• Non ci sono risultati.

L’ospedale come organizzazione

CAPITOLO 3 – IL PEER SUPPORT IN OSPEDALE

3.1. L’ospedale come organizzazione

62

63 e di alta specializzazione), ospedali di insegnamento, ospedali centro di riferimento nella rete dei servizi di emergenza. Negli ultimi anni il focus pare spostarsi. Infatti, al centro ci sono: l’allocazione delle risorse finanziarie, l’efficienza, la qualità delle cure fornite che porta a un incremento di procedure standardizzate e burocratiche mai viste prima.

In sintesi, dopo la riduzione dei posti letto di degenza e la conseguente espansione delle strutture dedicate all’assistenza di tipo ambulatoriale e domiciliare, si sta assistendo a una progressiva decentralizzazione della gestione delle attività con un contestuale aumento dell’autonomia dei singoli ospedali, una maggior specializzazione degli stessi e una crescita delle associazioni tra ospedali. La necessità di garantire il diritto alla salute a ogni cittadino, come esplicitato dalla Costituzione Italiana, rappresenta la finalità superiore di tutto il sistema sanitario che ha visto mutarsi al proprio interno, nel tempo, il ruolo dei cittadini-pazienti, anche all’interno dell’ospedale.

3.1.1 Il sapere medico negli ospedali

Nel corso degli anni l’ospedale è sempre più diventato il “luogo del sapere medico” dove cioè la competenza del medico trova la sua massima espressione sia in termini di potere decisionale che amministrativo: è un medico a capo di un reparto ospedaliero e sempre un medico al vertice dell’azienda ospedaliera. Il sapere medico così si impone nel fronteggiamento di sempre più problemi con il rischio di finire per contrassegnare “malattia” ogni atto socialmente condannabile (Donati, 1990). All’estremo, questa concezione dell’ospedale, porta a quella che viene definita

“medicalizzazione della società” secondo cui i bisogni sociali sono tradotti in fattori clinici e viene attivata una risposta medica ad una domanda non medica, che comporta un appropriarsi, da parte del professionista sanitario, di richieste che non hanno nulla a che vedere con la cura del corpo e/o della patologia (Abbatecola e Melocchi, 1977). I due autori osservano un aumento delle domande che le persone portano al medico relativamente alla propria vita privata (vita coniugale, insoddisfazione nel lavoro, ecc.), ma una struttura ospedaliera che medicalizza il paziente offrendo sempre una risposta medica impedisce di vedere la dimensione globale della persona, di comprendere pienamente il paziente e di conseguenza di curarlo.

Il paradigma medico “in quanto forma specialistica del sapere e del fare” (Donati, 2003, p. 67) è ancora dominante all’interno dell’organizzazione ospedaliera. Esso annulla ogni forma di emancipazione del ricoverato da forme di controllo: questi “non complica le cose con reazioni personali, ma si adegua passivamente al potere dell’autorità che lo tutela” (Basaglia, 1981, p.287).

Per lungo tempo negli ospedali i pazienti sono stati considerati incapaci di parlare della propria malattia:

64

“… Si è dato per scontato che gli utenti di cure sanitarie, anche con periodi prolungati di ospedalizzazione, non fossero qualificati per elaboratori di domande e di esperienze cliniche e che solo i medici e altri diagnostici e terapeuti professionali fossero in grado di interpretare i bisogni dei pazienti” (Ardigò, 1999, p. 5)

Questa concezione passiva e asimmetrica del paziente come colui che è ammalato e quindi bisognoso di cure e incapace di definire il proprio bisogno, lo porta ad avere necessità di un luogo che totalmente si faccia carico di lui fino alla sua guarigione (Ibidem). È così, però, che l’ospedale rischia di diventare una “istituzione totale” peculiarmente caratterizzata da isolamento e spesrsonalizzazione come definito da Goffman (1961).

Queste istituzioni comportano una partecipazione coatta di coloro che ne fanno parte perché le attività sono “forzate” e organizzate secondo un unico piano razionale, imposte dall’alto e appositamente pensate per adempiere lo scopo ufficiale dell’istituzione.

“Lo staff possiede la voce dell’Istituzione. Essere ridotto a paziente, significa essere ridotti ad un oggetto di cui ci si può servire… ad un sistema relativamente chiuso che può essere pensato come patologico e correggibile. … Il ricoverato è escluso, in particolare, dalla possibilità di conoscere le decisioni prese nei riguardi del suo destino. … Due mondi sociali e culturali diversi procedono fianco a fianco, urtandosi l’un l’altro con qualche punto di contatto di carattere ufficiale, ma con ben poche possibilità di penetrazione reciproca… l’istituzione totale è il luogo nel quale si forzano alcune persone a diventare diverse” (Goffman, 1961, p. 124).

La predominanza del paradigma medico ha finito per portare le persone ricoverate a credere di essere davvero incapaci di fronteggiare la propria patologia. Questo ha generato però nel paziente l’aspettativa magica dell’onnipotenza del medico nel fronteggiamento di qualsiasi problema di natura clinica o no. Se il paziente sa di non poter avere voce rispetto alla propria malattia e alle strategie o cure per debellarla, si pone in una condizione di totale passività in cui il suo unico contributo si limita a eseguire gli “ordini” imposti dal medico, con la conseguenza di non sentirsi minimamente responsabile per l’esito del trattamento messo in atto e per le strategie provate.

Nel corso degli anni le ricerche e la letteratura hanno evidenziato come il miglioramento nel funzionamento dell’organizzazione ospedaliera possa contribuire alla guarigione del malato e quindi al miglioramento del suo benessere, di conseguenza la routine ospedaliera ha iniziato a convertirsi a una logica relazionale contraddistinta dal “criterio-guida della umanizzazione delle cure” (Giarelli, 2003) ispirata ad alcuni principi:

65 - esistono altri paradigmi oltre a quello medico che possono contribuire al mantenimento e/o

recupero della salute;

- il sistema complessivo delle cure non è unicamente definibile da professionalità mediche e sanitarie;

- la medicina ha il “ruolo di risorsa e mezzo che deve operare accanto e assieme al contesto sociale di aiuti relazionali al paziente” (Donati, 2003, p. 10).

L’ospedale quindi non è più l’unico luogo in cui si risponde alla domanda di salute ma esistono luoghi altri, territoriali, più o meno formali, setting assistenziali alternativi alla concentrazione ospedaliera di prestazioni specialistiche diagnostico-curative (Giarelli, 2003) e al suo interno vengono riconosciute diverse forme di sapere.

3.1.2 Il sapere esperienziale negli ospedali

Negli ultimi anni all’interno degli ospedali, in letteratura e nelle pratiche operative si è compreso che non è presente unicamente il sapere medico ma anche quello di altre figure formali e informali che contribuiscono alla definizione dello stato di salute e/o di malattia della persona stessa. In un’epoca nella quale:

“le persone scelgono, almeno in una certa misura, il proprio stile di vita e nella quale lo stato di salute è funzione, oltre che delle cure sanitarie, di fattori quali l’ambiente, i regimi alimentari, i luoghi di lavoro, i rapporti familiari e così via” (Zamagni, 2006, p. 20)

il trattamento manipolatorio e medicalizzante delle patologie è un’argomentazione ormai difficilmente sostenibile. Il sapere delle professioni sociali acquisisce maggior riconoscimento e credibilità anche tra i medici stessi che comprendono la necessità di concretizzare in prassi operative l’integrazione socio-sanitaria (Ivi). Un altro sapere “nuovo” sta iniziando a essere riconosciuto e valorizzato all’interno degli ospedali: è quello esperienziale, in capo non a professionisti tradizionalmente intesi, ma alle persone che direttamente hanno vissuto una patologia, che vengono quindi definite esperte per esperienza e dotate di competenze esperienziali, ossia capacità di conoscere e utilizzare in positivo la propria esperienza di malattia.

Una sfida importante per la promozione del sapere esperienziale è rappresentata dalla necessità, per gli ospedali, di aprirsi e collegarsi all’esterno, ai pazienti dimessi e ai loro familiari, bisogno imprescindibile per l’organizzazione che si prefigge di curare il paziente migliorandone il suo benessere.

66 A tal proposito, la Dichiarazione di Budapest (The Budapest Declaration on Health Promoting Hospitals, 1991) sancita dall’OMS, riporta al suo interno alcuni principi fondamentali per la promozione della salute all’interno dei presidi ospedalieri, tra cui:

- incoraggiare nei pazienti un ruolo attivo e di partecipazione, in funzione dei loro specifici potenziali di salute;

- incoraggiare nell’ospedale iniziative di partecipazione orientate al miglioramento della salute;

- mantenere e promuovere la collaborazione tra le iniziative di promozione della salute orientate alla comunità e le amministrazioni locali;

- migliorare la comunicazione e collaborazione con i servizi sanitari e sociali integrati nella comunità;

- aumentare le opportunità offerte dall’ospedale ai pazienti e ai loro familiari, attraverso i servizi sanitari inseriti nella comunità e/o gruppi e organizzazioni di volontariato;

- aumentare la disponibilità e la qualità dell’informazione, della comunicazione, dei programmi educativi e di apprendimento di abilità per i pazienti e i loro familiari.

Negli ultimi anni in Europa sono state varate normative regionali e nazionali (es. riforma sanità Gran Bretagna) che invitano e impongono all’ospedale di “aprire le porte”, aprirsi cioè al territorio verso la comunità, nell’ottica di completare il processo di deistituzionalizzazione iniziato alcuni decenni fa proprio con lo scopo di favorire una “presa in carico” territoriale per la persona, ridurre le disuguaglianze sanitarie e promuovere una rigenerazione urbana e rurale. In Gran Bretagna ne è un esempio la riforma della sanità e dell’assistenza del 1900 che ha cercato di operare un riequilibrio in favore del consumatore piuttosto che del “produttore” dei servizi socioassistenziali (Folgheraiter, 2003). Tale obbiettivo, secondo la legge, doveva essere raggiunto attraverso diverse strategie:

stimolando l’utente e chi lo assiste da vicino a partecipare attivamente al momento di valutazione;

imponendo agli enti gestori dei servizi sociali di consultare gli utenti, i loro carer e le organizzazioni di volontariato nella stesura dei piani assistenziali territoriali; introducendo procedure di reclamo a vantaggio dell’utente; istituendo unità ispettive da attivarsi per impulso dei cittadini che possono essere gli stessi utenti dei servizi.

67

3.1.3 Il coinvolgimento della comunità nell’ospedale

Nel Regno Unito, nei primi anni Novanta il coinvolgimento dei cittadini si è potuto sviluppare grazie all’adozione di una nuova visione nei confronti della cura da parte di alcuni enti locali più innovativi (Barnes e Wistow, 1994).

La visione di cui si parla è il principio di community care, secondo il quale le persone hanno il diritto a essere “curate” per quanto possibile all’interno del proprio contesto territoriale di riferimento (Folgheraiter, 2009).

La finalità di questo principio è quella di favorire una maggior vicinanza della comunità territoriale di riferimento all’organizzazione sanitaria e un esercizio del diritto di cittadinanza nel pieno rispetto delle politiche di community care che hanno sostituito quelle di residential care (Barnes e Wistow, 1994).

La community care pone al centro l’importanza per la persona di continuare a vivere nel proprio contesto di vita e di conseguenza la possibilità di curarsi, ove possibile, presso la propria abitazione o nei pressi della stessa. In tal modo, tutta la comunità diventa responsabile di presa in cura della persona.

L’altra finalità del processo di “apertura delle porte dell’ospedale”, cui si è fatto riferimento nel sotto-paragrafo precedente, è quello dell’esercizio di cittadinanza. Gli utenti dei servizi sociali e sanitari, spesso, si trovano esclusi dalla cittadinanza, in termini di effettiva riduzione dei diritti in essa ricompresi ma anche per effetto dell’esistenza di organizzazioni, come quella ospedaliera tradizionalmente intesa, che rendono impossibile per la persona, la realizzazione dei propri sostanziali diritti di cittadinanza (Plant, 1992; Van Steenbergen, 1994). La cittadinanza riguarda sì il possesso di determinati diritti e corrispondenti doveri, ma soprattutto la capacità di partecipare alla vita della comunità, delle organizzazioni di cui i cittadini stessi fanno parte. La partecipazione, come precedentemente descritto (capitolo due), dà alle persone la voce, consente loro di sentirsi considerati e degni di avere un’opinione su una determinata questione che li riguarda. Promuovere la partecipazione delle persone (pazienti e chi si occupa di loro) significa quindi favorire una maggior responsabilità sociale e un modo per promuoverla è proprio quello per gli ospedali di aprirsi alla comunità, avvicinarsi ad essa.

Barnes e Wistow (1994) ritengono che l’azione collettiva degli utenti dei Servizi, in tal caso si potrebbe dire i pazienti degli ospedali, fornisca uno strumento mediante il quale la cittadinanza possa essere espressa in tre modalità:

- attraverso l’affermazione di diritti sociali associati allo status di cittadinanza (Mashall, 1950);

- offrendo un tavolo di discussione nel quale gli individui esclusi possono contribuire alla pratica della cittadinanza (Lister, 1998);

68 - premendo affinché la “rendicontazione” dei servizi pubblici verso i loro cittadini sia più

efficace (Ranson e Stewart, 1994).

L’idea di cittadinanza estesa che si va affermando negli ultimi anni, si fonda su principi di relazionalità e interdipendenza, intragenerazionale e intergenerazionale, rispetto ai quali le persone con una patologia possono offrire un contributo peculiare, partendo dall’espressione del proprio punto di vista (Barnes e Wistow, 2004).

Un esempio di realizzazione di tale “apertura” può essere quello della nascita, in Italia, dell’associazione italiana volontari in ospedale formalizzatasi con l’avvento della L. 833/78, che sancisce la presenza di volontari all’interno di strutture pubbliche sanitarie. L’associazione è nata da un bisogno concretamente rilevato da un medico:

“Un lamento proveniente da un letto di corsia dell’ospedale del Policlinico di Milano, aveva attirato l’attenzione di un medico che stava attraversando un reparto. Era un pomeriggio dell’estate 1975 e il professor Erminio Longhini, primario medico dell’ospedale di Sesto San Giovanni, si avvicinò al letto in cui giaceva una donna, che con un flebile ma insistente gemito continuava a chiedere un qualcosa di tanto semplice quando indispensabile: un bicchiere di acqua.

Il professore vide che nessuno si era avvicinato per accogliere la sua richiesta. Le altre ricoverate erano indifferenti così come l’inserviente, che stava pulendo il pavimento al centro della sala.

Quando il medico domandò a quest’ultima come mai non si preoccupasse di portare un po' d’acqua alla povera signora, la risposta fu: non tocca a me. Questa affermazione fece a lungo riflettere il medico e la sera stessa ne volle parlare ad un gruppo di amici, che proprio in quel periodo si ritrovavano regolarmente per cercare di dar vita a qualcosa che portasse solidarietà, aiuto materiale e sostegno morale a chi si trovasse nel bisogno. Questo qualcosa si concretizzò nella risposta: tocca a loro.”4

È questo il breve racconto della nascita della prima associazione italiana di volontari in ospedale. La consapevolezza dell’esistenza di altre competenze e saperi, al di là di quello medico, insieme alla necessità di aprirsi al territorio e a quella di avere cura (e non semplicemente curare) della persona ricoverata, ha portato all’ingresso dei cittadini negli ospedali, con un ruolo, definitosi e più o meno qualificatosi, nel corso del tempo.

La crescita della partecipazione alla “sfera pubblica”, che si traduce in una sfida per tutti i funzionari pubblici abituati ad agire con l’indiscutibile status di esperti, ha facilitato l’avvio di nuove strategie di intervento in ogni ambito delle politiche pubbliche, comprese quelle sanitarie. Un esempio sono i programmi di peer support all’interno dell’ospedale oggetto della ricerca di seguito presentata.

4 www.avotorrepellice.jimdo.com (ultima consultazione in data 29/08/2016).

69

3.2 Quadro concettuale di riferimento del peer support in ospedale