché si limita a eseguire le indicazioni del medico.
La seconda logica di auto-intervento e in questo caso è il paziente il solo esperto della propria condizione di vita poiché la vive in prima persona e sa cosa significa provare un determinato dolore, quindi si informa autonomamente, per esempio attraverso internet o altri strumenti tecnologici e successivamente, interpella l’esperto tecnico (il medico) per riferire della propria condizione e chiedere conto rispetto alle informazioni che ha reperito fino ad ora. Il medico in questa logica, si pone come un mero consulente attivato dal paziente, egli rinuncia al proprio potere per lasciarlo totalmente nelle mani del paziente che è posto difronte alle varie possibilità e ha la possibilità di agire in autonomia.
Qui il potere è sbilanciato al contrario, verso il paziente e il medico si pone come una specie di consulente al servizio totale del bisogno del paziente.
Entrambe le due logiche difficilmente sono presenti in maniera così delineata, tuttavia è possibile individuare la preponderanza di una o dell’altra nella maggior parte delle relazioni medico-paziente.
È evidente che in entrambe manca una parte fondamentale per la definizione della malattia e del suo decorso di cura: nella prima manca la considerazione del punto di vista del paziente e nella seconda del medico.
L’approccio relazionale al lavoro sociale vede un riequilibrarsi di potere tra i due, in una relazione, non più top-down o bottom-up, ma peer-to-peer, nella quale il punto di vista di entrambi gli attori coinvolti è ugualmente competente e importante ai fini del raggiungimento di un miglior benessere per la persona.
Da un lato, c’è il medico che, con le competenze tecniche legate al suo sapere appreso con lo studio e l’esperienza lavorativa, apporta un contributo fondamentale nella relazione aiutando il paziente a definire il proprio stato di malattia, il percorso di guarigione; dall’altro vi è il paziente, con le competenze esperienziali legate al suo saper vivere in una determinata condizione di patologia, conosce le proprie sensazioni, sa cosa riesce a fare o meno, come vive allo stato attuale e apporta un contributo fondamentale nella relazione, aiutando il medico a definire la malattia e il conseguente percorso di cura nel modo più appropriato possibile alle sue esigenze e al proprio vivere.
In questo modo il potere è condiviso ed entrambi sono fondamentali ai fini del cambiamento della condizione di malattia della persona (Folgheraiter, 2011). Medico e paziente sono così chiamati a
36 partecipare attivamente alla relazione, esercitando la propria porzione di potere ed assumendosi quindi la responsabilità che gli compete. A tal proposito Buber (1959, p. 67) afferma:
“La responsabilità presuppone qualcuno che mi si rivolge originariamente, dal fondo di un dominio indipendente da me e al quale debbo rendere ragione. Egli mi rivolge la parola a causa di una cosa che mi ha affidato e di cui io debbo prendermi cura”.
O ancora, riferendosi al racconto del Piccolo Principe (Saint – Exupéry, 1986) come insegnamento sulla relazione autentica e sul prendersi cura, il medico ha bisogno di essere “addomesticato” dal malato per conoscere la malattia, nella sua manifestazione concreta e comprendere a quale bisogno di salute dare una risposta efficace (Colucci e Pegoraro, 2016). Per contro, il malato ha a sua volta bisogno di essere “addomesticato” dal medico per capire la sua prospettiva scientifica e sapere come esprimere il proprio bisogno all’interno della relazione di cura. In questo processo di reciproca conoscenza e addomesticamento, “bisogna essere molto pazienti” (Saint – Exupéry, 1986, p. 94).
Serve tempo, ma, come ricorda l’autore francese: “è il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante… Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…” (Ivi, p. 98). Il tempo della relazione è a pieno titolo tempo “terapeutico”, nella misura in cui la sua concretezza dà pienezza e integrità all’esistere, dà salute in quanto umanizza e personalizza l’intervento assistenziale e questo lo rende efficace (Colucci e Pegoraro, 2016).
Il medico, nell’azione di cura, diventa responsabile del paziente, cioè chiamato a “dargli risposta” e in questo trova il significato per il proprio tempo. Tuttavia, in tale prospettiva, non va scordato che il paziente ha un’equivalente responsabilità relazionale nei confronti del medico che “addomestica”, in quanto contribuisce alla forma del suo esistere.
Medico e paziente, quindi, agiscono in vista di una finalità comune sviluppando una relazione duale di fronteggiamento che a sua volta fa emergere competenze nuove in entrambi (Folgheraiter, 1998;
2011). Questo approccio rileva un aspetto importante: l’operatore impara e riceve, nel corso della relazione, allo stesso modo dei propri interlocutori e il paziente è egli stesso operatore, perché fornisce apporti originali e imponderabili.
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